Filosofia (art. Alimentazione e sport)

Alimentazione e sport

Lo sport, sin dal mondo greco, è portatore di valori, è un punto di partenza per una ricostruzione etica della società. Lo sport è, per natura, indefinibile, non esiste una definizione universalmente accettata di sport. Ciò che è comune tra le discussioni metafisiche sullo sport è il suo rapporto con il gioco e il suo rapportarsi ad una natura sociale. Secondo lo storico olandese Johan Huizinga il giocare è “una attività libera consapevolmente praticata fuori dalla vita ordinaria come qualcosa di non serio, ma che al tempo stesso coinvolge il giocatore intensamente e profondamente. Si tratta di un’attività non connessa con alcun interesse materiale, e nessun profitto può essere acquisito da essa. Esso procede entro i propri confini appropriandosi del tempo e dello spazio secondo, seguendo regole fisse e in modo ordinato. Huizinga, successivamente, perfezionò tale tesi affermando che il gioco è un elemento soggettivo e non può essere inteso come un’entità oggettiva. Una visione metafisica del rapporto tra sport e gioco è importante, perché il gioco è generalmente considerato come un bene e si pensa che lo sport può beneficiare del preservare le sue caratteristiche di gioco. Per esempio, osservando che il gioco è essenzialmente volontario, si può supporre che costringere un bambino a praticare uno sport diminuirà la sua esperienza. Allo stesso modo, attraverso la comprensione che il gioco è autotelico si può spiegare perché lo sport utilizzando strumentalmente il denaro o la fama, può essere dannoso. Il filosofo austriaco Wittgenstein, nel libro Ricerche filosofiche, scrive un importante paragrafo sul gioco:

<<Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo “giuochi”. Intendo giuochi da scacchiera, giuochi di carte, giuochi di palla, gare sportive, e via discorrendo. Cosa è comune a tutti questi giuochi? Non dire deve esserci qualcosa di comune, ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti. […] E il risultato di questo esame suona: vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo.>>

Quindi anche per Wittgenstein è difficile definire l’ontologia di un gioco e di conseguenza dello sport. Possiamo quindi affermare che i vari giochi sono accomunati da qualcosa, come la libertà, la volontarietà, o il divertimento, tuttavia darne una definizione precisa sarebbe pericoloso e riduttivo. Uno dei maggiori problemi della metafisica filosofica è la questione della mente e del corpo o, più in generale, la natura delle persone, in questo caso la natura degli atleti. Cartesio riprendendo la tradizione aristotelica, formalizza il dualismo mente-corpo e subordinando il corpo alla mente puramente razionale, ritiene il corpo come una entità meramente meccanica e fisica. Questo modo di pensare ha influito fortemente nel pensiero moderno ed ha portato ad una netta scissione tra filosofia e sport, fino al Novecento, quando oltre a riscoprire un antico legame tra filosofia e sport, si sono aperte le porte della competizione, anche olimpica, alle donne, ai disabili, alle persone competenti ma fisicamente più deboli. La tradizione filosofica orientale, invece, unisce il corpo e la mente. Infatti per la religione buddhista lo stato d’animo di una persona si rivela nel suo aspetto fisico: il vissuto interiore di qualcuno che si trovi in uno stato gioioso e ottimistico si può leggere nel suo viso, o anche nella sua andatura. Di conseguenza, gli sport tradizionali orientali uniscono la preparazione atletica con lo sviluppo della virtù spirituali. Il tema dello sport viaggia a stretto contatto con la buona e sana alimentazione; non solo dello sportivo, ma dell’uomo in generale. L’alimentazione difatti costituisce un argomento di fondamentale importanza nella filosofia. Per la Filosofia occuparsi di cibo è una cosa scontata. Perché esiste uno stretto legame tra la scienza del pensiero e l’azione concreta del mangiare. Il tema inizia a farsi strada con la teoria socratica che limita la dimensione umana alla sola anima. Platone riprende questo concetto nel Fedone, considerando vita vera solo quella fuori dalla prigione del corpo. Al contrario, quando Epicuro elabora la teoria del piacere, s’immagina persone sagge che passano il loro tempo banchettando in campagna e parlando di filosofia.
“La filosofia si occupa del cibo perché si occupa del corpo e di cosa sia l’umano”.

LA FILOSOFIA E LO SPORT

La filosofia e lo sport hanno in comune la capacità di mettere in discussione ciò che è dato per scontato, e questa caratteristica comune la possiamo ritrovare già nell’antica Iliade di Omero (IX-VIII secolo a.C.) in cui l’obiettivo delle varie gare narrate era quello di dimostrare il proprio valore pubblicamente, infatti gli atleti si mettevano in discussione al fine di meravigliare lo spettatore (lo stupore ha dato origine anche alla filosofia). Non solo nell’ Iliade troviamo numerosi riferimenti al vigore fisico, alla destrezza, alle abilità sportive, qualità che hanno portato alla nascita di una faida interna distruttiva, ma anche nell’ Odissea (8.97–253 ca.) 725 a.C. : 

<< Odisseo è appena arrivato sulla terra dei Feaci, dal re Alcinoo, il quale dopo averlo ristorato dice: “Cerchiamo invece di uscire e deviare noi stessi con vari concorsi atletici così che quando il nostro ospite va a casa vi dirà ai suoi amici come superare gli altri nel pugilato, nel salto e nel podismo.” Così parlava e uscì, e una folla di migliaia di persone lo seguiva, e molti giovani robusti si alzarono in piedi per disputare come concorrenti. Il primo concorso fu una corsa. Essi scattarono dalla Nissa, e volarono in una nuvola di polvere attraverso la pianura. Klytoneus vinse; lasciò gli altri dietro per la larghezza di un campo che una squadra di muli può arare in un giorno. Successivamente cercarono la lotta dolorosa, e Eurialo era il migliore di tutti. Amphialos saltò più lontano, e Elatreus vinse facilmente con il diskos. Nella boxe il vincitore fu Laodamante figlio di Alcinoo. Quando tutti avevano goduto i concorsi, Laodamante disse ai giovani: “Hey Ragazzi! Andiamo a chiedere allo straniero se conosce tutti gli sport e se è in grado di dimostrarci qualcosa. Egli è ben costruito, e guardando le sue cosce e polpacci, così come le braccia e il collo, deve essere forte. Non è così vecchio anche se egli ha un aspetto logoro dalle difficoltà.” […] Laodamante andò in mezzo alla folla e si rivolse a Odisseo: “Non vuoi, signore, provare qualche gara, sempre se si sa una qualsiasi, ma si ha l’aspetto di un atleta per me. Non c’è più grande fama per un uomo di quella che vince con il suo gioco di gambe o l’abilità delle sue mani. Date una prova ora e mettete via le vostre preoccupazioni. Il vostro viaggio verso casa è pronto, e abbiamo già preparato per voi una nave e l’equipaggio.” Ulisse gli rispose: “Laodamante, perché voi giovani tizi mi prendete in giro con un tale invito? Il mio cuore è pronto alla sconfitta dei giochi, perché ho faticato a lungo e sofferto molto. Io sono qui nel vostro incontro solo come supplice dal tuo re e il tuo popolo per ottenere il mio passaggio a casa.” Poi Eurialo intervenne e sogghignò verso di lui: “Come la vedo io, straniero, non sei bravo nello sport come un vero e proprio uomo. Ti spacci come un maestro di marinai, uno che commercia da porto a porto senza pensieri per nulla, e soprattutto senza guadagni. Tu sei un atleta.” L’ astuto Ulisse lo fulminò con lo sguardo e tuonò: “Tu non sei un gentiluomo, signore! Ti comporti come una zolla! E’ così vero che gli Dei non danno la grazia totale, una dotazione completa di bellezza e ingegno, a tutti gli uomini allo stesso modo. Ci sarà un uomo che è inferiore alla media in costruzione, ma gli Dei saranno così grandi da coronare le sue parole con un fiore di bellezza che tutti coloro che lo sentiranno verranno scossi. […] Un altro uomo sarà bello come gli Dei, ma mancherà un filo di fascino attorcigliato nelle sue parole. Prendete voi stessi, per esempio: un capolavoro in cui il corpo nemmeno un dio potrebbe migliorare, ma vuoto nella testa. Il tuo sbeffeggiarmi ha fatto il mio cuore battere più forte. Io non sono sempliciotto nello sport, come si dovrebbe essere. Anzi penso di essere stato tra i migliori nel mio tempo, ma ora vivo nel dolore e nella miseria, dopo aver rischiato e sopportato molto nelle guerre tra gli uomini e la natura selvaggia del mare. Eppure, nonostante le devastazioni di queste cose cattive accetterò le vostre prove di forza. Il tuo ghigno e le tue parole mi hanno irritato, mi hanno punto.” Parlò e balzò in piedi ancora vestito e prese un diskos che era più grande e più pesante di quello che i Feaci avevano scagliato tra di loro. […] Vorticoso, si scagliò dalla sua mano potente, e la pietra fischiò attraverso l’aria. >>

Questo brano tratto da Miller ci mostra come, già nell’ epoca di Omero, il competere, il gareggiare, oltre allo stupire il pubblico, aveva un valore intrinseco, ossia quello di mettere in discussione se stessi, un po’ come fa la filosofia al fine di superare delle paure o degli ostacoli che la nostra mente, o nel caso di Ulisse, le varie fatiche, hanno dovuto conoscere. La filosofia come pratica è molto più recente di quella dello sport; essa si è sviluppata in Grecia circa due secoli dopo la fondazione dei Giochi Olimpici. Gli antichi filosofi greci hanno discusso di atletica e ginnastica, esaltando le potenzialità educative dello sport e la sua straordinaria capacità di contribuire allo sviluppo della cittadinanza e della politica. Se fossimo atleti nella Grecia antica, in preparazione per i giochi di Delfi, presso il tempio d’ Apollo troveremmo scritto in alto: “Conosci te stesso”. Monito del filosofare di Socrate e che, posto nel luogo dove si svolgono i giochi olimpici, ci fa capire come anche la pratica agonale si ispiri a un motto filosofico. Altro monito che potremmo trovare è “niente di troppo”, che è un inno alla moderazione, al non eccedere, tipico della filosofia greca, quindi stoica. Nel costruire il suo stato ideale Platone, ex lottatore e amante della filosofia quanto dello sport, è molto interessato all’educazione dei giovani. Questa educazione deve iniziare con la madre in attesa mantenendo il feto in uno stato di costante movimento, per poi continuare fino a quando il bambino ha raggiunto l’età di tre. Per i successivi tre anni il bambino deve essere sorvegliato nel gioco, strettamente regolamentato. All’età di sei anni, per i ragazzi e ragazze, può iniziare la stessa istruzione, sotto la supervisione di funzionari eletti di almeno cinquanta anni di età in tre palestre di esercitazione e di campi pubblici distribuiti per la città. Socrate, infatti, girava molto nelle palestre, poiché egli sosteneva che la ginnastica non solo aiutasse il corpo, ma anche la mente. Per Platone in palestra non doveva essere insegnato solo l’addestramento ginnico, inteso in senso fisico, ma piuttosto inteso come una virtù morale, che apparterà un giorno ai futuri custodi dello Stato o ai re-filosofi. Secondo Platone lo sport era democratico, ossia accessibile a tutti; uomini e donne. L’ introduzione quindi di un tema etico complicato risale già all’epoca di Platone, così come il problema dell’inganno sportivo, il quale essendo considerato una offesa contro gli dei, prevedeva oltre alla squalifica un’ingente multa. Passando ad Aristotele, invece, abbiamo una forte esclusione del mondo femminile dallo sport, poiché egli riteneva necessaria la presenza della “phrònesis”, qualità maschile, che permetterebbe a ciascun individuo di distinguere il bene dal male e di evitare il male, in modo da essere un cittadino “virtuoso”, “prudente” e quindi anche a livello sportivo un individuo giusto e leale. Aristotele, nel libro la Politica (325 a.C.) scrive rifacendosi un po’ a Platone: “E’ perlomeno chiaro che ai giovani devono insegnare quelle cose utilitaristiche che sono assolutamente necessarie, ma non tutto ciò che è utilitaristico. Una distinzione deve essere fatta tra quelle attività che sono liberali e quelli che non sono liberali; vale a dire, lo studente non dovrebbe partecipare a quelle attività utilitaristiche che portano alla volgarità. E’ necessario definire volgare qualsiasi esercizio o artigianale o scienza che rende inutile il corpo o l’anima o la mente di uomini liberi per la pratica dell’areté. Così noi chiamiamo volgare quei mestieri che deteriorano le condizioni del corpo e quelle occupazioni che ci portano al guadagno di salari, perché rendono la mente preoccupata e degradata. […] Ci sono essenzialmente quattro settori dell’istruzione: lettura e scrittura, esercizi fisici, musica, e il quarto, secondo alcuni, il dis disegno. Lettura, scrittura e disegno sono importanti perché sono utili nella vita e funzionali. L’educazione fisica è importante perché contribuisce alla virilità. Ma qualcuno potrebbe mettere in dubbio la musica. […] Si tratta, quindi, di trovare un accordo sul come dovremmo fare uso dell’esercizio fisico. Fino alla pubertà esercizi più leggeri dovrebbero essere applicati, e diete forzate e necessari lavori dovrebbero essere vietati in modo che non vi sia alcun ostacolo alla crescita. Non vi è alcuna piccola prova che tale formazione possa arrestare la crescita. Per Aristotele, quindi, troppo esercizio fisico è scorretto e la forza di chi si allena troppo duramente in gioventù è derubata dagli esercizi richiesti. Tuttavia ciò si rende necessario per chi vuol incrementare il proprio valore.

Nella filosofia dell’antica Roma, lo sport non è stato mai esso stesso oggetto di ricerche serie; tuttavia abbiamo alcuni famosi esempi di come lo sport e il vigore fossero centrali nella vita romana. Svetonio, nelle biografie dei primi dodici imperatori, ci racconta dei “giochi” trionfali messi su da Cesare nel 45 a.C. Da lì si evince un’idea dello stato romano e l’importanza dell’atletica nei confronti delle altre forme di intrattenimento nella società romana. Svetonio scrive che gli spettacoli pubblici di Cesare erano di vario genere. Tra questi vi era un combattimento di gladiatori, degli stage di giochi in ogni quartiere di Roma eseguiti in tutte le lingue, le corse dei carri nel circo, varie gare di atletica, e una battaglia navale finta. Oltre a Svetonio abbiamo Galeno, il quale ha iniziato la sua carriera come gladiatore oscuro e poi come allenatore medico, diventando alla fine medico di corte dell’imperatore Marco Aurelio. Egli riflette le pratiche del suo tempo e scrive:

<<I più eminenti filosofi e medici dell’antichità hanno discusso in modo adeguato i benefici per la salute di esercizi di ginnastica e di dieta, ma nessuno ha mai stabilito la superiorità degli esercizi con la palla. Credo che il migliore di tutti gli esercizi è quello che esercita non solo il corpo, ma rinfresca anche lo spirito. Gli uomini che hanno inventato la caccia erano saggi e conoscono bene la natura dell’uomo, perché mescolano i loro sforzi con il piacere, la gioia, e la rivalità. Ci sono particolari vantaggi negli esercizi con la piccola palla come vorrei ora mostrare. In primo luogo è la sua convenienza. Se si pensa a quanto tempo è necessario per le attrezzature per la caccia, si sa che nessun politico o artigiano possa partecipare a tali sport, quindi c’è bisogno di un uomo ricco con un sacco di attrezzature e tempo libero. Ma anche l’uomo più povero può giocare a palla, perché non richiede reti, né armi, né cavalli, né cani da caccia, ma solo una palla. Non interferisce con altre attività di un uomo e non lo induce a trascurare nessuna di loro. E cosa c’è di più conveniente di un gioco in cui tutti, non importa la sua condizione o di carriera, può partecipare? Troverete anche che è il miglior esercizio completo. Per gli altri esercizi troverete che uno è violento, un altro dolce; uno che esercita la parte superiore del corpo, o una parte del corpo come i fianchi o la testa o le mani o petto, invece che tutto il corpo. Nessuno mantiene tutte le parti del corpo ugualmente in movimento; nessuno ha un ritmo che può essere accelerato rallentato di nuovo. Solo l’esercizio con la palla raggiunge tutto questo. Quando i giocatori si allineano su lati opposti e si esercitano per ottenere la palla, allora è un esercizio violento, infatti così la testa e il collo sono esercitati, ed i lati e il petto e lo stomaco sono esercitati dagli abbracci e spintoni rimorchiatori. In questo gioco i fianchi e le gambe sono allungate tese violentemente, poiché forniscono una base per tale sforzo. La combinazione di correre avanti, indietro, e saltando di lato non è un piccolo esercizio per le gambe; se a dire il vero, questo è l’unico esercizio che mette tutte le parti della gamba in movimento. C’è lo sforzo da un insieme di tendini e muscoli nella corsa in avanti, su un altro insieme corsa all’indietro, e su un altro nel salto. Così come il gioco con la palla è un buon esercizio per le gambe, è ancora meglio per le braccia, perché è consuetudine di prendere la palla in ogni sorta di posizione. La varietà di posizioni peserà su diversi muscoli in diversa misura, e diverso tempo. E’ importante anche l’occhio se si pensa a come il giocatore non può prendere la palla se non ha giudicato il suo volo con precisione. Il giocatore inoltre affina le sue capacità critiche attraverso la pianificazione come prendere la palla e come strappare la palla, se gli capita di essere nel mezzo. La rivalità terminerà nel piacere, promuoverà la salute del corpo e l’intelligenza nella mente. Questo è un vantaggio importante se un esercizio può aiutare il corpo e la mente verso lo spigolo che è insito in ciascuno. Si può facilmente capire che giocare a palla aiuti le due più importanti manovre che uno Stato affida ai suoi generali: attaccare al momento giusto è necessario per difendere il bottino già accumulato e la lungimiranza del piano del nemico. La maggior parte degli esercizi producono gli effetti opposti, rendendo la mente lenta, assonnata, e noioso. La vittoria in guerra non appartiene coloro che possono scappare il più veloce, ma chi è in grado di prevalere in incontri ravvicinati. Gli Spartani non erano diventati i più potenti perché potevano correre più veloce, ma perché hanno avuto il coraggio di resistere e combattere. Sono particolarmente favorevole all’esercizio fisico che promuove la salute sufficiente per il corpo, lo sviluppo armonico delle sue parti, è necessario per lo spirito. Tutti questo si ritrova nell’esercizio con la palla. Si può beneficiare la mente in ogni modo, ed esercitare tutte le parti del corpo allo stesso modo. Esso contribuisce alla salute e alla moderazione delle condizioni fisiche, perché non causa né una corpulenza eccessiva né una magrezza smodata. E’ adatto per azioni che richiedono resistenza e anche per coloro che esigono la velocità. Così la forma più faticosa della sfera di gioco non è in alcun modo inferiore ad altri esercizi.>>

Preziosissimo e anche molto attuale, è quanto è stato detto da Galeno. Possiamo infatti notare come il calcio sia lo sport più famoso e praticato al mondo, proprio per la sua comodità e la sua convenienza. Inoltre egli apre l’esercizio ginnico a tutti, ricchi e poveri, afferma che esso è utile soprattutto per la mente, ed è un modo per allenare i generali di uno Stato. Galeno, rifacendosi un po’ a Platone, capisce che allenare esclusivamente il corpo non è utile allo Stato, quindi occorre che oltre al corpo si alleni anche la mente, così come Platone introduce una dimensione politica nello sport. Per Galeno, infine, ciò che risulta fondamentale è il compiere un ottimo esercizio che sviluppi tutti i muscoli del corpo, in maniera conveniente e comoda e che porti l’atleta ad un livello tale da essere in grado di saper essere a capo di un esercito, essendo dotato di capacità fisiche e intellettive. Cicerone, nella sua presentazione della filosofia greca ad un pubblico romano, racconta la storia di Pitagora, che lo stesso Cicerone aveva trovato raccontata da un allievo di Platone: Eraclide di Ponto. Pitagora visitò Leon, il sovrano di Phlious, in una data non lontana dal 480 a.C. Il brano mostra anche che i Giochi sono stati così ben noti che potrebbero essere utilizzati per scopi allegorici. Leon ammirava il genio e l’eloquenza di Pitagora tanto che gli chiese il momento in cui l’arte si fosse fatta valere di più. Pitagora disse che non conosceva le arti, ma era un filosofo. Leon si meravigliò della novità del termine e chiese che cosa fosse un filosofo e quale fosse la differenza tra loro e il resto dell’umanità. Pitagora si dice abbia risposto che la vita dell’uomo gli sembrava quella festa che si è svolta con le più belle gare con tutta la Grecia assemblata. Vi sono alcuni, con i loro corpi addestrati, che hanno gareggiato per la gloria e la fama di una corona, altri sono stati motivati dal potenziale di profitto di acquisto o di vendita, ma c’è ancora un altro tipo, il migliore di tutti, che non ha cercato né applausi né il reddito, ma è venuto a osservare e studiare ciò che è stato fatto e come. Quindi noi, come se siamo arrivati a una festa da un’altra città, giungiamo a questa vita da un’altra vita in cui alcuni cercano gloria e altri cercano denaro. Poi ci sono gli uomini rari che detengono tutto il resto, niente altro che lo studio della natura delle cose. Questi sono chiamati gli amanti della saggezza perché questo è il significato della parola “filosofo”. Così, come ai giochi vi è l’uomo più nobile che non cerca alcun guadagno per sé stesso, così nella vita la contemplazione e il riconoscimento della natura delle cose è molto più avanti di tutte le altre attività. Questo, per riprendere la stessa comune origine tra filosofia e sport, ossia lo stupore, che porta poi all’amore del proprio gesto atletico o della saggezza. Inoltre Cicerone riprende questo brano introducendo anche temi etici tipici del Novecento.

Dopo la caduta dell’impero romano e con lo sviluppo preponderante del Cristianesimo, l’uomo passa dall’essere un animale politico e quindi occupato anche nello sport, a cercare di essere un uomo pio. Ovviamente, questo influisce sulla concezione che l’uomo medievale ha del corpo, il quale viene visto come un peso che lo allontana da Dio (ascetismo), portandolo a peccare. A questa concezione deve essere aggiunta la separazione filosofica che Cartesio mette in atto, scindendo mente e corpo e affermando l’assoluta predominanza della mente sul corpo. Questa scissione cartesiana prende il sopravvento su altre concezioni filosofiche, infatti solo in alcuni casi, abbiamo dei riferimenti a delle pratiche corporee, come in Thomas Hobbes, il quale nel XVII secolo nella “Rassegna delle passioni rappresentate in una corsa” scrive: << Il paragone della vita dell’uomo con una corsa, per quanto non aderente in ogni punto, pure aderisce così bene per questo nostro proposito, che […] dobbiamo supporre che questa corsa non abbia altra meta, né altro premio che l’esser davanti. >> (concetto di vana gloria di Hobbes applicato anche a livello sportivo). Infatti scrive: <<Guardare gli altri che stanno dietro è gloria. Guardare quelli che stanno davanti, è umiltà.>> Per Hobbes quindi è fondamentale l’elemento del confronto. Un uomo corre per confrontarsi con i suoi simili, per primeggiare sugli altri. Per Hobbes la vittoria è il nucleo centrale della corsa. Non importa quale sia la meta o il premio, stare davanti è l’unico motivo per iniziare a correre. Esempi come questo di Hobbes sono molto rari, nella letteratura Leopardi si cimenta in una canzone civile dal nome A un vincitore nel pallone, ma per tornare a parlare di sport, o almeno della corporeità, legata alla filosofia occorre attraversare circa tre secoli di storia, per arrivare a De Coubertin, poi a Marleau-Ponty e poi a Johan Huizinga e al suo “Homo ludens” (1938).

Fino al 1969, la filosofia moderna non ritenne di particolare interesse lo studio dello sport, ma grazie al libro di Paul Weiss: Sport: A Philosophic Inquiry, e dato che Weiss (docente universitario a Yale) era già un filosofo noto e rispettato soprattutto nel campo della metafisica, il fatto di aver ritenuto lo sport degno di attenzione filosofica dette subito alla filosofia dello sport una credibilità quasi immediata. Nel 1972 venne fondata l’Associazione Internazionale per la Filosofia dello sport (IAPS). La rivista di filosofia dello sport, espressione dell’associazione, è stata lanciata nel 1974 e da allora una grande varietà di libri e antologie sono stati pubblicati sull’argomento. La crescita del settore ha subito un’accelerazione negli ultimi anni con crescente interesse e contributi di studiosi non solo Nordamericani e Britannici. Nel 2007 è uscito un secondo giornale, intitolato Sport, Etica e Filosofia, pubblicazione ufficiale della British Association for the Philosophy of Sport. La natura della filosofia dello sport è stato il risultato dello sviluppo di linee di ricerca aperte, è una scienza nata da poco e per questo è aperta a tutti i vari campi che si interessano dello sport tuttavia essa cerca di concentrarsi su tre tematiche filosofiche: Metafisica, Politica ed Etica.

Un altro importante concetto metafisico sportivo è quello di regole. Una delle definizioni più note sulle regole è stata quella di Bernard Suits nel libro The grasshopper : << giocare un gioco vuol dire tentare di raggiungere un determinato stato di cose (obiettivo pre-ludico), usando solo mezzi autorizzati dalle norme (mezzi ludici), in cui le regole vietano l’uso dei mezzi più efficienti in favore di quelli che lo sono meno (regole costitutive), e le regole sono accettate solo perché rendono possibili tali attività (atteggiamento ludico). >> 13Secondo Suits i fini del gioco sono inseparabili dalle regole. Infatti le regole costitutive sono quelle regole interne da cui dipende logicamente l’esistenza stessa del gioco. Le implicazioni normative del legame tra sport e regole, nel frattempo, sono state drammatiche. Molti di coloro che accettano la definizione di Suits adottano una posizione nota come formalismo in cui i giochi sono intesi esclusivamente in termini di regole formali o iscritte. Un’altra conseguenza della teoria di Suits è l’osservazione che le regole del gioco vietano l’utilizzo di mezzi efficaci per raggiungere gli obiettivi del gioco. Questa osservazione aiuta anche a giustificare filosoficamente quei divieti in materia di tecnologie sportive che migliorano le prestazioni sportive, come il fenomeno del doping o l’uso di costumi da bagno idrodinamici. Per giungere a una conclusione potremmo affermare che le regole, che esse siano costitutive o di abilità, sono necessarie in qualsiasi sport, tuttavia vi è un corpus di regole che si pone al di sopra di qualsiasi regola sportiva che è quello etico.

Un altro importante aspetto metafisico dello sport è l’approccio che esso ha con la realtà e quindi con la società, dato che è un fenomeno sociale. MacIntyre, filosofo politico, definisce una pratica come: qualsiasi forma coerente e complessa di attività cooperativa umana socialmente stabilita attraverso cui vengono realizzati prodotti nel tentativo di raggiungere quegli standard di eccellenza e che ampliano sistematicamente le forze umane impiegate per conseguire questa eccellenza nel quadro dei fini e dei beni coinvolti. Maclntyre distingue le pratiche sportive dalle istituzioni che le sostengono, osservando che le istituzioni puntano ai beni esterni alla pratica, come il denaro ed il prestigio, mentre i beni interni sono solo per i professionisti. Ovviamente qui si apre un dibattito etico sul perché lo sport si proietti al denaro e se il farlo possa essere giusto o meno. Lo sport, non avendo di per sé un valore, ha bisogno di essere compreso e praticato in modo tale che esso abbia un valore, perché può essere facilmente condizionato da altri fenomeni sociali come lo sviluppo dei media, la mercificazione o il consumismo.

Oltre alla metafisica e alle varie argomentazioni metafisiche, altri due punti che interessano la filosofia dello sport sono la politica e l’etica. Questi due grandi “contenitori” sono accomunabili, poiché nel momento in cui noi riteniamo lo sport come un fenomeno sociale, esso risponde logicamente alle leggi morali e politiche. Lo sport è un fenomeno che non può essere scisso da ciò che lo circonda e dalle varie problematiche della società in generale. Uno dei grandi problemi sociali politici del Novecento è stato quello della discriminazione razziale, oltre a quello della globalizzazione, e questo si è ripercosso sullo sport, tant’è che oggi sono ancora numerosi cori o gesti pro o contro determinate “razze”, oltre tutto è a causa di questi tipi di atteggiamenti sbagliati, che alcune “razze” sono state educate poco o malamente in determinati sport. Questo tipo di discriminazione non può essere letta solo da un punto di vista politico ma è evidente come entrino in gioco anche varie tematiche etiche, quale la accettazione di un avversario “diverso” da noi. Altra discriminazione nota è quella che si sofferma sulla differenza uomo/donna, il filosofo si chiede quanto questa differenza abbiamo inciso nella nostra visione in generale e di alcuni sport e se il ruolo subordinato della donna sia ancora oggi messo in atto nello sport. Infatti, è da notare come lo sport, tranne alcune rare eccezioni menzionate prima, è stato ed è visto come un fenomeno maschile, ma in realtà, esso sfida questo pregiudizio dando pari opportunità e diritti a uomini e donne. L’etica sportiva quindi, così come la politica, sono importanti per capire la base teorica che sta dietro i giudizi morali o politici che riguardano lo sport, gli atleti e tutti coloro che si rapportano con il mondo dello sport. Dal punto di vista etico abbiamo tre vie filosofiche da seguire: la via dei contrattualisti secondo cui la regola può anche essere interpretata come un dovere morale, rifacendosi così all’approccio deontologico dato da Immanuel Kant, il quale affermava la necessità di un’azione “giusta” nello sport, condannando, per esempio, la pratica comune della simulazione dei falli nella pallacanestro fatta con lo scopo di fermare il cronometro, perché è una violazione intenzionale delle regole. La teoria utilitaristica di John Stuart Mill ha trovato sostenitori nell’etica sportiva, tra coloro che si oppongono al doping a causa dei suoi effetti nocivi per la salute. Ed infine, le teorie basate sulla filosofia greca antica e sul pensiero cinese, le quali sostengono che lo sport possiede una straordinaria componente educativa ed è un mezzo per coltivare le virtù (Aristotele) e sviluppare il carattere morale della persona. Questi approcci filosofici sono utili per dibattere di tre questioni etiche principali: la rottura delle regole; gli obblighi per gli avversari; gli obblighi per la comunità sportiva. La competizione nello sport implica per sua stessa natura un confronto e quindi la necessità dell’altro. Fatta questa prima introduzione, possiamo comprendere come il rispetto e il come ci si debba comportare con l’avversario sia la seconda grande questione speculativa. Se si concepisce la competizione come qualcosa di più simile alla dialettica hegeliana padrone-schiavo, cioè come un tentativo di affermare sé stessi, distruggendo gli altri, quindi danneggiando o rendendo inabili gli avversari, essa può apparire come parte integrante del concetto stesso condiviso di gara. In questa prospettiva, le azioni violente nello sport possono anche sembrare compatibili. Per Isidori, l’atleta dovrebbe rispettare la dignità dei concorrenti attraverso: (1) la considerazione fondamentale dei diritti umani, (2) l’apprezzamento per il particolare rapporto in questione, e (3) la comprensione dello scopo dell’attività che si sta svolgendo. Questo significa che dobbiamo riconoscere che stiamo svolgendo un’attività in cui abbiamo l’obbligo di fornire una valida opportunità agli avversari di mettersi alla prova. Dando questa opportunità ai nostri avversari ci mettiamo in discussione, come fa la filosofia, e ci esponiamo al rischio, che può essere quello della sconfitta o in alcuni casi anche della morte.

LA FILOSOFIA E L’ALIMENTAZIONE

Nel suo saggio “Filosofia del cibo”, il filosofo e professore di Etica sociale, Franco Riva, afferma che:

«Il fatto che la filosofia si occupi dell’alimentazione è un passaggio quasi obbligato – Fin dalla sua origine questa scienza si è interessata al rapporto dell’uomo con il suo corpo e, di conseguenza, con il cibo».

Riva propone una rassegna delle posizioni principali che la filosofia ha assunto nei confronti dell’alimentazione, in particolare dall’Ottocento in poi. Quasi una “Storia della Filosofia contemporanea del cibo”.

«Si sono sempre confrontate due scuole di pensiero. La prima contrappone lo spirito al corpo (e al cibo) e diffida della dimensione materiale. Una rappresentante di questa corrente è Simone Weil. Per la mistica francese, il corpo è un animale che deve essere educato alternando le frustate alle zollette di zucchero. La seconda posizione è quella di chi considera l’uomo anche come corpo e in quest’ottica rivaluta il cibo. A tal proposito si può citare Feuerbach, autore de “Il mistero del sacrificio”, il cui sottotitolo non a caso è “L’uomo è ciò che mangia”».

La filosofia si è quindi sempre divisa sul rapporto che intercorre tra corpo (e cibo) e anima. Riva ritiene comunque possibile una mediazione tra i diversi atteggiamenti attraverso un modo di pensare attento al vissuto del corpo e del cibo:

«La prospettiva fenomenologica considera il corpo come un compagno di vita. Questa teoria si colloca in equilibro tra la concezione platonica del corpo bestiale e l’idea dell’uomo come pura materialità. Le diverse dimensioni dell’uomo (fisica e spirituale) si riconciliano nell’idea che vivere è essere incarnati. Questa concezione, però, pone nuove questioni di responsabilità. Novalis e Goethe, dato che mangiare è indispensabile, credono che si configuri necessariamente come gesto aggressivo nei confronti degli altri: o vivo io, o vivi tu. Se questo è il principio, se il mangiare è un bisogno che fa diventare distruttori e assassini, allora non è possibile alcun discorso sulla responsabilità e sull’etica. Credo invece che la filosofia debba interessarsi all’alimentazione anche da un punto di vista morale. Il cibo è allo stesso tempo quanto di più semplice e quotidiano, ma anche quanto di più importante possa esserci. Sartre dice che l’uomo fa l’assoluto mangiando. Ha ragione: l’uomo è sempre uomo (oppure non lo è mai) anche quando mangia».

Riva spiega che la filosofia ha tre vie di azione per rispondere alle sfide che la società contemporanea mette in campo.

«In primo luogo deve denunciare le contraddizioni, pratiche e teoriche. Una di queste è il circolo vizioso che ci vuole contemporaneamente grassi e magri, obesi per l’abbondanza di cibo di qualsiasi genere e in forma per il ritorno al mito del salutismo. Per usare un’immagine biblica, noi viviamo contemporaneamente nella stagione delle vacche grasse e delle vacche magre. La filosofia deve denunciare questa incoerenza, altrimenti rischia addirittura di giustificarla correndo dietro ora al gusto ora alla salute».

La seconda via d’azione è rilevare l’ironia nel rapporto tra filosofia e cibo.

«Questa strada mette in luce le assurdità che vengono dette sull’alimentazione senza che siano mai contestate e messe in discussione. La filosofia deve fare ironia anche su stessa e su quello che ha detto sul cibo. Il sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel sostiene ad esempio (un po’ come Platone) che esiste un mangiare quotidiano e operaio: serve semplicemente a sostentarsi nella fatica del lavoro e non ha altro valore che questo. Per il sociologo il cibo diventa umano solo quando lo si consuma a una tavola imbandita e in compagnia di commensali borghesi e intellettuali. Non si può che ridere con amarezza di questa opinione, da un lato perché il convivio e la tavola imbandita non garantiscono in anticipo nessuna umanità del mangiare intesa come responsabilità e dall’altro lato perché il cibo del lavoro ha una dignità umana altissima».

La terza via che la filosofia può praticare è quella della responsabilità nei confronti del mondo, degli altri e della giustizia.

«Sarebbe ipocrita se la filosofia e la morale non s’interessassero all’alimentazione. Il cibo ci pone di fronte a grandi questioni globali e ci costringe a prendere sul serio la nozione di corpo. L’alimentazione ci ricorda costantemente che siamo un corpo e che dobbiamo rapportarci con gli altri esseri viventi, con i territori, con le risorse naturali. Il cibo porta a chiedersi se vivere voglia dire aggredirsi reciprocamente per sopravvivere. Stare cioè in una guerra alimentare perpetua per assicurarsi territori e monopoli del cibo. Mangiare ci mette di fronte a una quotidianità vissuta e intensa».

Nel mondo contemporaneo il singolo è sottoposto, anche in campo alimentare, a continue pressioni e sollecitazioni. Vedi problemi mondiali e sanitari quali l’obesità, la bulimia, l’anoressia. Ognuno di noi ha poco potere perché si ritrova all’interno di uno stile di vita che, in sostanza, non sceglie.

«Occorre una presa di coscienza individuale, ma soprattutto una presa di coscienza collettiva. Servono pratiche, politiche e scelte di vita comuni diverse. Il singolo deve essere tanto al punto d’inizio quanto al punto d’arrivo di questo processo, in un’ottica di convivenza democratica, partecipata e trasparente anche dal punto di vista nutritivo».

La filosofia serve così anche a introdurre stili alimentari coerenti, cambiamenti nella vita di tutti i giorni. «Solitamente in filosofia i riferimenti all’alimentazione vengono usati come esempi per spiegare questioni più ampie. Perché invece non rovesciare il discorso? E’ proprio il quotidiano che ci deve interrogare sui massimi sistemi, non viceversa».

E qual è la scelta alimentare del filosofo Riva?

«Potrei definirla “la dieta dell’orso”: onnivora, di qualità, con prevalenza di vegetali. Prodotti biologici e biodinamici, frutta e verdura di stagione e un consumo contenuto di carni. Con lo studio di questi argomenti ho incontrato il pensiero buddista secondo cui non si deve fare male a nessun essere vivente; per me potersi nutrire senza fare violenza è comunque un simbolo interessante da tenere nella massima considerazione».

In quanto uomini ancor prima che pensatori, anche i filosofi hanno (avuto) i loro “piatti preferiti”, rivelandosi non di rado dei grandi estimatori del “mangiar bene”. L’attenzione che essi hanno riservato al cibo affiora, oltre che dalle loro autobiografie (nelle quali spesso menzionano esplicitamente i loro piatti preferiti), anche nelle loro stesse opere filosofiche, in cui le metafore – diciamo così – culinarie sono ricorrenti e testimoniano un’incredibile attenzione alla sfera eno-gastronomica… Ludwig Feuerbach, a una sua famosa opera del 1862, aveva dato il titolo Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. L’uomo è ciò che mangia: in tedesco, “der Mensch ist was er isst”. L’obiettivo manifesto che Feuerbach si pone è, naturalmente, quello di sostenere un materialismo radicale e anti-idealistico, a tal punto da portarlo a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò che ingeriamo… Forse questa coincidenza tra essere e mangiare potrà sembrare un po’ eccessiva, ma è innegabile il fatto che, se siamo, è perché mangiamo. Che poi siamo ciò che mangiamo, forse è un po’ troppo, con buona pace di Feuerbach. Un antico adagio dice che non si può pensare con la pancia vuota: e Aristotele stesso ci ricorda, nella Metafisica (982 b 21), che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari.

Platone, che pure a questo mondo preferiva decisamente quello eterno e immutabile delle Idee, non era certo insensibile al mangiar bene: di lui si sa che amava olive e fichi secchi. Nella Lettera settima, inoltre, Platone se la prende con i Siracusani, accusandoli di mangiare ben tre volte al giorno!
È poi risaputo che i Pitagorici teorizzarono il vegetarianesimo come prassi di vita, nella convinzione che l’uomo non dovesse cibarsi di carni perché, nella misura in cui le anime possono reincarnarsi anche negli animali, ciò equivarrebbe a essere cannibali… E Pitagora proibì ai suoi discepoli di mangiare fave e la leggenda vuole che egli stesso, inseguito dai suoi nemici, si fece da essi catturare anziché mettersi in salvo correndo per un campo di fave. 

Di Epicuro, invece, è diventata proverbiale l’ingordigia, come se egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro che fare grandi abbuffate e grandi bevute… Tant’ che se oggi diamo dell’epicureo a qualcuno, alludiamo alla sua sfrenatezza in materia di piaceri… Eppure quest’immagine di Epicuro che beve e si abbuffa a più non posso non corrisponde pienamente alla realtà, benché, nel tramandarcela, la tradizione sia stata piuttosto uniforme. Nella famosa Lettera a Meneceo, scrive testualmente Epicuro:

“Allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento dei sensi – come ritengono alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente –, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono infatti le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gustare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime”.

All’immagine di un Epicuro che si abbuffa di cibi raffinati, si deve sostituire quella di un uomo sobrio ed equilibrato, che si accontenta di tacitare i morsi della fame con del cibo frugale: fichi e formaggio.

Lo stesso Lucrezio, che si professava epicureo, nel suo poema De rerum natura (III, 931 e ss.) cercava di fugare la paura della morte ricorrendo a un’immagine “culinaria”. Chi si accinge a morire – spiega Lucrezio – deve ragionare come un convitato sazio quando finisce il banchetto: se la vita trascorsa é stata colma di gioia, allora ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un lauto banchetto; se, al contrario, é stata segnata da dolori e tristezze, non ha senso desiderare che essa prosegua, trascinandosi tra nuove sofferenze. 

Ben più radicale degli epicurei era Diogene di Sinope, il celebre “Cinico”: rigettando la sontuosità delle mense imbandite di cibi raffinati che titillano il palato, anch’egli opta per la frugalità dei pasti, tant’è che ci viene spesso descritto nell’atto di mangiare del pane ordinario e delle lenticchie; addirittura, se questo aneddoto non è solo una leggenda, quando vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani, Diogene gettò via dalla bisaccia la ciotola, esclamando con soddisfazione: “un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità!”. Diogene buttò poi via anche il catino, quando vide un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane.

Anch’egli nemico dello sfarzo (senza però arrivare all’estremismo di Diogene), Seneca amava la cucina poco elaborata, alla buona, semplice ma genuina. Egli scrive nel De tranquillitate animi:

“Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla quale è entrato. Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto rustico, l’argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che non reca norni di artigiani, e una tavola che non si fa notare per la varietà delle venaturel e che non è famosa in città per il frequente susseguirsi di padroni eleganti, ma che sia improntata alla praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun commensale per il piacere né accenderli di invidia”.

In sintonia coi Pitagorici, anche Porfirio porta avanti la causa vegetariana: nel suo trattato Astinenza dagli animali, egli spiega che gli animali non possono essere sfruttati dall’uomo e considerati semplicemente disponibili per i suoi bisogni. Il suo trattato consiglia l’astinenza anche in un’ottica ascetico-religiosa: un’alimentazione a base di frutta e verdura, più sobria e frugale di quella a base di carne, oltre a essere più salubre per il corpo, è certamente migliore per la vita dell’anima, e più adatta all’uomo religioso che cerca l’assimilazione al divino nel distacco da tutte le passioni e da tutti i piaceri del corpo; gli dèi, inoltre, non gradirebbero affatto i sacrifici cruenti e le combustioni delle vittime, che andrebbero a ingrassare solo il godimento dei dèmoni malvagi. Scrive Porfirio:

“La carne non contribuisce alla buona salute, ma è piuttosto di ostacolo ad essa. Infatti la salute si conserva con quei mezzi dai quali essa riceve forza: e riceve forza da una dieta leggerissima e senza carne […]. Infatti né della forza né dell’accrescimento della robustezza ha bisogno il filosofo se vuole volgere la mente alla contemplazione e non alle azioni e alle intemperanze. Nulla di strano che la maggioranza degli uomini creda che il mangiar carne contribuisce alla buona salute: perché è degli stessi credere che conservano la salute i godimenti e i piaceri erotici, i quali non hanno mai giovato a nessuno, e bisogna contentarsi se non l’hanno danneggiato”.

Uova, noci, riso, patate, pane, mele, biscotti, latte e soprattutto salsicce, sono gli alimenti per i quali Friedrich Nietzsche ebbe una particolare predilezione. Potrebbe sembrare apparentemente alquanto poco usuale che, l’ideatore del Superuomo avesse anche una passione travolgente per il cibo e per alcuni prodotti in modo particolare. Eppure è così. Certo, il suo modo di cibarsi non era particolarmente ordinato e forse neanche dieteticamente equilibrato. Basti pensare che, nel suo ultimo anno di lucidità, il 1888, spesso accostava “bistecca, omelette, prosciutto e tuorli d’uovo crudi con pane”. La sua dieta, come si evince, era tutt’altro che “in bianco”. L’alimento, però, per il quale aveva una vera e propria forma di attrazione erano le salsicce, che si faceva inviare regolarmente per posta dalla madre. Infatti, nell’anno 1880, la quasi totalità della sua corrispondenza con la propria madre, era costituita da una serie interminabile di ordinazioni di prosciutti e salsicce; che egli appendeva delicatamente e con cura, tramite una cordicella, alla parete. Stranamente, come bevanda non amava né l’alcol, né la birra. Al contrario, ebbe parole d’elogio verso la buona acqua, per bere la quale, portava sempre con sé un bicchiere. Nell’anno trascorso a Torino, Nietzsche apprezza molto l’atmosfera che vi si respira. Non manca di parlarne, nella sua fitta corrispondenza, con la sorella, con Peter Gast e con Franz Overbeck. A Torino, era spesso di ottimo umore e raccomandava agli amici di prevedere un soggiorno nella città subalpina. Che cosa lo esaltava particolarmente? Il clima allegro delle persone che incontrava quotidianamente, dalla fruttivendola ai librai, dal gelataio al signor Fino, l’edicolante che gli affittava una stanza in Via Carlo Alberto. Ma soprattutto amava sostare nelle osterie e mangiare i piatti poveri ma molto nutrienti della cucina piemontese. “La cucina piemontese è la mia preferita”, scrive in Ecce homo, la sua autobiografia.

Sappiamo invece che, sempre a Torino, Jean-Jacques Rousseau rubò in diverse occasioni… i famosi grissini torinesi, dei quali andava ghiotto.

La ben nota scrupolosità di Immanuel Kant trovò anche in sede alimentare un suo campo d’applicabilità: il filosofo tedesco fu sicuramente quello che definiremmo oggi una “buona forchetta”. In particolare, quando assaggiava qualcosa di nuovo che gli piaceva, non mancava di farsi dare la ricetta. Tra le sue abitudini alimentari più bizzarre ricordiamo che, quando mangiava la carne, la masticava a lungo in modo da ricavarne il succo, che poi ingoiava, mentre la parte solida non veniva ingoiata. Non era di suo gradimento la cucina particolarmente sofisticata: preferiva quella semplice e alla buona. A differenza delle abitudini moderne, tutti i suoi pasti duravano molto, poiché non mangiava velocemente e non gli piaceva alzarsi dalla tavola subito dopo aver finito il pasto. Non mangiava mai da solo, poiché sosteneva che mangiare da soli è nocivo e che c’è sempre bisogno di una buona compagnia, alla quale faceva recapitare sin dal mattino l’invito a pranzo. Preferiva che i commensali fossero da tre a nove: “non meno delle Grazie e non più delle Muse”. Un aneddoto racconta che, un giorno, ritrovandosi da solo, disse al proprio cameriere di invitare il primo passante a pranzare con lui. Solamente i suoi pranzi erano particolarmente lunghi ed elaborati; la sua colazione, invece, che consumava alle cinque del mattino, consisteva soltanto in una o due tazze di tè. Durante le stagioni calde, sembra che Kant avesse l’abitudine di mangiare con la finestra che si affacciava sul giardino aperta, in modo che l’aria profumata stimolasse il suo appetito e la sua digestione. Si può allora dire che Kant non si cibava solo di quelle idee che sconvolsero il pensiero filosofico a partire dal 1700… Pare aggiungesse la senape ad ogni alimento e andasse matto per il baccalà e per il formaggio olandese.

Dal canto suo, Ludwig Wittgenstein al cibo non s’interessava affatto: l’importante era che in tavola trovasse sempre lo stesso piatto…

Karl Marx sembrava invece attento al bere più che al mangiare: in particolare, egli era un gran bevitore di birra, specie nei suoi anni universitari.

Anche Hegel pare che non disdegnasse il bere, preferendo però il vino alla birra: addirittura, per render conto del passaggio dalla religione alla filosofia all’interno del suo sistema, egli spiega che è un po’ come con lo champagne, quando nel calice la schiume si fonde con vino…

Il più materialista dei materialisti, l’ateo illuminista La Mettrie, pare amasse gozzovigliare e fare pasti pantagruelici: a tal punto che sarebbe morto per una indigestione di patè di fagiano, di cui era davvero ghiotto (forse troppo…).

E Arthur Schopenhauer, dal canto suo, consumava i suoi pasti generalmente al “Ristorante Inglese”: cominciando a mangiare, metteva sulla tavola, dinanzi a sé, una moneta d’oro, che riponeva in tasca a pasto finito. Un cameriere, senza dubbio indignato, gli chiese alla fine il significato di quell’invariabile cerimonia. Schopenhauer rispose di aver promesso a sé stesso di lasciar cadere la moneta nella cassetta dei poveri il primo giorno in cui avesse udito gli ufficiali inglesi, che pranzavano nel ristorante, discorrere di qualche cosa che non fosse di cavalli o di donne o di cani…

Con un’immagine alquanto efficace, Ernst Bloch dice che “l’uomo non vive di solo pane, specialmente quando non ne ha”: fuor di metafora, è nei momenti più desolati e difficili (le carestie, le guerre, ecc) che si fa sentire con più forza la spinta a trascendere il presente e a sperare in un futuro migliore.

Che si tratti di sport o d’alimentazione. Che tu sia agonista, semplice sportivo o meno. Che tu sia onnivoro, vegetariano, vegano, crudista, fruttariano, respiriano o altro. Il punto focale rimane uno ed uno solo; “la qualità”. Qualità nell’attività fisica, riferita alla sua durata ed allo sforzo prodotto ed alla qualità di ciò di cui ci si ciba (vedi utilizzi eccessivi di conservanti, pesticidi; ma anche, stato degli allevamenti, iper-produzione di massa ecc.). Una qualità scadente più di esser d’aiuto e dare linfa ed energia positiva per il nostro corpo, né provocano una lenta, ma inesorabile distruzione.

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Filosofia (La filosofia delle stelle – prima parte)

La filosofia delle stelle – prima parte

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“Proinde, dum oculi mei ab illo spectaculo cuius insatiabiles sunt non abducantur, dum mihi solem lunamque intueri liceat, dum ceteris inhaerere sideribus, dum ortus eorum occasusque et intervalla et causas investigare vel ocius meandi vel tardius, spectare tot per noctem stellas micantis et alias inmobiles, alias non in magnum spatium exeuntis sed intra suum se circumagentis vestigium, quasdam subito erumpentis, quasdam igne fuso praestringentis aciem, quasi decidant, vel longo tractu cum luce multa praetervolantis, dum cum his sim et caelestibus, qua homini fas est, inmiscear, dum animum ad cognatarum rerum conspectum tendentem in sublimi semper habeam, quantum refert mea quid calcem?”

“Per questo, purché i miei occhi non siano privati di quello spettacolo di cui sono insaziabili, purché mi sia consentito di guardare il sole e la luna, purché io possa fissare gli altri astri e studiarne il sorgere e il tramontare, le loro distanze e le cause del loro moto, ora più veloce ora più lento, e ammirare le tante stelle che brillano nella notte, alcune immobili altre che si spostano, non però nello spazio infinito ma in un’orbita che si sono tracciata, altre ancora che spuntano all’improvviso, altre che quasi abbagliano in un guizzo di fiamma e sembra che cadano o che, per un lungo tratto di cielo, passano oltre con una gran luce, purché io possa contemplare tutto questo e, per quanto sia lecito a un uomo, partecipare alla vita del cielo, purché l’animo mio che tende alle cose a lui affini, sia sempre rivolto al cielo, che cosa mi importa quale terra io calpesti?” (Seneca)

Sin dai tempi più remoti, l’umanità si è costantemente rivolta al cielo stellato, cioè a quel miracolo di bellezza e mistero. Lo ha contemplato, ricercando in essa un ordine, una presenza superiore, un fine o una spiegazione alle più semplici domande esistenziali. L’influsso che ebbero il Sole, la Luna e tutti gli astri, sulla vita e sul pensiero dell’umanità diedero forma e pensiero ad intere epoche. Fino a quando l’uomo ha considerato ciò, opera di esseri più potenti e di forze sovrumane è rimasto, come un bambino, succube della natura; quando, poi, ha incominciato a dare un significato scientifico a ciò che avveniva intorno a lui ha cominciato a prendere fiducia in se stesso e nelle sue potenzialità. I primi scienziati, o meglio filosofi – scienziati, decifrarono con precisione incredibile, dati gli strumenti a disposizione, fenomeni celesti, distanze e grandezze; quando vollero spingersi oltre la scienza e dare uno scopo al creato finirono per guardare all’universo attraverso il vetro colorato del misticismo e della superstizione, vanificando così la grandezza delle loro intuizioni. La storia dell’astronomia, probabilmente la più antica delle scienze naturali, si perde nell’alba dei tempi, antica quanto l’origine dell’uomo. Il desiderio di conoscenza ha sempre incentivato gli studi astronomici sia per motivazioni religiose o divinatorie, sia per la previsione degli eventi: agli inizi l’astronomia coincide con l’astrologia, rappresentando allo stesso tempo uno strumento di conoscenza e potere; solo dopo l’avvento del metodo scientifico si è giunti a una separazione disciplinare netta tra astronomia e astrologia. Pertanto l’investigazione della volta celeste ha costituito da sempre un importante legame tra cielo e terra, tra uomo e Dio. Le prime conoscenze astronomiche dell’uomo preistorico consistevano essenzialmente nella previsione dei moti degli oggetti celesti visibili, stelle e pianeti. Un esempio di questa astronomia alle prime armi sono gli orientamenti astronomici dei primi monumenti megalitici come il famoso complesso di Stonehenge, i tumuli di Newgrange, i Menhir e diverse altre costruzioni concepite per la stessa funzione. Molti di questi monumenti dimostrano un antico legame dell’uomo col cielo, ma anche l’ottima capacità di precisione delle osservazioni. Pare che nel Paleolitico l’uomo considerasse il cielo come il luogo in cui prendevano forma le storie delle divinità; a dimostrazione di ciò vi sono tracce di un culto attribuito all’asterismo della “Grande Orsa” da parte dei popoli che abitavano oltre le due sponde dello stretto di Bering, che all’epoca dell’ultima glaciazione univa America ed Asia. Studi recenti sostengono che già nel Paleolitico superiore (circa 16.000 anni fa) era stato sviluppato un sistema di venticinque costellazioni, ripartite in tre gruppi che rappresentavano metaforicamente Paradiso, Terra ed Inferi:

  • Primo gruppo, Mondo superiore: creature aeree (Cigno, Aquila, Pegaso ecc.) – avevano alla culminazione la maggiore altezza sull’orizzonte;
  • Secondo gruppo, Terra: creature terrestri (Perseo, Vergine, Serpente, Orione ecc.) – alla culminazione raggiungevano un’altezza media sull’orizzonte;
  • Terzo Gruppo, Mondo inferiore: creature acquatiche (Pesci, Balena, Nave Argo) – erano collocate per la maggior parte del tempo al di sotto dell’orizzonte.

Nel Neolitico, per meglio memorizzare gli astri, vennero attribuiti agli asterismi somiglianze e nomi, non sempre antropomorfi, alludenti ad aspetti ed elementi della vita agricola e pastorale. Le costellazioni zodiacali, che si trovano in prossimità della linea percorsa dal Sole durante l’anno, furono le prime, per ragioni soprattutto pratiche, ad essere codificate nel cielo: data la preminenza di un’economia di tipo agro-pastorale.

Ogni filosofo ha guardato verso il cielo e si è posto domande. Difficile citarli tutti, cercheremo di elencarne alcuni. Il nostro viaggio nell’astronomia, parte proprio da Talete, colui che è tradizionalmente considerato l’iniziatore della filosofia greca e fondatore della scuola ionica. Gli sono attribuiti una buona stima del diametro apparente del Sole e della Luna (come la 720ª parte del circolo percorso dal Sole), lo studio di solstizi ed equinozi e anche la previsione di un’eclissi solare. Anassimandro anche lui vissuto tra il VII ed il VI secolo a.C.), può forse essere considerato il vero iniziatore dell’astronomia razionale, riteneva il mondo un cilindro posto al centro dell’universo con i corpi celesti che vi ruotano attorno, supponendo l’esistenza di mondi infiniti in tutte le direzioni, e avendo così la prima intuizione del principio cosmologico. Sostenne cioè che il cielo fosse anche sotto i nostri piedi, che gli astri si estendono in tutte le direzioni e che tramontano ad Ovest per risorgere ad Est perché ruotano attorno alla Terra. Ad Anassimandro è stata attribuita anche l’invenzione dello gnomone per rilevare l’altezza del Sole e della Luna e quindi l’inclinazione dell’eclittica.

Parmenide, al quale sono attribuiti sia la scoperta della sfericità della terra che la comprensione della causa delle fasi lunari. Parmenide capì che la Luna è sempre piena e sferica e che l’apparenza del suo crescere e decrescere è dovuta al variare della posizione relativa di Terra, Sole e Luna, che rende variabile la porzione della Luna che è illuminata dal Sole e allo stesso tempo è a noi visibile. Filolao, della scuola di Pitagora, che sostenne un modello di sistema solare non geocentrico: al centro dell’universo vi sarebbe stato un grande Fuoco primordiale, intorno al quale ruotavano la Terra, l’Antiterra, la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. L’esistenza dell’antiterra fu introdotta probabilmente per giustificare l’invisibilità del fuoco centrale che veniva occultato da quest’ultima, nonché dalla necessità filosofica di arrivare ad un numero totale di dieci corpi, cifra ritenuta sacra nella tetraktys pitagorica. I pitagorici concepivano infatti l’universo come un cosmo, cioè un un insieme razionalmente ordinato che rispondeva ad esigenze esoteriche e religiose, nel quale i pianeti compiono movimenti armonici secondo precisi rapporti matematici, generando un suono sublime e celestiale.

Platone, ebbe dapprima una visione dell’universo eliocentrica, poi ritrattata in tarda età per il geocentrismo. Intuì tuttavia la sfericità della Terra, sostenendo anche che la Luna ricevesse luce dal Sole. Egli pose il problema astronomico ai suoi allievi in questi termini: «Le stelle, rappresentando oggetti eterni, divini, immutabili, si muovono con velocità uniforme attorno alla terra , come noi possiamo constatare, e descrivono la più regolare e perfetta di tutte le traiettorie, quella della circonferenza senza origine e senza fine. Ma alcuni corpi celesti come il Sole, la Luna, i Pianeti, vagano attraverso il cielo e seguono cammini complessi, con inclusione di moti retrogradi. Essendo tali oggetti corpi celesti dovranno sicuramente muoversi in maniera conforme al loro rango elevato. Poiché tali corpi non descrivono delle traiettorie circolari dobbiamo dedurre che i loro moti debbono derivare da una qualche combinazione di cerchi perfetti. Quali sono le combinazioni di moti circolari uniformi in grado di spiegare il moto complesso dei corpi celesti?» Secondo Platone, i moti nei cieli dovevano essere eterni e perfetti , così gli incorruttibili corpi celesti non avrebbero potuto essere composti da elementi che normalmente si ritrovano sulla terra, o vicino ad essa. Per questo motivo, riteneva che i corpi celesti fossero composti da un quinto elemento incorruttibile e caratteristico; l’etere.

Eudosso di Cnido introdusse il concetto di sfere omocentriche, ossia di un universo diviso in sfere aventi un unico centro di rotazione in cui si trovava la Terra; su ogni sfera vi era poi incastonato un pianeta con un moto circolare ed uniforme differente da quello degli altri. In questo modo diede spiegazione dei movimenti retrogradi e degli stazionamenti periodici dei pianeti: per le stelle fisse fu facile attribuire una sfera immobile, mentre per i pianeti e per la Luna il moto veniva spiegato con una prima sfera che induceva un moto diurno, un’altra per il moto mensile ed infine una terza ed una quarta con diverso orientamento dell’asse per il moto retrogrado. Tenendo conto che il Sole ne possedeva tre, si giunge ad un sistema di ben 27 sfere.

Callippo di Cizico aggiunse altre 7 sfere al sistema di Eudosso, portando il totale a 34 sfere, per spiegare le evidenze osservative, relative in particolare alle variazioni di velocità angolare del Sole e della Luna.

Aristotele attribuì realtà fisica alle sfere di Eudosso e Callippo, aggiungendone ancora altre. Egli ipotizzò così un complicato sistema di 55 sfere che rendesse maggiormente ragione delle irregolarità delle traiettorie dei pianeti. I livelli della cosmologia aristotelica comprendono, in basso, il mondo sublunare che è costituito dai quattro elementi: terra, acqua, aria, più il fuoco, ad uno strato superiore, con lingue fiammeggianti che tendono verso l’alto. Seguono la Luna, i due pianeti interni (Venere e Mercurio), il Sole, i tre pianeti esterni (Marte, Giove e Saturno) e infine le stelle del firmamento. Secondo Aristotele, mentre la Terra è formata da quattro elementi (terra, aria, fuoco, acqua), ciò che si trova oltre di essa è composto di un quinto elemento (o essenza): l’etere, privo di massa, invisibile e, soprattutto, eterno ed inalterabile. Queste due ultime caratteristiche sanciscono un confine tra i luoghi sub-lunari del mutamento (la Terra), e i luoghi immutabili (il cosmo). Ogni elemento ha la tendenza a rimanere o a tornare nel proprio luogo naturale, che per la terra e l’acqua è il basso, mentre per l’aria e il fuoco è l’alto. La Terra come pianeta, quindi, non può che stare al centro dell’universo, essendo formata dai due elementi tendenti al basso, ed il “basso assoluto” è proprio il centro dell’universo. Nelle sfere eteree vi erano invece collocate, secondo la concezione astronomica greca fatta propria anche da Platone, in ordine la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, ed infine il cielo delle stelle fisse o Primo mobile, che metteva tutte le altre sfere in movimento. Questo risulta mosso direttamente dalla causa prima o Motore immobile, identificabile con la divinità suprema (mentre le altre divinità risiedevano all’interno del cosmo), in una maniera tuttavia non meccanica o causale, dato che Dio, essendo «atto puro», è assolutamente immobile, oltre ad essere privo di materia e quindi non localizzabile da nessuna parte. Il primo mobile piuttosto si muove per un desiderio di natura intellettiva, cioè tende a Dio come propria causa finale. Cercando di imitare la sua perfetta immobilità, esso è contraddistinto dal moto più regolare e uniforme che ci sia: quello circolare. Dal Primo mobile partiva poi l’impulso al moto di tutte le altre sfere; a causa tuttavia dell’attrito, che contribuiva a creare un moto differente per ogni sfera, il movimento si corrompeva progressivamente trasformandosi da circolare-uniforme in rettilineo. In tal modo veniva fornita una spiegazione astrologica al divenire terrestre, in un’ottica tipica peraltro di tutta l’astronomia greca, che riconducesse l’origine dei mutamenti a cause non solamente meccaniche, ma soprattutto finalistiche, cioè dotate di senso e destino.

Autonio di Pitane (ca. 310 a.C.) mise in risalto alcuni problemi del modello di Eudosso, come l’incapacità di spiegare perché i pianeti, visti dalla Terra, sembrassero cambiare non solo velocità, ma anche luminosità. I suoi scritti, insieme ai Fenomeni di Euclide, furono tra le prime opere giunte fino a noi nelle quali vi sono applicazioni della matematica all’astronomia. Si tratta però di opere elementari, nelle quali ci si limita ad applicare semplici concetti di geometria sferica ai fenomeni astronomici dovuti alla rotazione diurna.

Aristarco di Samo perfezionò la visione dell’universo di Eraclide Pontico spostando il Sole al centro dell’universo; il moto dei corpi quindi diveniva più semplice da spiegare anche se non ancora perfetto, data la mancata applicazione delle orbite ellittiche. Inoltre, considerò il moto rotatorio della Terra su di un asse inclinato, spiegando così le stagioni. Aristarco fu anche famoso per il metodo di misura della distanza tra la Terra-Sole. Al primo quarto di Luna, quando risulta visibile anche il Sole, i due astri formano un angolo di 90°. Considerando l’ipotetico triangolo tra i tre corpi, Aristarco misurò quello della Terra con la Luna ed il Sole, trovando un valore di 87°. In questo modo, con un semplice calcolo trigonometrico ottenne che la distanza Terra-Sole era 19 volte maggiore di quella tra la Terra e la Luna. Il valore in verità è di 400 volte, ma l’importanza di tale misura non consiste nella precisione riscontrata, quanto nel metodo usato e nell’intuizione.

Eratostene di Cerene, in Egitto fu invece il primo a misurare la lunghezza del meridiano terrestre. Il metodo che adottò per misurare la lunghezza del meridiano terrestre ebbe come riferimento due città: Alessandria e Siene, l’odierna Assuan. Partendo dall’ipotesi che fossero sullo stesso meridiano (in realtà sono separate da 3° di longitudine), misurò dapprima la distanza tra le due città, ponendo concettualmente i raggi solari paralleli tra loro: questa situazione è possibile in alcuni giorni dell’anno; il giorno del solstizio d’estate, infatti, a Siene il Sole è allo zenit e i raggi risultano verticali, mentre ad Alessandria formano un certo angolo: questo angolo corrisponde all’angolo posto ipoteticamente al centro della Terra tra le rette che congiungono le due città. Il suo valore era di 1/50 di angolo giro che equivaleva a 39.400 km (contro i 40.000 reali).

Ipparca di Nicea utilizzando vecchie osservazioni e cataloghi stellari primordiali, ne creò uno nuovo con 850 stelle, assegnandovi per primo le coordinate ellittiche. Classificò quindi le stelle in una scala di sei grandezze che oggi conosciamo come magnitudini stellari. Tramite questi elementi Ipparco poté notare che tra le sue osservazioni e quelle del passato vi era una certa differenza; questo implicava lo spostamento del centro di rotazione del cielo, e quindi la precessione degli equinozi. Il suo studio fu così accurato che poté calcolare i valori di spostamento supposti in 45” d’arco all’anno (oggi il valore stimato è di 50”). Stabilì con buona precisione la differenza tra anno tropico e sidereo calcolandone anche i tempi.

Claudio Tolomeo è considerato l’ultimo grande astronomo-pensatore dell’antichità. La sua fama è dovuta a diverse opere sull’astronomia e sull’astrologia, che comprendono l’Almagesto, le Ipotesi planetarie, il Tetrabiblos, nonché le Tavole manuali, l’Iscrizione Canonica e altre minori. I libri dell’Almagesto (Mathematikè Syntaxis) sono un riepilogo di tutto il sapere del passato ed erano talmente completi da divenire in breve tempo un riferimento duraturo per i secoli futuri. In essi Tolomeo riprese e riadattò le vecchie teorie astronomiche alle nuove scoperte: stabilì il sistema geocentrico (prevede quattro cerchi sublunari: terra, acqua, aria, fuoco e nove cerchi astrali: Luna, Venere, Mercurio, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse, Primo mobile) come punto irremovibile delle sue idee, dal quale giustificò il moto dei pianeti con le teorie di Apollonio ed Ipparco usando epicicli e deferenti; e nel cercare di creare un modello quanto più preciso possibile, ma soprattutto che non differisse dalle osservazioni, introdusse il concetto di equante, perfezionando l’ipotesi dell’eccentrico di Apollonio. Con questo “stratagemma” Tolomeo riuscì a non discostarsi troppo dai principi aristotelici di circolarità delle orbite e di costanza del moto; difatti, l’eccentricità fa apparire il moto degli astri non costante quando osservato dalla Terra, mentre in realtà risulterebbe continuo. Fu anche con questo sistema che riuscì a giustificare tutti i moti dei pianeti, compresi quelli retrogradi, rispetto alla volta celeste. E per ovviare al fatto che persino le stelle fisse possedevano un lento moto irregolare, dovuto alla precessione degli equinozi scoperta da Ipparco, introdusse un nono cielo al di sopra di esse, identificandolo col primo mobile aristotelico. Tolomeo creò inoltre un catalogo stellare con 1.028 stelle usando le carte di Ipparco con cui divise il cielo in costellazioni, tra le quali le 12 dello zodiaco, usando il metodo delle magnitudini stellari.

«Tolomeo poi, acorgendosi che l’ottava spera si movea per più movimenti, veggendo lo cerchio suo partire dallo diritto cerchio, che volge tutto da oriente in occidente, constretto dalli principii di filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo, puose un altro cielo essere fuori dello Stellato, lo quale facesse questa revoluzione da oriente in occidente: la quale dico che si compie quasi in ventiquattro ore, e quattordici parti delle quindici d’un’altra, grossamente asegnando.» (Dante Alighieri, Convivio, II, 3, 5)

ASTRONOMIA BABILONESE:

La civiltà Babilonese (Circa 2700 a.C.), dimostrò d’avere eccezionali competenze astronomiche, dando successivamente contributi importanti anche agli egizi e ai popoli indiani. La necessità di perfezionare le conoscenze in campo astronomico non proveniva solo dalla necessità di avere un buon calendario su cui fare riferimento, ma anche da convinzioni astrologiche: erano gli stessi sovrani a richiedere precise previsioni astrologiche agli astronomi di corte. Fu quindi la necessità di dover prevedere la posizione della Luna e dei pianeti, di capire il meccanismo delle eclissi di Sole e di Luna, ritenuti eventi infausti, a far perfezionare le conoscenze e le ricerche astrologiche. Questi popoli, pur non avendo a disposizione strumenti di precisione, intuirono il moto apparente dei pianeti basandosi sulla posizione di alcune stelle di riferimento nel cielo. Scoprirono anche i periodi sinodici dei pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno con un margine di errore di pochi giorni, riportando in seguito le previsioni su tavolette effemeridi. Queste ultime potevano esser consultate per sapere, in qualsiasi momento, quando un pianeta era stazionario in cielo o in opposizione. Osservando il moto lunare, gli astronomi mesopotamici si accorsero che le fasi avevano tempi ben definiti: da qui partì l’intuizione di come il Sole, la Terra e la Luna si trovassero periodicamente nella medesima posizione. Questa scoperta si riferisce al cosiddetto “ciclo di Saros”. Grazie alla loro straordinaria abilità nell’effettuare calcoli matematici (introdussero l’algebra), determinarono la durata del mese sinodico lunare con un errore di 30 secondi nell’arco di 5.000 lunazioni. La loro abilità nello studio del cielo li portò ad identificare la fascia dello zodiaco e l’eclittica, da essi chiamata “via del Sole”, in cui trovare i pianeti. Questa fascia in seguito venne divisa in 360 parti, una per ogni giorno dell’anno, introducendo così l’uso del sistema sessagesimale per il calcolo dei gradi. Ebbero l’intuizione di raggruppare le stelle in costellazioni dando loro anche dei nomi. Gli astronomi babilonesi furono i primi a dividere il giorno in 24 ore, anche se per loro il giorno cominciava la sera, mentre il mese cominciava all’emergere della Luna dalle luci del tramonto subito dopo il novilunio. Fissarono un calendario di 12 mesi lunari di 29 e 30 giorni alternati in maniera non regolare, dividendo i mesi in settimane. Il primo giorno dell’anno però cominciava con il plenilunio di primavera. Per correggere il calendario, anch’essi ebbero bisogno di intercalare mesi aggiuntivi per far tornare i conti, ottenendo comunque una misura precisa nel tempo.

ASTRONOMIA EGIZIA:

Le conoscenze astronomiche degli egizi, in parte riscontrabili nella costruzione delle piramidi e di altri monumenti allineati secondo la posizione delle stelle, presenta come punto di forza il calendario. Il trascorrere della vita in Egitto era fortemente legato a quella del fiume Nilo e delle sue periodiche alluvioni, le quali avvenivano con una certa costanza, in genere ogni 11 o 13 lunazioni. Gli egiziani si accorsero che l’inizio delle inondazioni avveniva quando si alzava nel cielo la stella Sirio (“Sopdet” per gli egizi) con un errore di 3-4 giorni al massimo. Con questo riferimento sorsero diversi calendari, il primo era il “calendario lunare” di 354 giorni con mesi di 29 o 30 giorni. Ma nel tempo si notarono errori di calcolo, così ne fu introdotto un secondo definito “calendario civile” di 365 giorni, con 30 giorni ogni mese e 5 epagomeni ogni anno. Fu introdotto un “ultimo calendario” ancora più preciso, il quale possedeva un ciclo di 25 anni in cui veniva aggiunto un mese intercalare nel 1º, 3º, 6º, 9º, 12º, 14º, 17º, 20º, e 23º anno di ogni ciclo. Questo calendario, estremamente preciso, venne utilizzato anche da Tolomeo nel II secolo d.C. e venne preso in considerazione sino ai tempi di Niccolò Copernico. Da ricordare che i mesi di 30 giorni erano divisi in settimane di 10 giorni e in 3 stagioni di 4 mesi detti: mesi dell’inondazione, mesi della germinazione, mesi del raccolto. Già dal 3000 a.C. gli egizi avevano in uso la divisione delle ore diurne e notturne in dodici parti ciascuna: per le ore diurne usavano regolare il tempo con le meridiane, mentre per le ore notturne si servivano di un orologio stellare, ovvero osservavano le posizioni di 24 stelle brillanti. Le ore così misurate sia di giorno che di notte avevano una durata diversa a seconda della stagione, mantenendo comunque una durata media di 60 minuti. Successivamente, per le ore notturne vennero introdotti i “decani”, ovvero 36 stelle poste in una fascia a sud dell’eclittica, ognuna delle quali indicava con maggior precisione l’orario.

ANTICA ASTRONOMIA CINESE:

Sin dal 2000 a.C. si può riscontrare una grande tradizione di osservazioni astronomiche nella Cina antica. Astronomi cinesi osservarono e registrarono passaggi di comete o altri eventi come l’esplosione della supernova del Granchio del 1054. Si arrivò anche alla realizzazione di un calendario lunisolare composto di 360 giorni, a cui venivano aggiunti 5 giorni epagomeni; esso sorse probabilmente già dal secondo millennio a.C. Il calendario cinese tuttavia non raggiunse mai il livello di precisione dei calendari di altre civiltà come quella babilonese o maya.

Nel IV secolo a.C., nel periodo dei Regni combattenti, Shi Shen e Gan De redassero due cataloghi stellari, tra i primi della storia. A Gan De sono attribuite anche le prime osservazioni dettagliate di Giove.

ASTRONOMIA NELL’AMERICA CENTRALE:

Nel centro America si svilupparono delle civiltà che raggiunsero una cultura e un grado di conoscenze assai elevati. La loro astronomia non diede contributi alle altre civiltà, rimanendo confinata nell’isolamento sino ai tempi moderni. Anch’essi sono famosi per la costruzione di templi e piramidi dedicati agli dei del cielo. Il loro culto era legato a Venere, identificato con la divinità nota come “serpente piumato”; proprio sui moti di questo pianeta svilupparono un preciso calendario astronomico, scoprendo in particolare che ogni 8 anni Venere compie 5 rivoluzioni sinodiche (di 584 giorni): sorprende ancor oggi la precisione degli almanacchi astronomici improntati sul ciclo di Venere con l’esiguo errore di un giorno in 6.000 anni. Il calendario era formato da 18 mesi di 20 giorni con 5 giorni addizionali. I popoli dell’America Centrale riuscirono a prevedere con maggior veridicità di previsione la comparsa delle eclissi. Notevoli anche i progressi nelle previsioni del ciclo stagionale, dei solstizi e degli equinozi. I templi, perfettamente allineati con la posizione del Sole in determinati giorni dell’anno, sono un ottimo esempio di allineamento astronomico. Il complesso di edifici di Uaxactun nel Guatemala presenta una piattaforma in cima ad una delle piramidi dalla quale, in occasione di equinozi e solstizi, è possibile osservare il Sole sorgere dietro lo spigolo di altri tre edifici perfettamente allineati.

ASTRONOMIA ROMANICA:

Lo studio degli astri e della loro influenza sulla vita dell’uomo suscitò grande interesse alla corte degli imperatori. Augusto dava enorme importanza agli oroscopi e il nipote di Tiberio, Germanico, tradusse in latino i Phaenomena del poeta greco Arato di Soli ( III sec a.C.). L’interesse per l’astrologia si trova accentuato in Tiberio, che amava circondarsi di astronomi e astrologi dal momento che un simile atteggiamento era, in qualche modo, funzionale al mantenimento dell’autorità imperiale. Credere, infatti, in un destino superiore contro il quale non si può lottare era un atteggiamento tanto diffuso tra vasti strati sociali quanto utile ad evitare rivolte. Tra la fine del principato augusteo e i primi anni di quello di Tiberio si pone l’opera di Manilio, gli Astronomica. L’opera di Manilio è un poema didascalico in versi, dedicata all’astrologia, in cinque libri. Il libro I è di natura propriamente astronomica, espone in generale le teorie dei filosofi sull’origine dell’universo e descrive la sfera celeste, con le principali costellazioni, i pianeti, le comete e le meteore. Il resto della trattazione è invece di natura astrologica. Nell’antichità i confini fra astronomia e astrologia non erano nettamente definiti, nemmeno a livello di termini: non esisteva come oggi una distinzione tra i due campi, tra la figura nell’astronomo-scienziato e quella dell’astrologo-ciarlatano, anche perché l’astrologo aveva spesso competenze anche di geometria sferica e meccanica celeste pari a quelle di un astronomo. E’ molto probabile che l’opera comprendesse anche un sesto libro, andato perduto, dedicato alle congiunzioni planetarie.

iuvat ire per ipsum aera et immenso spatiantem vivere caelo signaque et adversos stellarum nascere cursus. Quod solum novisse parum est. Impensius ipsa scire iuvat magni penitus preacordia mundi, quaque regat generetque suis animalia signis cernere et in numerum Phoebo modulante referre”

non altro mi è caro che andare nel colmo dell’aere e vivere errando per il cielo infinito e distinguere il contrapposto movimento di costellazioni e pianeti. Pure è poco il sapere da solo. Più assai mi è caro conoscere fino nelle intime fibre il segreto della potenza dell’universo e discernere a quali figure sideree si debba il governo di ciascuno degli esseri, e la genitura, e volgerlo in ritmi ispirati da Febo” (Manilio, gli Astronomica – versi 13-19)

Lucio Anneo Seneca, come Manilio, era convinto che l’Universo non fosse dominato dal caso, ma che una ratio lo governasse. Spesso trattò del cosmo e degli astri, sia dal punto di vista “scientifico” che filosofico. Basti ricordare l’ultimo libro del Naturales Quaestiones, dedicato agli oggetti celesti da lui più amati: le comete. Su queste egli imposta una lunga e interessante discussione, riportando e contestando le teorie degli scienziati precedenti. Inoltre nel proemio del settimo libro, Seneca analizza l’atteggiamento della gente comune rispetto ai fenomeni celesti:

Nemo usque eo tardus et hebes et de missus in terram est ut ad divina non ergatur ac tota mente consurgat, utique ubi novum aliquod e caelo miraculum fulsit. Nam quamdiu solita decurrunt, mgnitudinem rerum consuetudo subducit: ita enim compositi sumus ut nos cotidiana, etamsi admiratione digna sunt, transeant, contra minimarum quoque rerum, si insolitae prodierunt spectaculum dulce fiat. Hic, itaque coetus astrorum, quibus immensi corporis pulchritudo distinguitur, populum non convocat: at cum aliquid ex more mutatum est, omnium vultus in caelo est.”

“Nessuno è tardo e ottuso e chino verso terra a tal punto da non protendersi e innalzarsi con tutto il suo spirito verso le cose divine, soprattutto quando dal cielo rifulge qualche nuovo fenomeno meraviglioso. Infatti, finché si susseguono i soliti eventi, l’abitudine fa dimenticare la grandezza delle cose: tale dunque è la nostra natura che gli avvenimenti di tutti i giorni, anche se sono degni di ammirazione, ci passano davanti inosservati, mentre invece diventa dolce lo spettacolo anche delle più piccole cose, se esse si presentano con aspetto insolito. Perciò questa folla di astri, di cui è punteggiato e abbellito l’immenso corpo dell’universo, non richiama l’attenzione del volgo: ma, ogni volta che avviene qualche cambiamento fuor del normale, il viso di tutti è rivolto verso il cielo.” (Seneca, Naturales Quaestiones)

Seneca fu sempre molto interessato alla volta celeste. Nella Consolatio ad Marciam (opera filosofica facente parte dei Dialogi, in cui Seneca cerca di consolare Marcia dalla morte del figlioletto) dopo l’esposizione dei contenuti convenzionali tipici della consolatoria, come il carattere ineluttabile della morte e il tempo che fugge, conclude l’opera con un grandioso finale ambientato nei Campi Elisi. Qui l’autore colloca il figlio di Marcia in compagnia dello nonno materno: Cremuzio Cordo.

“nepotem suum (…) applicat sibi nova luce gaudentem et vicinorum siderum meatus docet”

Abbraccia suo nipote mentre gode di una nuova luce e gli illustra i moti degli astri”

Seneca sostiene che non c’è consolazione più grande nella vita che essere immersi nel cielo stellato. La contemplazione dei fenomeni celesti è una grande salvezza.

Anche Plinio il Vecchio si dedicò al tema astronomico, in particolare nel Naturalis Historia in cui la prima parte del secondo libro è riservata alla trattazione dei misteri cosmologici. Plinio fa questo con un gusto poetico e letterario, dimostrando la sua particolare vocazione per lo studio della volta celeste. E’ appunto nelle pagine astronomiche del libro II che Plinio dimostra di possiede quella che sarà la principale dote della grande prosa scientifica: rendere con chiarezza il ragionamento più complesso traendone un senso d’armonia e bellezza. Senza mai piegarsi verso la speculazione astratta, Plinio si attiene sempre ai fatti (quelli che lui considera fatti o che qualcuno li ha considerato tali); ed elabora una precisa visione scientifico filosofica dell’universo che osserva. I tratti fondamentali di questa concezione verranno ora evidenziati attraverso le parole da lui usate nel Naturalis Historia. In primis, Plinio non accetta la teoria dell’infinità del mondo e lo giustifica dicendo che la natura di questo mondo è già abbastanza difficile e l’infinità non semplificherebbe il problema. Egli dà, quindi, una soluzione di tipo utilitarista e non giustificata da evidenze sperimentali.

(…) si haec infinitas naturae omnium artifici possit adsignari, non idem illudin uno facilius sit intellegi, tanto praesertim opere. Furor est profeto, furor egredi ex eo et, tamquam interna eius cuncta plane iam nota sint, ita scrutari extera, quasi vero mensuram ullius rei possit agere qui sui nesciat, aut mens hominis videre quae mundus ipse non capiat.”

… se questa infinita realtà può essere attribuita ad una natura creatrice di tutto, non fosse più semplice concepire tutto ciò in un singolo caso, tanto più di fronte ad una simile opera. Sì, è pazzia, senza dubbio, uscire dal mondo e, quasi che tutto il suo interno fosse già chiaramente conosciuto, frugare all’esterno: come se, poi, potesse tracciare la misura di qualcosa chi è già ignaro del suo, o lo spirito dell’uomo sapesse scorgere ciò che nemmeno il mondo riesce a contenere. (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Libro II, 1.3-1.4)

Per Plinio, il cosmo è qualcosa di perfetto e armonioso. Il mondo è il cielo eterno e increato, la cui volta sferica e rotante copre tutte le cose terrene. Il mondo non ha origine né fine, è sconfinato, eterno e divino. Plinio è sorprendentemente sicuro delle sue affermazioni che traggono la loro forza dalle teorie di autori antichi di cui aveva accuratamente vagliato le fonti. E’ certo che il mondo è da sempre e sarà per sempre.

Sacer est, aeternus, inmensus, totus in toto, immo vero ipse totum, infinitus ac finito similis, omnium rerum certus et similis incerto, extra cuncta conplexus in se, idemque rerum naturae opus et rerum ipsa natura.”

L’universo è sacro, eterno, sconfinato, tutto intero nel tutto, o meglio, coincidente con il tutto, infinito e apparentemente finito, determinato in ogni cosa e apparentemente indeterminato, capace di abbracciare in sé tutte le cose, dentro e fuori, ed è insieme una produzione della natura, e la natura stessa.” (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Libro II, 1.2)

E’ straordinario come Plinio riesce a sintetizzare una filosofia intera in poche frasi. L’universo è una specie di pangea, non esiste il non essere: tutto è coincidente con il tutto. L’universo ci appare finito, poiché noi ci limitiamo a guardarlo con occhi umani, ma in realtà è la infinita manifestazione della natura capace di contenere al suo interno tutto ciò che esiste. Per Plinio difficilmente il mondo può distinguersi da Dio, che per lui e per la coltura stoica a cui appartiene, è un Dio unico, non identificabile con una qualche sua porzione o aspetto. Allo stesso tempo il cielo è fatto di stelle eterne come lui.

ASTRONOMIA ISLAMICA:

L’arrivo degli Arabi nel sud dell’Europa, in particolare in Spagna e in Sicilia, determinò il mantenimento di una fiorente cultura astronomica che avrebbe influenzato le future generazioni di intellettuali; basti pensare che buona parte dei nomi delle stelle (Deneb, Altair, Betelgeuse, Aldebaran, Rigel ecc.) e alcuni termini astronomici (Zenit, Nadir, almanacco, algoritmo, algebra, ecc.) hanno un’origine araba. Infine, bisogna ricordare l’introduzione del sistema di numerazione arabo (desunto dagli Indiani), ben più semplice di quello romano e ben più pratico. Attorno al 638 il califfo ‘Omar ibn al-Khattāb oltre a creare una solida struttura amministrativa islamica, decretò la nascita di un calendario islamico che per convenzione faceva partire il conteggio degli anni dall’Egira di Maometto del 622. Valenti astronomi hanno reso possibile il fiorire di questa cultura del cielo: da Yaqūb ibn Tāriq (noto per aver misurato la distanza e il diametro di Giove e Saturno), Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi (padre dell’algebra, formulò una teoria per la costruzione di meridiane e quadranti astronomici), Habash al-Hasib al-Marwazi (perfezionò le misure e le dimensioni di Terra, Sole e Luna), al-Farghānī, al-Hasan ibn al-Haytham, da al-Bīrūnī a Ibn Yūnus, da Abu l-Wafāʾ a ‘Omar Khayyām (la cui fama di poeta oscurò quella per cui fra i musulmani era assai più apprezzato, quella cioè di astronomo e di matematico). Abd al-Rahmān al-Sūfi fu il primo a catalogare la galassia di Andromeda, descrivendola come una “piccola nube” e a scoprire la Grande Nube di Magellano. Al-Battani, attivo al Cairo, fu il più grande astronomo arabo, autore di misurazioni che migliorarono la conoscenza dell’inclinazione dell’asse terrestre; al-Zarqali, arabo di Cordova, fu autore delle celebri tavole planetarie note come Tavole toledane che, tuttavia, si rifacevano a tavole risalenti all’età persiana sasanide; l’andaluso Ibn Rushd, criticò apertamente la teoria degli epicicli, sostenendo l’irrealtà dei cerchi eccentrici e dei deferenti assieme a tanti altri scienziati come Alhazen e al-Bīrūnī. Bisogna anche ricordare il fatto che furono gli scienziati arabi i sostenitori di ciò che oggi chiamiamo il metodo scientifico o galileiano di dimostrare la validità delle affermazioni scientifiche.

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Filosofia (art. La musica – prima parte – Dal mondo antico al medioevo)

La musica – prima parte (Dal mondo antico al medioevo)

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La musica ha un ruolo significativo, se non fondamentale, nella vita di ciascun uomo. Non solo è una scelta di vita dettata dalla passione di chi vi si dedica attraverso lo studio di uno strumento o della composizione; è fonte universale di intime sensazioni per chi l’ascolta, in solitudine o in compagnia, e vi collega un significato, un valore, il ricordo di un momento della vita.

La filosofia è la musica più grande” (Platone, Fedone)

È sufficiente leggere la citazione riportata qui sopra per cogliere quanto il legame tra musica e filosofia sia stato complesso e vitale nei secoli e sia ancora oggi un inesauribile stimolo a feconde e nuove riflessioni. Discipline apparentemente distanti, sin dalle origini si sono cercate, incontrate e sovrapposte, con frequenti incursioni in entrambi i sensi: i filosofi per il suo potere incantatorio e per il suo fascino misterioso hanno riflettuto a lungo e furono assai affascinati dalla musica ed attraverso la musica, i musicisti (e i musicologi) hanno cercato, nei sistemi di pensiero elaborati dalla filosofia, un quadro di riferimento per la propria esperienza artistica o la propria elaborazione teorica. Possiamo distinguere due atteggiamenti filosofici fondamentali nei riguardi della musica. C’è infatti un pensiero sulla musica – che mira cioè a definirne natura e significato – e un pensiero che si sviluppa dalla musica, che considera cioè quest’ultima l’apertura di un orizzonte di verità per la comprensione della realtà nel suo complesso. Nella prima categoria, oggi inquadrabile nell’ambito più vasto dell’estetica musicale, possono essere fatte rientrare tutte le discussioni relative ad un gruppo relativamente ristretto di problematiche filosofiche, peraltro spinose: definire cosa è musica e cosa non lo è (Cos’è la musica?), descrivere le relazioni tra musica, linguaggio e altre forme d’arte (Musica e linguaggio), determinare il significato dell’opera d’arte musicale, anche in relazione al contesto storico e sociale di produzione e di ricezione (Le funzioni della musica) e infine definire i sistemi di valore in base ai quali giudicare la qualità artistica delle opere musicali (Valore e giudizio estetico). La seconda categoria, relativa all’insieme di saperi definibile come filosofia della musica, comprende invece contributi più eterogenei, in cui la musica può risultare occasionale strumento esemplificativo o elemento costitutivo e imprescindibile di un sistema filosofico. La filosofia della musica, in questo caso, viene intesa come scienza, come arte, come forma astratta e come possibile strumento di significato reale, di formazione spirituale e di modifiche comportamentali. Essa, da un certo punto di vista, rappresentava sensibilmente l’accordo del molteplice nell’uno, norma generale della bellezza e dell’ordine interiore, valida per il singolo sia nella dimensione individuale che in quella sociale del suo esistere.

In questo articolo, cercheremo di fare un viaggio a 360°; partendo dal MONDO ANTICO conosciuto, fino ad arrivare al periodo di ALTO e BASSO MEDIOEVO.

Nelle antiche civiltà la musica, pur avendo un suo spazio, soprattutto religioso e sociale nella vita delle popolazioni, non era considerata come un’arte a sé e tanto meno era divisa in generi e tipi diversi. La musica e la filosofia nelle visioni originarie del mondo, abbracciò ogni civiltà conosciuta, in modo differente, da occidente ad oriente, l’antico Egitto, l’ebraismo dai primi scritti biblici alla diaspora, l’India classica, ne sono alcuni esempi. Vediamo nel dettaglio:

MONDO ANTICO

MUSICA NELL’ANTICO EGITTO

La musica, nell’antico Egitto, come in ogni ambito egiziano conosciuto, ebbe come fondamento il misticismo, la simbologia ed il culto. Fra i simboli fondamentali dell’antico Egitto c’è l’udjat, parola che significa “occhio del suono”. L’udjat, simbolicamente, non è altro che l’immagine di un occhio sagomato a testa di falco, sormontato da un vigoroso sopracciglio, con un’iride rossa e una grossa pupilla; dalla palpebra inferiore si dirama il ricciolo della corona faraonica.

Seth, il dio del male, strappa un occhio a Horus, il dio-falco, il quale, privo del suo organo essenziale, cade in pezzi. Thot, che vuole restituire Horus alla vita, ne ricompone le membra, ma l’opera è inutile finché non sarà ritrovato l’occhio. Thot lo cerca pazientemente, e già dispera di trovarlo, quando è colpito da una musica misteriosa la cui fonte è irrintracciabile. Si accorge alla fine, guidato dal suono verso la sua origine, che la musica proviene dall’occhio, anzi, è l’occhio. Meglio: l’occhio di Horus è la fonte di tutta la musica esistente sulla terra. Thot raccoglie il prezioso organo, lo reinserisce nel corpo di Horus, il quale riprende a vivere.

Tutta la realtà è vivente, nel pensiero dell’antico Egitto, ma la musica è l’essenza segreta e intima del reale. Quando la musica è “al suo posto naturale”, cioè insita nell’essere vivente, non riusciamo a udirla, proprio perché essa è là dove dev’essere e l’armonia assoluta che essa garantisce fa sì che il suono non sia posto in evidenza. La musica che può essere ascoltata, la musica-suono, è quella sottratta all’organismo vivente e diffusa nel mondo. Di conseguenza, la musica è segno di trauma, di crisi e di provvisorio disordine, di eccitazione in cui lo spirito esce da se stesso, o addirittura di morte. Questo sottolinea le due funzioni primarie della pratica musicale nell’antico Egitto, la festa sfrenata e il rito funebre. Ma poiché, in quella strana civiltà che privilegiava la necropoli rispetto alla città dei vivi, il rito funebre era il momento in cui più si affermava il richiamo alla vita e ai mezzi per goderla in pieno, la musica aveva il compito di ricordare continuamente l’esistenza del piano spirituale. Un altro insegnamento che riceviamo dall’udjat rappresenta una delle caratteristiche più tipiche dell’antica civiltà egizia, e che a noi appaiono più strane: l’occhio-suono rivendica alla musica-vita una facoltà visiva. La musica, nascosta nell’essere vivente e perciò inudibile, ma visibile; ne consegue una filosofica identificazione della musica con la visione. Fra le molte e svariate narrazioni mitiche, interessante è il nesso e la correlazione che gli egizi davano alla musica con l’origine del mondo. Per esplicarlo, dobbiamo ancora una volta fare riferimento al dio Thot. In Egitto, il pensiero vigente fu quello per cui tutto ha avuto inizio con la Parola. Gli egizi, alludendo a questo elemento primigenio, parlavano di un “grido” o di una “risata” del dio Thot, e in alcune fonti si lascia intendere velatamente che lo scoppio di risa era stato intonato musicalmente, anche secondo diversi suoni. Prendendo alla lettera queste allusioni, si può indurre che gli egizi immaginassero un’origine del mondo prodotta dalla musica, o dal primo nucleo di essa. Un’importante pagina del Libro dei morti offre maggiori dettagli sulla nascita musicale dell’universo e sull’azione creatrice di Thot. Il dio crea il mondo battendo le mani e accompagnando con questo battito di gioia (modello di ogni strumento a percussione) i suoi scoppi di risa (modelli, forse, del suono dell’arpa), i quali sono in magica successione numerica: sono sette, in toni crescenti. Dalle sette risate nascono altrettante realtà, divinizzate dagli egizi: la terra, il destino, la giustizia, l’anima, il giorno, la notte, l’intelletto. “Vedendo tutto ciò, il dio fu colpito da stupore, come dinanzi a un nuovo essere più potente di lui, e abbassando il suo sguardo verso la terra proferì tre note musicali: I-A-O. Allora il dio che è padre di tutte le cose nacque dall’eco di quei tre suoni”. IAO: la successione dei tre suoni è discendente, dall’acuto I all’intermedio A al più grave O. In tal modo, si disegna un moto contrario a quello ascendente dei sette scoppi di risa. Questi moti contrari delle serie di suoni sottolineano una simmetria. Sopravvive un enigma: se Thot crea, chi è il dio padre? L’ipotesi è che il dio sia di nuovo lo stesso Thot, il quale, secondo una concezione speculare, creerebbe se stesso. In termini non metaforici: la musica creerebbe se stessa. Un esito teorico si rivela comunque: il mondo e l’uomo, essendo fatti dalla musica, sono fatti di musica, di essa materiati, e mediante la musica in atto nelle occasioni terrene e quotidiane gli uomini imitano la divinità e rinnovano l’atto della creazione. Il numero sette, nella successione delle risate musicali di Thot, è tale da indurre suggestioni fin troppo facili, quando si parla di musica. In realtà, il sette degli egizi, è un modello simbolico e mistico, l’ideogramma numerico della perfezione. L’uso simbolico di quel numero discende dalla “formula del sette” applicata dagli egizi alla musica come all’astronomia, all’alchimia come al calendario. La stessa lingua egizia, quale ci viene incontro dalle scritture geroglifiche, sottolinea il ruolo primario che l’arte musicale aveva nell’antica valle del Nilo. In un idioma monosillabico, i puri monosillabi sono gli elementi originari e primari, le fonti del pensiero e della parola. Tali sono tutti i termini principali riferiti all’arte dei suoni; hy (musica), henw (canto), teh (suonare).

MUSICA EBRAICA

Qui musica e filosofia vengon soffocate e moralizzate dalle Sacre Scritture. Ci è oscuro se sia esistita una riflessa e speculativa distinzione intellettuale tra i due strumenti musicali, in voga che nell’antica terra d’Israele rappresentarono una polarità, il corno d’ariete (sofar), guerresco, aggressivo e demoniaco nelle sue risonanze soprannaturali, e la nobile lira (kinnor) compagna della meditazione e ispiratrice di saggezza. Analoga è l’ incertezza sulla natura propriamente filosofica del pensiero diffuso nelle Scritture storiche, didascaliche e profetiche della Torah. E’ difficile definire “metafisica” l’immensa meditazione biblica; essa discende spesso dal livello metafisico a quello etico. Nella Bibbia, Dio è troppo presente perché una vera filosofia dell’uomo non ne esca soffocata. Nonostante ciò, alcuni uomini ebraici, ispirati ed ammaliati dalla cultura greca, istituirono loro pensieri filosofici sulla musica. E’ il caso, ad esempio, di Filone d’Alessandria, considerato il “Platone ebraico” dagli intellettuali suoi contemporanei. Il passo di cui parliamo è nel grande trattato filoniano De opificio mundi. Egli afferma che la creazione non è soltanto “buona” (connotato etico), ma è soprattutto tecnicamente perfetta. Perfetta come che cosa? Adottando un termine di paragone, il filosofo ricorre a un’analogia musicale, lasciando intendere che la musica è il paradigma di ogni perfezione: argomento squisitamente platonico, ma applicato a un concetto, la creazione dal nulla, estraneo a Platone, e tipicamente ebraico. L’osservazione rivelatrice si riferisce, nel commento filoniano del testo biblico, al quarto giorno della creazione.

“Il quarto giorno, dopo avere creato la terra, Dio fece il cielo, dandogli ordine e bellezza come un auriga alle redini, come un pilota afferrato al timone. Egli guida tutte le cose nella direzione da lui voluta, secondo legge e giustizia, non avendo bisogno di altro: tutto infatti è possibile a Dio. Il cielo, creato il quarto giorno, fu ordinato a sua volta secondo quel numero perfetto, il quattro, che contiene i rapporti numerici delle consonanze musicali: gli intervalli di quarta, di quinta, di ottava, di doppia ottava. Nell’intervallo di quarta, il rapporto è di 1 1/3:1 (4:3), e quindi l’intervallo di quarta contiene altri due numeri perfetti, l’idea di 3 e l’idea di 7. Il 4, radice dell’intervallo di quarta, è il punto di partenza dei quattro elementi e delle quattro stagioni”.

Possiamo notare, come temi di tradizione pitagorico-platonica, siano intimamente fusi con il racconto biblico; e più avanti Filone fa propria l’idea platonica di un universo di sfere che produce “leggi di musica perfetta” (mousikés teléias nómous).

MUSICA IN INDIA

Il panorama che ci offre l’India è, al contrario, vasto e maestoso. E’ l’unica filosofia che si proponga come pensiero ecumenico, capace di accogliere in sé le filosofie di tutte le altre civiltà. Il significato filosofico della musica, che nella tradizione dell’India classica è la decisiva chiave di lettura del mondo, appare in tutta la sua chiarezza dalla tavola delle connessioni tra gli svara e le realtà mondane, naturali e simboliche, concettuali e metafisiche, fisiche e astrologiche. Il significato filosofico della musica appare soprattutto nei paesi in cui i testi della tradizione induista affrontano il tema supremo: le origini del mondo. Esiste, nella Brihadáranyaka Upanishad, una “narrazione etica”. Prima del mondo, anzi, prima dell’esistenza in quanto tale, esiste una pura potenza, luminosa e trasparente: il suono musicale. La musica delle origini ha in sé la potenzialità della parola assoluta, che però è ancora ineffabile: non è ancora linguaggio comunicabile. Questa musica cosmica è l’universo nella sua fase di immobile eternità prima del tempo. Poiché tale musica è perfetta, non scandita dal tempo che ancora non c’è, essa è inudibile, né d’altra parte alcuno esiste che possa udirla. Quando, misteriosamente appare la paura nell’universo-musica, lo splendore e il suono si offuscano e nasce il linguaggio articolato, comunicabile e umano. Anche nel Samaveda, questo tema viene ripreso. Qui, la paura che appare all’improvviso nella sfera dell’essere è null’altro che il tempo, che si unisce con il suono primordiale: dalle nozze del suono e del tempo nasce la musica degli uomini, scandita, diffusa sulla terra e misurabile nella storia. Esiste poi la più celebre “narrazione metafisica”, esposta nella Maitráyana Upanishad. In principio non esiste l’universo: esiste soltanto un buio universale pieno di suono, e questo suono primordiale è il più aperto, chiaro e diffuso. Perciò è condensato nella vocale A. In urla fase intermedia, la creazione prende avvio dalle mani di Bráhman (ma da dove esce Bráhman?). Una certa materia, ancora fluida e nebulosa, comincia a condensarsi, ad essere “visibile”; la sua visibilità paga un prezzo, ed è l’oscurarsi del suono, il quale diviene più cupo e meno brillante. La tradizione induista lo connota con U: sempre una vocale, ossia sempre una risonanza squillante, ma è la vocale più chiusa. Nella terza e ultima fase della creazione, il mondo si fa solido, la luce invade lo spazio, e all’inverso il suono si spegne, riducendosi a un brusio, a un rumore: – M – ai suoni vocalici, nell’ideogramma alfabetico, subentra un suono consonantico. Così il mondo è creato, e l’eternità è offuscata dal tempo, peraltro necessario all’esistenza degli uomini. Le tre lettere AUM formano una sillaba sacra, che nella tradizione, contraendo le due vocali, diviene OM. Nel diagramma OM è la sintesi dell’universo nato dalla musica.

MUSICA NELL’ANTICA GRECIA

Nel mondo greco era considerata musica ogni attività che sorgesse per ispirazione delle Muse e, pertanto, essa comprendeva, oltre all’arte dei suoni, le lettere, le scienze, la matematica e la stessa filosofia. Iniziamo però, col parlare di due concetti di fondamentale importanza nell’antica Grecia; cioè il mito e la dottrina nella musica.

La musica nel mito – Il mito svolse un importante funzione interpretativa della realtà umana e naturale; la musica veniva considerata un invenzione divina e per questo le fu attribuita l’onnipotenza propria degli dei. In questo modo essa nella mitologia greca sembra avere una forza misteriosa che sconvolge le leggi della natura. Dai miti di Apollo, Marsia, Dioniso fino a quello di Orfeo, il poeta-musico che con la musica da lui stesso inventata riusciva a calmare le belve, far danzare gli alberi e convincere gli dei dell’Ade a restituire la vita alla sua sposa Euridice. Anche i poemi epici di Omero contengono molti riferimenti alla pratica musicale dell’epoca, in particolare al potere che ha la musica di commuovere, dilettare e placare l’uomo. I due strumenti principali, nell’antica Grecia, erano la cetra (o la lira, la sua versione meno complessa e meno costosa), strumento a corde, e l’aulòs, una specie di oboe (strumento a fiato). La cetra era lo strumento sacro ad Apollo, dio della ragione e delle arti, mentre l’aulòs era legato a Dioniso, dio dei sensi, del piacere, del vino e della festa. Di qui la predilezione dei filosofi greci per la cetra: Platone, nella sua Repubblica, avrebbe vietato tutti gli strumenti a fiato, permettendo solo quelli cari ad Apollo. Sia per il suo suono lieve e celestiale, che per il modo elegante con cui la si suona, la cetra (o più corettamente la ‘citara’) emana un senso di purezza e pace: ancora oggi pensiamo agli angeli come dei suonatori di cetra o strumenti simili. L’aulòs, invece, sia per il suono, che per il modo di suonarlo, tende ad evocare immagini più terrene. Secondo la leggenda, l’aulòs venne inventato dalla dea Atena, la quale però lo rigettò per ragioni estetiche: suonarlo le faceva gonfiare le gote e fare delle smorfie. Viene perciò ritenuto uno strumento più volgare, inadatto agli dei e quindi non conforme all’idea greca del bello.

La dottrina musicale – La sensibilità musicale si può dividere in tre gradi: ritmo, melodia e musica vera e propria. Il ritmo, considerato l’elemento più sensuale di questa disciplina, è capace di influenzare l’uomo a livello fisico; la melodia possiede un efficacia sulla psiche a livello emotivo; la musica vera e propria è considerata come pura contemplazione artistica. I Greci consideravano la musica come un entità che agiva sulla loro anima e sulla loro volontà, e per questo la concepivano come una forza demoniaca. Da questa convinzione nacque la dottrina dell’ethos musicale che affermava che la musica non solo è in grado di determinare il nostro stato d’animo ma è anche capace di agire sulla nostra volontà. Proseguendo su questa strada, fu stabilito che la musica avesse tre tipi di azioni fondamentali a seconda della produzione: l’atto di volontà (ethos energico), il paralizzare la volontà stessa (ethos snervante) e il provocare uno stato di estasi (ethos estasiante).

La prima riflessione sulla musica la si trova nella scuola pitagorica che scopre il rapporto tra musica e matematica (riscontrabile nel trattato Peri mousikes). La musica nella concezione pitagorica risponde a un esteso complesso di precise regole diffuse in tutta la realtà, così che essa è presente nella visione dell’ordine matematico del cosmo da cui si genera un rapporto tra musica ed essenza della realtà, tra musica e metafisica. Secondo i pitagorici infatti i pianeti compiono movimenti armonici secondo precisi rapporti matematici producendo un suono sublime e raffinato. L’uomo sente queste armonie celestiali ma non riesce a percepirle chiaramente, in quanto immerso in esse fin dalla nascita e gli vengono rese ininfluenti dall’abitudine. Secondo il pitagorico Alcmeone di Crotone risale alla musica l’immortalità dell’anima umana, poiché essa è della stessa natura del Sole, della Luna e degli astri e, come questi, essa si è generata dall’armonia musicale risultante da quegli elementi opposti. Due furono gli aspetti fondamentali del fenomeno musicale su cui Pitagora di Samo e la sua scuola studiarono con accuratezza: l’organizzazione matematica della musica e i suoi riflessi sul comportamento e la condotta di vita degli uomini. Nello studio dei fenomeni acustici i Pitagorici evidenziarono come gli intervalli fondamentali di ottava, quinta e quarta potessero essere espressi da rapporti matematici semplici (1:2, 2:3, 3:4), leggendo nel dato fisico la conferma che il numero costituiva il superamento e l’armonizzazione delle contraddizioni del reale. Il dogma pitagorico, per quanto matematicamente discutibile, si radicò a tal punto da farsi metro di valutazione degli effetti della musica sulle persone, determinando a quale affetto corrispondesse ciascuna armonia. Il passo dalla descrizione alla prescrizione fu breve, e presto si diffuse la classificazione tra armonie buone e cattive, tra quelle utili per una positiva catarsi dalle passioni più violente e quelle dannose per la salute. I Greci ritenevano che la musica avesse qualità terapeutiche; la chiamavano katharsis (catarsi), o guarigione della mente mediante la purificazione dell’anima. Queste furono riflessioni determinanti per lo sviluppo della filosofia della musica di Platone prima e Aristotele poi; il punto di mediazione tra le due scuole filosofiche è rappresentato dalla figura di Damone di Oa (V secolo a.C). Nei suoi scritti, Damone insiste sul legame tra musica ed etica, in particolare nell’educazione dei giovani, riprendendo e rafforzando l’idea che solo alcune armonie trasmettano i valori fondanti di una comunità e diano accesso alle virtù del buon cittadino. La musica nella filosofia antica assume anche ruolo sociale e politico nella Repubblica platonica poiché essa incide sul comportamento individuale in modo tale da entrare nel campo dell’etica. Una visione “conservatrice” è fatta propria anche da Platone. Platone ha nei confronti della musica una posizione ambivalente: da un lato la considera un pilastro della struttura razionale della realtà – nella forma cosmica dell’armonia delle sfere e in quella umana dell’elevazione spirituale dell’individuo e della collettività – dall’altro la ritiene, nelle forme strumentali che considera più volgari, come un potenziale elemento di disordine, un prevalere della sottomissione ai piaceri sulla ricerca della virtù.

La musica è una legge morale. Essa dà un’anima all’universo, le ali al pensiero, uno slancio all’immaginazione, un fascino alla tristezza, un impulso alla gaiezza, e la vita a tutte le cose.” (Platone)

Egli definisce la relazione anima-corpo come “armonia”, in similitudine all’accordo che scaturisce dal suono della lira, e che, proprio per tale ragione e per il potere incantatorio sulla parte irrazionale dell’io, ritiene la musica, più di ogni altra attività, in grado di esplicare una funzione educativa, morale e religiosa. Ecco, quindi, venire in rilievo tutta la sua importanza ed utilità per il recupero dell’unità e dell’integrità ogni volta che si fosse verificata una scissione, una lacerazione sia nel singolo individuo (tra corpo e psiche) sia in un organismo sociale, secondo la concezione parallelistica tra uomo e società. Sempre secondo quest’ultimo, poiché il mondo fisico e la natura umana sono costituiti e dominati dai principi dell’armonia e del ritmo, un’adeguata educazione musicale può formare il carattere. Riguardo alla natura della musica, nell’elaborazione platonica viene superata la visione puramente fisico-quantitativa dei pitagorici e si pone l’accento sul carattere qualitativo di ogni espressione estetica. Nello Ione, infatti, l’arte è un “dono divino” che rapisce nell’armonia e nel ritmo: si diviene interpreti delle Muse inconsapevolmente, per “virtù celestiale” e non per studio o mera abilità tecnica. E’, comunque, nel Convito e nel Fedro che questa concezione estetica si esplica maggiormente. “Nella vita Socrate ha sempre persegito la filosofia ed in tale perseguimento ha di fatto coltivato la musica stessa, perché che cos’è, al limite, la filosofia, se non una forma, la forma più elevata di musica?” (Fedone-Platone) Anche se comunque in seguito, Platone sembra condannare e censurare alcune espressioni musicali per motivi etico-politici, rimane sempre in lui il riconoscimento della funzione formativa della musica stessa.

Opinioni meno negative le ebbe Aristotele, che evita di considerare i modi musicali totalmente positivi o negativi e preferisce evidenziarne le caratteristiche, ritornando al potere catartico della musica come medicina dell’anima. Aristotele riprende quindi il concetto pitagorico di catarsi, ma lo modifica, osservando che il meccanismo della purificazione avviene attraverso una liberazione delle passioni che vengono imitate dal musicista: perciò non vi sono armonie o musiche dannose in assoluto dal punto di vista etico; la musica è una medicina per l’animo proprio in quanto può imitare tutte le passioni o emozioni che ci tormentano e di cui siamo affetti e dalle quali vogliamo purificarci; tale liberazione avviene proprio potendo osservare la loro imitazione attraverso l’arte. Aristotele sottolinea come Platone confonda la realtà con l’imitazione della realtà. Egli afferma: “Platone confonde colui che zoppica come colui che imita uno zoppo.” La musica rimane tuttavia oggetto di speculazione e non cadono i pregiudizi nei riguardi dei musicisti professionisti, considerati artigiani volgari e sin troppo intraprendenti.

Per il superamento di tali pregiudizi bisognerà attendere Aristosseno di Taranto (IV secolo a.C.), capace di ribaltare il rapporto di subordinazione della pratica musicale alle astrazioni speculative e di riportare al centro del dibattito il fatto sonoro, così come dato nella combinazione tra percezione sensibile e memoria. Il primato dell’orecchio sul calcolo matematico e la riduzione del valore etico dei modi musicali a dato storico-culturale relativo professati da Aristosseno non riuscirono tuttavia a fare davvero breccia nel dibattito filosofico, che nei secoli successivi si sarebbe nutrito più della speculazione pitagorica e platonica che del metodo empirico del musico di Taranto.

MUSICA NELL’ANTICA ROMA

I Romani, per quanto riguarda la filosofia della musica, dopo la conquista della Macedonia, risentì del peso di quella greca. Difatti, si può dir che, con la caduta dell’Ellenismo ad opera dei Romani, la cultura greca fu acquisita dai nuovi conquistatori che la portarono a Roma, e da qui si diffuse prima in Italia e poi in Europa. Tuttavia i Romani si limitarono ad ereditare dai Greci il sistema musicale, gli usi, le forme e la teoria; a causa dei significati epici e pedagogici, la musica rimase estranea alla mentalità del cittadino romano. Nonostante che, durante il II sec. a.C., a Roma fossero presenti molti musicisti ed esecutori provenienti dalla Grecia, nella società romana si continuò a non attribuire un particolare carattere formativo di questa disciplina, che infatti veniva lasciata eseguire da schiavi e da liberti. Roma aveva una civiltà troppo materialistica, e di conseguenza non fu in grado di comprendere a pieno l’immenso patrimonio culturale greco. I canti mistici utilizzati in Grecia presso gli oracoli e capaci di trascinare moltissime persone nella contemplazione, si trasformarono in delle fanfare utilizzate nel Circo Massimo per coprire le grida di dolore dei gladiatori oppure per acclamare le legioni dopo una vittoria. Come per la musica anche per quanto riguarda gli strumenti musicali, i Romani non inventarono niente di nuovo, ma semplicemente si limitarono ad importarli dalle terre conquistate. Venne introdotto nella cultura romana anche il teatro: quello greco e quello etrusco che era ricco di musica. Successivamente, il timore, nato soprattutto in epoca repubblicana, che la musica potesse indebolire gli animi, spinse i romani a preferire suoni più decisi come quelli degli strumenti a fiato. Questi erano utilizzati per incitare gli uomini e a favorire lo svolgimento di ogni genere di attività. Compresa la preparazione alla guerra in una sorta d’incitamento subliminale. Oggi sono rimaste solo poche testimonianze del canto e delle danze romane e nessuna testimonianza scritta di epoca precristiana. Non ci è pervenuto infatti quello che si pensa sia stato il primo trattato di musica in lingua latina: il De Musica, scritto da Marco Terenzio Varrone ( 116-28 a.c. ). Nonostante Roma non fosse amante della musica, dalle sue fondamenta si elevò un nuovo concetto musicale che, successivamente si sarebbe propagato in tutto l’Impero perdurando nelle epoche successive: il canto gregoriano. Il canto gregoriano nacque, ad opera dei seguaci del maestro di Nazareth, nel sottosuolo della città, dentro cunicoli e catacombe. Nel 54 d.c. giunse a Roma l’apostolo Pietro che insegnò con grande entusiasmo una preghiera piena di bellezza alle giovani comunità. Questo canto era strettamente legato alla diffusione del cristianesimo. I missionari se ne servivano per convertire i popoli pagani ai quali proposero una nuova religione e una nuova musica. Nel 323 d.c. il cristianesimo diviene religione di stato, la sua musica può finalmente entrare nelle chiese. Nei tempi successivi fu attaccato il canto laico e si affermò che la musica dovesse essere privilegio esclusivo dei religiosi. Il concilio di Châlones nel 650 d.c. proibì alle donne di cantare in chiesa. Particolarmente lunga e violenta fu la lotta per l’introduzione degli strumenti musicali nelle chiese; passò molto tempo prima che si ammettesse quanto meno l’organo. La musica probabilmente ha convertito al cristianesimo altrettanti uomini quanti la predicazione. C’erano a Roma, e in altre città, scuole dove i missionari erano educati alla musica: la scholae cantorum. Questi missionari costruirono monasteri in tutta Europa nei quali l’istruzione musicale aveva una parte di primo piano. Fu proprio con l’esplosione della musica gregoriana che troviamo un enorme quantità di innovazioni musicali; ad esempio, fu celebrata da Guido D’Arezzo, forse la più grande di tutte, quella dell’alfabeto musicale, tutt’ora valido in gran parte del mondo (Do, Re, Mi, Fa, Sol, La; la nota Si fu un invenzione posteriore). Il canto gregoriano per un certo periodo trionfò completamente, e per mille anni fu l’unica forma musicale europea; le ragioni erano semplici: in primo luogo si tratta di musica vocale pura senza accompagnamento di strumenti; inoltre è una musica monotona senza contrappunto ed infine tale modello costituiva l’unica forma musicale riconosciuta dall’avvento dell’unica religione di stato riconosciuta; il cristianesimo.

MUSICA NEL MEDIOEVO

Nel medioevo, il pensiero si occupa principalmente della struttura della musica e riprende in senso teologico cristiano il tema del rapporto tra musica e metafisica. Con la nascita del canto gregoriano e del rito della messa cantata ci si interroga sul rapporto tra musica e testo, un aspetto già presente nella poesia e nell’antico teatro greco, mentre con il melodramma barocco, il rapporto tra testo e musica si complica con quello tra musica e immagine per cui si comincia ad intuire l’esistenza di una correlazione tra la musica e una realtà extra musicale sia essa la soggettività stessa dell’ascoltatore o un aspetto metafisico della musica. Il proporsi del canto liturgico come essenziale punto di riferimento è dovuto all’importanza politica e culturale della chiesa Medioevale e alla sua propensione alla centralità nei processi di circolazione delle idee e dei fatti sociali in genere. Il canto liturgico accoglie in sé fenomeni musicali non occidentali e non colti, ma li integra in una summa, che si erge come legge e norma da seguire, imitare e diffondere. A Gregorio I Magno (Roma 540 – 604) si deve la riforma della liturgia e del canto romano. Il suo Antiphonarius Cento, originariamente legato con una catena d’oro all’altare di S. Pietro, disperso poi durante le invasioni barbariche, rappresenta una svolta nella storia della musica: da quel momento viene definita in termini precisi qual’è la vera liturgia e il vero canto della Chiesa. Da qui, la notazione della musica si sviluppò all’interno della Chiesa proprio come elemento di precisione, in un contesto in cui la legittimazione era rivolta essenzialmente al passato e l’improvvisazione e l’eccentricità bandite come eretiche. Da citare, senza alcun dubbio, in questo periodo storico, v’è Jacobus Leodiensis di Liegi. Si presume che egli, nel corso del XIV secolo, abbia scritto il trattato di teoria musicale Speculum musicae (Specchio musicale). Questi scritti, in sette volumi, rappresentano il più grande trattato musicale del medioevo che sia giunto ai nostri giorni, dove l’autore con il riferimento a molteplici fonti da Aristotele al platonismo, a Boezio, identifica le basi aritmetiche, retoriche, teologiche, fisiche della musica. Qui Jacobus difende la tradizionale Ars antiqua criticando l’ars nova, per il suo carattere innovativo e per il contenuto “profano”.

Speculum musicae (Jacobus Leodiensis di Liegi)

I volumi da 1 a 5 sono dei trattati di teoria musicale dedicati alla musica speculativa. Gli ultimi due volumi, si occupano dell’esecuzione musicale, mettendo la pratica esecutiva sotto la lente d’ingrandimento. In particolare:

  • Il primo volume tratta delle basi della teoria per far comprendere le consonanze musicali. Nel corso del libro fa riferimento a Boerzio, Isidoro di Siviglia, Guido d’Arezzo, Aristotele, Platone e Petrus Comestore. Il volume termina con un capitolo sulla teoria dell’armonia di Pitagora.

  • Il secondo volume tratta delle consonanze e precisamente del monocordo. I differenti intervalli sono trattati in proprie sezioni distinte.

  • Il terzo libro tratta esclusivamente i rapporti fra musica e matematica, occupandosi di proporzioni ed intervalli.

  • Il quarto volume si occupa delle consonanze e le rapporta fra di loro. Tratta anche delle cadenze e delle consonanze imperfette.

  • Nel quinto libro si occupa di tre diversi tipi di tetracordo e confronta il tetracordo con l’esacordo di Guido d’Arezzo.

  • Nel sesto libro tratta del canto gregoriano nella liturgia, ma anche di notazioni e del repertorio.

  • Nel settimo ed ultimo volume tratta della notazione mensurale.

La musica nel medioevo viene considerata degno oggetto di studio solo in quanto scienza delle proporzioni e inserita per questo nel quadrivium delle arti liberali al fianco di aritmetica, geometria e astronomia, secondo il modello di erudizione classica rielaborato in chiave cristiana da Agostino. Sant’Agostino progettò la compilazione di un’opera espressamente dedicata alla musica, ma riuscì solo a completare l’argomento del ritmo musicale che entrò a far parte del suo trattato De musica libri sex.

De musica libri sex (Sant’Agostino)

Il trattato di Sant’Agostino è in foma dialogica fra Discepolo e Maestro ed è imperniato sulla definizione “Musica est scientia bene modulandi”. Viene affermato lo statuto della musica come scienza, arte liberale, in contrapposizione alla musica come pura sonorità. Modulare, ha il significato di misurare ritmicamente. La modulazione, la misura ritmica, non sono altro che un movimento ordinato secondo leggi fisse, e proprio in analogia con il movimento (bene movendi), la musica è ulteriormente specificata come l’arte dove “il moto è ben regolato in modo che il movimento sia ricercato di per sé”. La classificazione dei movimenti in razionali irrazionali (mensurabili o senza misura), perfetti o perfettibili, introduce ad una metafisica del numero, dove ognuno di essi viene ad assumere un significato: ad esempio il numero tre è la perfezione del tutto, principio mezzo e fine, con una simbologia che rimanda alla Trinità. Nell’ultimo capitolo la trattazione entra in una sfera teologica, ove si espongono le varie specie di numero – suono in rapporto ai movimenti che l’anima produce sul corpo, e si privilegiano quei movimenti giudiziali in cui la ragione si adegua a riconoscere ciò che tutto sorpassa e tutto comprende: il giudizio estetico ha come strumento essenziale la categoria dell’eguaglianza nel ritmo razionale e in quello sensibile ricondotti all’unità, ma ciò che più conta è il ritmo intellegibile e ideale che proviene da Dio e che l’anima riscopre nella sua interiorità:

Il godimento è appunto la legge di gravitazione dell’anima. Il godimento dunque muove l’anima al fine… E cose superiori sono quelle in cui è permanente la sovrana, stabile, non diveniente, eterna eguaglianza. In essa non v’è tempo perché non v’è divenire e da essa i tempi hanno origine, sono diretti al fine e regolati come imitazioni dell’eternità attraverso i periodi in cui il moto circolare del cielo torna all’identico, riconduce all’identico i corpi celesti e obbedisce alle leggi dell’eguaglianza, armonia e finalità, con i giorni, i mesi, gli anni i lustri e gli altri movimenti orbitali delle stelle. Così le cose terrene sottomesse a quelle celesti fondono in una ritmica successione i movimenti orbitali dei propri tempi in un quasi poema dell’universo”.

Tramite la modulazione musicale si attua un processo di verticalizzazione del pensiero e dell’esperienza artistica. Ambiguamente la modulazione non è mai definita precisamente né sotto il dominio della musica né sotto il dominio della parola ma in un territorio che le abbraccia entrambi.

L’intento del De Musica è quindi educativo: “perché adolescenti e anche individui di ogni età con la guida della ragione siano distolti, non tutto a un tratto ma a gradi, dalle opere letterarie contrassegnate dal mezzo sensibile, per le quali è loro difficile non provare attaccamento”. Le riflessioni sul mezzo sensibile hanno una loro esplicitazione in un famoso passo delle Confessioni: “… ricordo le lacrime versate nell’udire il canto della tua Chiesa… e la commozione che ora provo non per il canto, ma per quel che si canta quando lo si esprime con la modulazione adatta, riconosco l’utilità di questa istituzione. Sono così esitante tra il pericolo del piacere e la salutare utilità del canto”. La modulazione musicale è un mezzo, mai un fine, e ha l’obbligo di adattarsi alla parola. Agostino suggerisce di seguire l’esempio di Atanasio vescovo di Alessandria: “…che faceva recitare il salmo dal lettore con modulazione di voce sì lieve, da sembrare più una declamazione che un canto”.

Ancora argomenti sulla musica furono trattati da Agostino nell’opera De ordine, nonché nelle Enarrationes in Psalmos, dove si esponeva la teologia del canto sacro e le allegorie musicali esposte nei Salmi. Sua fu, la famosa citazione: «Chi canta prega due volte».

Oltre al vescovo d’Ippona, modello e punto di riferimento di tale atteggiamento è il filosofo Severino Boezio (V-VI secolo d.C.), autore del De institutione musica, trattato cui si richiameranno tutti i successivi contributi sulla speculazione musicale di epoca medievale e non solo. Boezio sviluppa l’eredità del pensiero greco identificando tre tipi di musica che i commentatori successivi inseriscono nel contesto della cultura cristiana: quella mundana coincide con l’armonia delle sfere di Pitagora e Platone e viene associata al divino, quella humana esprime l’equilibrio tra l’uomo e il creato, quella instrumentalis coincide con la produzione del suono attraverso la voce (anche se nell’alto medioevo la musica vocale è associata alla humana) o gli strumenti musicali. Solo quest’ultima tipologia di musica è udibile in modo sensibile, mentre le prime due sono per Boezio oggetto di speculazione, dunque di un’indagine di livello superiore, nel segno di un primato dell’intelletto sull’orecchio. Una visione che, inevitabilmente, confinerà ancora in secondo piano il godimento estetico dell’esperienza musicale, la quale sarà considerata valida solo in relazione alla capacità di elevare lo spirito umano verso Dio attraverso l’armonia e l’equilibrio. In età carolingia, e fino almeno al secolo XI, lo sviluppo del canto liturgico e della sua notazione indirizza il recupero del pensiero musicale boeziano alla fondazione di una dimensione scientifica della musica (scientia musicae), sorta dall’esigenza di una giustificazione teorica, etica ed estetica del canto della chiesa. I monaci e gli ecclesiastici eruditi sono quindi spinti a inquadrare i problemi speculativi in ambito musicale facendo riferimento a una specifica prassi musicale, la quale viene anzitutto relazionata all’armonia cosmica e dei cori angelici e all’armonia del corpo e dell’anima umana. E’ interessante rilevare, che nel medioevo i monaci erano i depositari sia dell’arte medica, sia della musica. A partire dal secolo XII, con lo sviluppo della cultura universitaria e della filosofia di impianto aristotelico e con l’emergere della polifonia d’arte sacra e profana, il pensiero filosofico sulla musica si orienta verso la natura dell’esperienza musicale: la musica è arte o scienza? Riconosciuta quale arte pratica e scienza teorica insieme, la musica è ora definita come scientia media tra la matematica e la filosofia naturale, mentre al suo linguaggio, che si esprime ormai compiutamente nella notazione, è attribuita la qualifica di artificium, ovvero frutto della maestria e della sensibilità umana. Nel secolo XIII, con l’avvento della polifonia, e con i problemi di notazione ad essa connessi, la speculazione musicale pone in secondo piano i problemi filosofici e pur senza abbandonarli si interessa soprattutto alla tecnica. La tecnica musicale diventa una scienza, sviluppando un proprio linguaggio, i procedimenti di produzione e trasmissione di significato. Grocheo (1300) ci da la misura dell’interesse che questi procedimenti rivestono per il musico: “Come il grammatico che dispone delle poche lettere mediante le loro diverse combinazioni e collocazioni può realizzare qualunque frase, e come il matematico che dispone di poche cifre può premettendole o posponendole realizzare qualsiasi numero all’infinito, così il musico che dispone di tre figure, può comporre qualsiasi canto misurato. Per mezzo della nota lunga, infatti, egli può significare due o tre tempi, per mezzo della semibreve le frazioni del tempo (…). A queste figure però sono stati attribuiti significati differenti, per cui chi sa cantare e leggere una composizione secondo altri non lo sa fare. Queste differenze risultano evidenti se si guarda cosa dicono i diversi trattati. Tuttavia moltissimi attualmente a Parigi usano le note secondo le indicazioni del trattato del maestro Franco”. Come la matematica ed il linguaggio, la musica codifica e decodifica messaggi, utilizzando un numero limitato di elementi costitutivi. È importante sottolineare la coscienza dell’arbitrarietà del codice, dato che è possibile crearne e utilizzarne diversi: l’uso è in definitiva quello che ne determina la fortuna, non una sua presupposta validità. Giovanni de Muris, nello stesso periodo, dimostra una consapevolezza delle leggi del codice musicale descrivendo nella notazione la duplice natura del segno musicale, quella del “significante” (rappresentazione grafica) e quella del “significato” (realizzazione sonora), e puntualizzando ulteriormente la convenzionalità del segno musicale. Ecco il suo pensiero: “Benché i segni siano convenzionali, tuttavia, poiché tutte le cose sono in armonia tra loro, i musicisti debbono trovare i segni che in certo qual modo siano più convenienti ai suoni. E nel trovare i segni già da lungo tempo, gli antichi più saggi furono massimamente d’accordo che le figure geometriche fossero i segni dei suoni musicali. (…) La figura più adatta alla scrittura è quella quadrilatera perché può essere realizzata con un solo tratto di penna. (…) La nota scritta è il significante, il suono è il significato. Il significato è un’entità perfetta per la sua forma primaria e così pure il significante, e l’uno è correlato all’altro formando entrambi una cosa sola in quell’aggregazione che è la nota musicale. La nota musicale è infatti una figura quadrilatera significativa per convenzione del suono ritmizzato e misurato nel tempo”. Ciò che importa porre in evidenza è quanto sia sviluppata nel XIII secolo la tecnica musicale come scienza, tanto da definire da sé sola i propri elementi costitutivi, il proprio linguaggio, senza far più riferimento alla struttura della parola se non per analogia. La “scientia bene modulandi” incentrata sulla ritmica e sulla speculazione filosofica cosmico – matematica, ha come suo contraltare la musica, come scienza autonoma. L’avvento della polifonia produsse turbamenti all’interno del mondo ecclesiale romano. Tanto che, Papa Giovanni XXII nel 1324/5 emanò la Bolla “Docta sancto rum patrum” per condannare i “nonnulli novelle schole discipuli”. La Bolla papale non era una proibizione della polifonia vera e propria, ma una presa di posizione nei confronti degli artefici dell’Ars Nova. Viene respinta la velocità e la concitazione generale dei componimenti, che vanno in senso contrario alla meditazione corale del gregoriano. Questa forma di censura non fermò la novità, ma la dimensione più precisa delle possibilità eversive, che la speculazione e la pratica specialistica sulla tecnica musicale, poteva offrire. Come scrisse il compositore Mila, la musica si va orientando verso un ideale espressivo; “il compositore si fa più attento ai consigli della propria sensibilità (…) Sotto la spinta di un potente rinnovamento spirituale (…) L’astratta teoria scolastica non è più la signora incontrastata: l’orecchio vuole la sua parte, e le regole mirano a realizzare un edificio di piacevole effetto sonoro, non un’architettura puramente cerebrale”. In generale il dibattito filosofico sulla musica si secolarizza, i luoghi comuni della trattatistica medioevale vengono abbandonati, o ripetuti ma con sostanziali varianti. Cominciano ad apparire, nel XIV secolo, le prime timide considerazioni sulla “bellezza” della musica come fatto autonomo, che trova la sua unica giustificazione in se stessa, nella pura bellezza dei suoni.

Alle soglie dell’Umanesimo, la prospettiva di musica speculativa di Boezio fu ormai inadeguata a dare risposte concrete, sia a livello pratico, teorico e di composizione musicale: così che il musicus, divenuto compositore e teorico insieme, rapporta ora il sapere musicale delle antiche auctoritates con riflessioni di natura pratica ed estetica, da indirizzare alla creatività artistica e alla sua consapevole fruizione. Si apre quindi un nuovo spazio per la riflessione filosofica sulla musica, spazio che viene per la prima volta illuminato dall’opera di Jean-Baptiste Dubos (1670-1742). Dubos libera la musica dall’inquadramento matematico e razionalizzante, considerandola nelle sue manifestazioni sensibili e dunque mettendo al centro della sua analisi la pratica musicale strumentale e vocale. Esprimendo la convinzione che la musica sia imitazione della realtà e abbia per vocazione il ruolo di potenziare emotivamente la parola poetica, Dubos scardina la visione filosofica della musica come espressione dell’ordine razionale delle cose e pone l’accento sulla ricezione dell’esperienza musicale, dominata dal sentimento assai più che dalla ragione; il gusto estetico, definito dal piacere dell’ascolto e temperato dall’esperienza, diventa quindi il termometro del valore artistico di un’opera musicale. Con Dubos, si compie dunque la transizione da una concezione etica a una ormai già pienamente estetica del fenomeno musicale, malgrado il termine “estetica” nasca ufficialmente solo nel 1750 con Alexander Gottlieb Baumgarten. Nonostante il lavoro di Dubos, l’inquadramento speculativo matematico e spirituale della musica fatica a cadere anche nel secolo dei Lumi. Il retaggio più resistente è senz’altro la scarsa considerazione per la musica strumentale, cui solo il Romanticismo attribuirà finalmente un ruolo centrale nella riflessione filosofica.

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