Letteratura (Aforismi sulla saggezza nella vita – Arthur Schopenhauer)

Aforismi sulla saggezza nella vita (dall’opera PARERGA UND PARALIPOMENA) – Arthur Schopenhauer

INTRODUZIONE

La felicità non è facile a conquistare; è molto difficile trovarla in noi — impossibile altrove. (CHAMFORT)

Prendo qui nel suo significato immanente la nozione di saggezza nella vita, cioè intendo con ciò l’arte di rendere la vita quanto meglio è possibile piacevole e felice. Questo studio potrebbe egualmente chiamarsi l’Eudemonologia; sarebbe dunque un trattato sulla vita felice. Questa potrebbe a sua volta essere definita una esistenza che, considerata dal punto di vista puramente esteriore, o piuttosto (trattandosi d’un apprezzamento soggettivo) che dopo fredda e matura riflessione è preferibile alla non-esistenza. La vita felice, così definita, ci attrarrebbe per sè stessa, e non solo per il timore della morte; ne risulterebbe inoltre che noi desidereremmo vederla durare senza fine. Se la vita umana corrisponda, o possa solamente corrispondere alla nozione d’una tale esistenza, è questione a cui si sa che ho risposto con una negativa nella mia Filosofia; l’eudemonologia invece presuppone una risposta affermativa. Infatti questa si fonderebbe sopra tale errore innato, errore che ho combattuto in principio del capitolo XLIX, vol. II, della mia opera principale. In conseguenza, per poter nondimeno trattare la questione, dovetti allontanarmi interamente dal punto di vista elevato, metafisico e morale a cui conduce la mia vera filosofia. Lo sviluppo che segue è stabilito adunque, in una certa misura, sopra una convenzione, nel senso che esso si mette sotto il punto di vista usuale ed empirico, e ne conserva l’errore. Il suo valore inoltre non può essere che condizionato, dal momento che la parola eudemonologia non è che un eufemismo. Di più esso non ha la minima pretesa di esser completo, sia perchè il tema è inesauribile, sia perchè io avrei dovuto ripetere ciò che altri ha già detto. Io non ricordo che il libro di Cardano: De utilitate ex adversis capienda (dell’utilità che si può cavare dalle disgrazie), lavoro degno d’esser letto, che tratti lo stesso argomento dei presenti aforismi; esso potrà servire a completare quanto io qui presento. Aristotele, è vero, ha intercalato una breve eudemonologia nel capitolo V, libro I, della sua Rettorica, ma non ha fatto che un’opera assai meschina. Io non ricorsi a questi miei predecessori; che non è affar mio il compilare; tanto meno lo feci perchè in tal modo si perde quell’unità di vedute che è l’anima delle opere di sì fatta specie. Insomma, certamente i saggi di tutti i tempi hanno sempre detto lo stesso, e gli sciocchi, cioè l’incommensurabile maggioranza di tutti i tempi, hanno sempre fatto lo stesso, ossia l’opposto, e sarà sempre così. Anche Voltaire dice; Noi lascieremo questo mondo tanto stupido e tanto cattivo quanto lo abbiamo trovato venendoci.

CAPITOLO PRIMO
Divisione fondamentale.

Aristotele (Etica a Nicomaco, I, 8) ha diviso i beni della vita umana in tre classi: beni esteriori, dell’anima e del corpo. Non conservando che la divisione in tre io dico che ciò che distingue le sorti dei mortali può essere ridotto a tre condizioni fondamentali. Esse sono:
1.° Ciò che si è: dunque la personalità nel suo senso più lato. Per conseguenza qui si comprende la salute, la forza, la bellezza, il temperamento, il carattere morale, l’intelligenza ed il suo sviluppo.
2.° Ciò che si ha: dunque proprietà e ricchezza d’ogni natura.
3.° Ciò che si rappresenta: è noto che con questa espressione s’intende la maniera colla quale altri si figura un individuo, quindi ciò che questi è nell’altrui rappresentazione. Tutto ciò consiste dunque nell’opinione altrui a suo riguardo, e si divide in onore, grado e gloria.
Le differenze della prima categoria, di cui abbiamo da occuparci, sono quelle che la natura stessa ha posto fra gli uomini; d’onde si può già inferire che la loro influenza sulla felicità o sull’infelicità sarà più essenziale e più penetrante che quella delle differenze che derivano dalle convenzioni umane e che noi abbiamo ricordato nelle due rubriche seguenti. I veri vantaggi personali, quali una gran mente o un gran cuore, sono in rapporto ad ogni vantaggio di grado, di nascita, pur anche regale, di ricchezza, ecc., ciò che i re veri sono rispetto ai re sul teatro. Già Metrodoro, il primo discepolo d’Epicuro, aveva intitolato un capitolo; Le cause che vengono da noi contribuiscono alla felicità più di quelle che nascono dalle cose. E, senza dubbio, per la felicità dell’individuo, pur anche in tutto il suo modo di essere, la cosa principale sarà evidentemente quello che si trova o si produce in lui. Infatti è là che risiede immediatamente il suo benessere o la sua infelicità; insomma è sotto questa forma che si manifesta da bel principio il risultato della sua sensibilità, della sua volontà, del suo pensiero; tutto ciò che si trova al di fuori non ha che un’influenza indiretta. Perciò le medesime circostanze, i medesimi avvenimenti esterni impressionano ogni individuo in modo affatto differente, e, quantunque tutti siano posti nello stesso mezzo, ognuno vive in un mondo differente. Perchè ciascuno non ha direttamente a che fare se non colle sue proprie sensazioni, e coi movimenti della sua propria volontà: le cose esterne non hanno influenza su lui che in quanto determinino questi fenomeni interni. Il mondo in cui si vive dipende dal modo d’intenderlo, che è differente per ogni testa; secondo la natura delle intelligenze esso sembrerà povero, scipito e volgare, o ricco, interessante ed importante. Mentre un tale, per esempio, invidia un tal altro per le avventure interessanti toccategli nella sua vita, dovrebbe piuttosto invidiargli il dono di concezione che ha dato a questi avvenimenti l’importanza che assumono nella sua descrizione, perchè il medesimo fatto che si presenta in un modo così interessante nella testa d’un uomo di spirito, non offrirebbe più, concepito da un cervello grossolano e triviale, che una scena insipida della vita d’ogni giorno. Ciò si manifesta al più alto grado in molte poesie di Goethe e di Byron, il fondo delle quali sta evidentemente sopra un dato reale; uno sciocco, leggendole, è capace d’invidiare al poeta la graziosa avventura in luogo d’invidiargli la potente immaginazione che d’un avvenimento abbastanza comune, ha saputo fare qualche cosa di così grande e di così bello. Egualmente il melanconico vedrà una scena di tragedia là dove il sanguigno non vede che un conflitto interessante, ed il flemmatico un caso insignificante. Tutto questo proviene dal fatto che ogni realtà, cioè ogni attualità compita, si compone di due metà, il soggetto e l’oggetto, ma così necessariamente e così strettamente unite come l’ossigeno e l’idrogeno nell’acqua. Identica la metà oggettiva, e differente la soggettiva, o viceversa, la realtà attuale sarà tutt’altra; la più bella e la migliore metà oggettiva, quando la soggettiva è grossolana, di trista qualità, non darà mai che una cattiva realtà ed attualità, simile ad un bel sito visto col brutto tempo o riflesso da una camera oscura difettosa. Per parlare più volgarmente ognuno è ficcato nella sua coscienza come nella sua pelle, e non vive immediatamente che in essa; così dal di fuori vi sarà da portargli ben poco aiuto. Sulle scene Tizio rappresenta i principi, Caio i magistrati, Sempronio i lacchè, o i soldati, o i generali, e così di seguito. Ma queste differenze non esistono che all’esterno; all’interno, come nocciuolo del personaggio, è sepolto in tutti lo stesso essere, vale a dire un povero commediante colle sue miserie e coi suoi affanni. Nella vita succede lo stesso. Le differenze di grado e di ricchezza danno a ciascuno la parte da rappresentare, a cui non corrisponde affatto una differenza interna di felicità e di benessere; anche qui è posto in ciascheduno lo stesso povero bietolone colle sue miserie e coi suoi fastidî che possono differire presso i singoli individui quanto al fondo, ma che quanto alla forma, cioè in rapporto all’essere proprio, sono presso a poco gli stessi per tutti; ha certo differenza nel grado, ma questa non dipende minimamente dalla condizione o dalla ricchezza, vale a dire dalla parte da rappresentare. Come tutto ciò che succede, tutto ciò che esiste per l’uomo, non succede e non esiste immediatamente che nella sua coscienza, evidentemente la qualità della coscienza sarà l’essenziale prossimo, e nella maggior parte dei casi tutto dipenderà da questa meglio che dalle immagini che vi si presentano. Tutti gli splendori, tutte le gioie son povere, riflesse dalla coscienza appannata d’un imbecille, rispetto alla coscienza d’un Cervantes che in una squallida prigione scrive il Don Chisciotte. La metà oggettiva dell’attualità e della realtà è fra le mani della sorte e quindi mutabile; la metà soggettiva la siamo noi stessi, in conseguenza essa è immutabile nella sua parte essenziale. Così malgrado tutti i cambiamenti esterni la vita d’ogni uomo porta da un capo all’altro lo stesso carattere; la si può paragonare ad un seguito di variazioni sul medesimo tema. Nessuno può sortire dalla propria individualità. Per l’uomo avviene come per l’animale; questo, qualunque siano le condizioni in cui lo si mette, resta confinato nel piccolo cerchio che la natura ha irrevocabilmente tracciato intorno al suo essere, ciò che spiega perchè, per esempio, tutti i nostri sforzi per la felicità dell’animale che amiamo, devono mantenersi per forza fra confini assai ristretti, precisamente in causa di questa limitazione del suo essere e della sua coscienza; del pari l’individualità dell’uomo si trova fissata anticipatamente la misura della sua possibile felicità. Sono in special modo i confini delle facoltà intellettuali che determinano una volta per sempre l’attitudine alle gioie d’ordine superiore. Se tali facoltà sono limitate, tutti gli sforzi esterni, tutto quanto gli uomini o la fortuna facessero in suo favore, tutto sarà impotente a trasportare l’individualità oltre la misura della felicità e del benessere ordinario, mezzo animale; essa dovrà contentarsi dei piaceri sensuali, d’una vita intima ed allegra in famiglia, d’una società di bassa lega o di passatempi volgari. L’istruzione stessa, quantunque abbia una certa azione, non saprebbe insomma allargare di molto questo cerchio, perchè i piaceri più elevati, più vari e più durabili sono quelli dello spirito, per quanto falsa possa essere in gioventù la nostra opinione su tale argomento; e questi piaceri dipendono soprattutto dalla forza intellettuale. È dunque facile veder chiaramente quanto la nostra felicità dipenda da ciò che siamo, dalla nostra individualità, mentre non si tiene conto il più delle volte che di ciò che abbiamo o di ciò che rappresentiamo. La sorte però può migliorarsi, inoltre chi possiede la ricchezza interna non le domanderà gran cosa; ma lo sciocco resterà sciocco, lo scimunito sarà scimunito fino alla fine, foss’anche in paradiso fra mezzo le Urì. Goethe dice: Popolo, e lacchè, e conquistatori in ogni tempo riconoscono che il bene supremo dei figli della terra e solamente la personalità. (W. O. Divan). Che il soggettivo sia incomparabilmente più essenziale alla nostra felicità ed alle nostre gioie dell’oggettivo ci viene provato in tutto, dalla fame che è la miglior cucina, dal vegliardo che guarda con indifferenza la deità che il giovine idolatra, fino all’estremo vertice ove troviamo la vita dell’uomo di genio e del santo. La salute soprattutto prevale talmente sui beni esteriori che in verità un mendicante sano è più felice di un re malato. Un temperamento calmo e giocondo, proveniente da una salute perfetta e da una eccellente organizzazione, una mente lucida, viva, acuta e giusta, una volontà moderata e dolce, e come risultato una buona coscienza, ecco i vantaggi che nessun grado, nessuna ricchezza saprebbero surrogare. Ciò che un uomo è per sè stesso, ciò che l’accompagna nella solitudine, e ciò che nessuno saprebbe dargli o togliergli, è evidentemente più essenziale per lui che tutto quello ch’egli può possedere o che può essere per gli occhi altrui. Un uomo di spirito, nella solitudine la più assoluta, trova nei suoi pensieri e nella sua fantasia di che spassarsi dilettevolmente, mentre l’individuo povero di spirito potrà variare all’infinito le feste, gli spettacoli, i passeggi e i divertimenti senza riuscire a scacciar la noia che lo tortura. Un buon carattere, moderato e dolce, potrà esser contento nell’indigenza mentre tutte le ricchezze del mondo non saprebbero soddisfare un carattere avido, invidioso e malvagio. In quanto all’uomo dotato in permanenza d’una individualità straordinaria, intellettualmente superiore, può far senza della maggior parte di quei piaceri a cui generalmente aspira la gente; anzi questi non sono per lui che un disturbo ed un peso. Orazio dice parlando di sè; V’è chi possiede gemme, marmi, avori, statuette etrusche, quadri, argento, vesti tinte di porpora di Getulia; v’è chi non si cura d’averne (Ep. II, L. II, v. 180 e seg.). E Socrate alla vista d’oggetti di lusso esposti per la vendita diceva: Quante cose vi sono di cui non ho bisogno! Così la condizione prima e più essenziale per la felicità della vita è ciò che noi siamo, la personalità; a spiegarlo basterebbe il fatto che essa agisce costantemente ed in ogni circostanza, che inoltre non è soggetta a peripezie come i beni delle altre due categorie, e che non può esserci tolta. In questo senso il suo valore può esser considerato come assoluto, in opposizione al valore solamente relativo degli altri beni. Ne risulta che l’uomo è molto meno suscettibile d’esser modificato dal mondo esterno di quello che non si sarebbe disposti a crederlo. Solo il tempo, nel suo potere sovrano, esercita egualmente anche qui i suoi diritti; le facoltà fisiche ed intellettuali s’infiacchiscono sotto i suoi colpi: il carattere morale solo rimane inattaccabile. Sotto questo rapporto i beni delle due ultime categorie avrebbero un vantaggio sui beni della prima, siccome quelli che il tempo non toglie direttamente. Un altro vantaggio sarebbe che, essendo posti fuori di noi, sono accessibili di loro natura, e che ciascuno ha per lo meno la possibilità di acquistarseli, mentre ciò che è in noi, il soggettivo, è sottratto al nostro potere; stabilito per diritto divino, esso si conserva invariabile per tutta la vita. Così l’idea seguente contiene una inesorabile verità:
«Come nel giorno che t’ha dato al mondo, il sole era là per salutare i pianeti, tu sei cresciuto senza interruzione secondo la legge con cui cominciasti. Tale è il tuo destino; tu non puoi sfuggire a te stesso; così parlavano già le Sibille, così i Profeti; nè tempo, nè potenza alcuna spezza l’impronta che si sviluppa nel corso della vita.» «GOETHE.»
Quanto possiamo fare in questo riguardo si è d’impiegare la personalità, quale ci fu data, al nostro maggior profitto; in conseguenza non coltivare che le aspirazioni che le si confanno, non cercare che lo sviluppo che le è appropriato evitandone qualunque altro, non sceglier quindi che lo stato, l’occupazione, il genere di vita che le convengono. Un uomo erculeo, dotato d’una forza muscolare straordinaria, costretto dalle circostanze esterne a darsi ad un’occupazione sedentaria, ad un lavoro manuale, paziente e penoso, o peggio ancora allo studio ed a lavori di mente, occupazioni che reclamano forze differenti, non sviluppate in lui, e che lasciano precisamente senza impiego le forze che gli sono caratteristiche, un tal uomo sarà infelice tutta la vita; sarà anche molto più infelice colui nel quale le facoltà intellettuali prevalgono di molto, e che è obbligato a lasciarle senza sviluppo e senza impiego per occuparsi di faccende volgari che non domanda, oppure, e soprattutto, d’un lavoro corporale per cui la sua forza fisica non è sufficiente. Tuttavia, nel caso, bisogna anche evitare, specialmente nell’età giovane, lo scoglio della presunzione e non attribuirsi un eccesso di forze che non si abbia. Dalla preponderanza bene stabilita della nostra prima categoria sulle altre due, risulta ancora che è più saggio adoprarsi per conservare la salute e per sviluppare le proprie facoltà che non per acquistare ricchezze, ciò che non bisogna però interpretare nel senso che occorra trascurare l’acquisto delle cose necessarie e convenienti. Ma la ricchezza propriamente detta, vale a dire un grande superfluo, contribuisce poco alla nostra felicità; per questo molti ricchi si sentono infelici perchè sono sprovveduti di una vera cultura dello spirito, di cognizioni e quindi di ogni interesse oggettivo che potrebbe renderli atti ad un’occupazione intellettuale. Perocché quanto la ricchezza può fornire al di là della soddisfazione dei bisogni reali e naturali ha un’influenza piccolissima sul nostro vero benessere; questo è piuttosto turbato dalle numerose ed inevitabili cure che porta con sè la conservazione d’una grande fortuna. Tuttavia gli uomini sono mille volte più occupati ad acquistar la ricchezza che la coltura intellettuale, quantunque ciò che si è contribuisca di certo alla nostra felicità più di ciò che si ha. Quante persone non vediamo noi diligenti come formiche ed occupate da mattina a sera ad accrescere una ricchezza già acquistata! Essi non conoscono nulla al di fuori del ristretto orizzonte che racchiude i mezzi di riuscire al loro scopo; il loro spirito è vuoto, e quindi inaccessibile a tutt’altra occupazione. I piaceri i più elevati, i diletti intellettuali sono per costoro impossibili; invano essi cercano di sostituirli con divertimenti fugaci, sensuali, facili ma costosi, che si permettono di tempo in tempo. Al termine della loro vita essi trovarsi davanti come risultato, quando la sorte fu loro propizia, un gran monte d’oro, di cui lasciano allora agli eredi la cura di aumentare oppure di dissipare. Una tale esistenza, benché condotta con apparenza serissima ed importantissima, è dunque tanto insensata come un’altra che inalberasse apertamente per insegna la mazza della follia. Così l’essenziale per la felicità della vita è ciò che si ha in sè stessi. È unicamente perchè la dose ne è d’ordinario così piccola che la maggior parte di coloro che sono già sortiti vittoriosi dalla lotta contro il bisogno, si sentono in fondo tanto infelici come chi si trova ancora nella mischia. La vacuità del loro interno, la scipitezza della loro intelligenza, la povertà del loro spirito, li spingono a cercare la compagnia, ma una compagnia composta di persone a loro simili, perchè similis simile gaudet. Allora comincia in comune la caccia ai passatempi ed ai divertimenti, ch’essi cercano da principio nei godimenti sensuali, nei piaceri d’ogni specie, ed alla fine nelle orgie. La sorgente di questa funesta dissipazione, la quale in un tempo incredibilmente breve fa disperdere grosse eredità a tanti figli di famiglia entrati ricchi nella vita, non è altra davvero che la noia risultante da questa povertà e da questo vuoto dello spirito che abbiamo or ora descritto. Un giovane lanciato così nel mondo, ricco al di fuori ma povero al di dentro, si sforza inutilmente di supplire al difetto della ricchezza interna coll’esterna; ei vuole ricever tutto dal di fuori, simile a quei vecchi che cercano d’attinger nuove forze nel fiato delle giovinette. In tal modo la povertà interna ha finito col produrre anche la povertà esterna. Non credo occorra metter in rilievo l’importanza delle due altre categorie dei beni della vita umana, perchè le ricchezze sono oggidì troppo universalmente in pregio per aver bisogno d’esser raccomandate. La terza categoria è di una natura molto eterea a confronto della seconda, visto che essa non consiste che nell’opinione altrui. Tuttavia è ammesso che ciascuno possa aspirare all’onore, cioè ad un buon nome; ad un grado può aspirare unicamente chi serve lo Stato, e in quanto concerne la gloria non ve n’ha che infinitamente pochi che possano pretendervi. L’onore è considerato come un bene inapprezzabile, e la gloria come la cosa più eccellente che l’uomo possa acquistare; essa è il toson d’oro degli eletti; invece solo gli sciocchi preferiranno il grado alle ricchezze. La seconda e la terza categoria hanno inoltre una sull’altra ciò che si dice un’azione reciproca; quindi l’adagio di Petronio; «Habes, haberis»3 è vero, e, in senso inverso, la buona opinione altrui, sotto tutte le forme, ci aiuta soventi volte ad acquistar la ricchezza.

CAPITOLO II
Di ciò che si è.

Noi abbiamo già conosciuto in modo generale che ciò che si è contribuisce alla nostra felicità più di ciò che si ha o di ciò che si rappresenta. La cosa principale è sempre ciò che un uomo è, in conseguenza ciò che possiede in lui stesso, perocchè la sua individualità l’accompagna dappertutto e dovunque, e colora di sua tinta tutti gli avvenimenti della vita. In ogni cosa, ed in ogni occasione quello che a bella prima gli fa impressione è lui stesso. Questo è già vero per i piaceri materiali, e, a più forte ragione, per quelli dell’anima. Così l’espressione inglese: To enjoy one’s self è molto ben trovata; non si dice mica in inglese: Parigi gli piace, si dice invece: egli si piace a Parigi (He enjoys himself at Paris).

1. La salute dello spirito e del corpo.

Ma se l’individualità è di qualità cattiva, tutte le gioie saranno come un vino squisito in una bocca impregnata di fiele. Così dunque, nella buona come nella cattiva fortuna, e salvo il caso di qualche grande disgrazia, ciò che tocca ad un uomo nella sua vita è d’importanza più piccola che la maniera con cui egli lo sente, vale a dire la natura ed il grado della sua sensibilità sotto tutti i rapporti. Ciò che abbiamo in noi stessi e da noi stessi, in una parola la personalità ed il suo valore, ecco il solo fattore immediato della nostra felicità e del nostro benessere. Tutti gli altri agiscono indirettamente; la loro azione quindi può essere annullata, ma quella della personalità mai. Di qui viene che l’invidia più irreconciliabile e nello stesso tempo nascosta colla massima cura è quella che ha per oggetto i vantaggi personali. Inoltre la qualità della coscienza è la sola cosa permanente e persistente; l’individualità agisce costantemente, continuamente, e più o meno, in ogni momento; tutte le altre condizioni non hanno che un’influenza temporanea, passeggera, d’occasione, e possono anche cangiare o sparire. Aristotele dice: La natura è eterna, non le cose (Mor. a Eudemo, VII, 2). È per questo che noi sopportiamo con più rassegnazione la sventura la cui causa è tutta esterna, piuttosto che quella che ci colpisce per nostra colpa; perchè la sorte può cangiare, ma la nostra propria qualità è immutabile. Quindi i beni soggettivi, quali un carattere nobile, una testa possente, un umore gaio, un corpo bene organizzato ed in perfetta salute, o, in generale, mens sana in corpore sano (Giovenale sat. X, 355), sono beni supremi, ed importantissimi alla nostra felicità; perciò dovremmo attendere molto più al loro sviluppo ed alla loro conservazione che non al possesso dei beni esterni e dell’onore esterno. Ma ciò che sopra tutto contribuisce più direttamente alla nostra felicità è un umore allegro, perocchè questa buona qualità trova subito la ricompensa in sè stessa. Infatti chi è gaio ha sempre motivo d’esserlo per la stessa ragione ch’egli lo è. Niente può sostituire così completamente tutti gli altri beni come questa qualità, mentre essa stessa non può esser surrogata da cosa alcuna. Che un uomo sia giovane, bello, ricco e stimato, per poter giudicare sulla sua felicità sarà questione di sapere se, oltre a ciò, egli sia gaio; in cambio s’egli è gaio, poco importa che sia giovane o vecchio, ben fatto o gobbo, povero o ricco; egli è felice. Nella mia prima giovinezza ho letto un giorno in un vecchio libro la frase; Chi ride molto è felice, chi piange molto è infelice; l’osservazione è molto sciocca, ma a causa della sua verità così semplice non ho potuto dimenticarla, quantunque essa sia il superlativo d’un truism (in inglese verità triviale). Così dobbiamo, ogni volta che si presenta, aprire alla gaiezza porte e finestre, giacchè essa non giunge mai di contrattempo, e non esitare a riceverla, come facciamo di sovente, volendo prima renderci conto se abbiamo bene in ogni riguardo motivo d’esser contenti, od anche per paura che essa non ci distragga da serie meditazioni o da gravi cure quando è molto incerto che queste possano migliorare la nostra condizione, mentre la gaiezza, è un beneficio immediato. Essa sola è, per così dire, il danaro contante della felicità; tutto il resto non ne è che il biglietto di banca; perocchè essa sola può darci la felicità in un presente immediato; così è la gaiezza il supremo bene per esseri la cui realtà ha la forma di un’attualità indivisibile tra due tempi infiniti. Noi dovremmo dunque aspirare anzitutto ad acquistare ed a conservare questo bene. È certo d’altronde che niente contribuisce alla gaiezza meno della ricchezza, e che niente vi contribuisce meglio della salute: si è nelle classi inferiori, fra i lavoranti e particolarmente fra i contadini che troviamo i visi allegri e contenti; nei ricchi e nei grandi dominano le sembianze melanconiche. Dovremmo perciò applicarci soprattutto a conservare questo stato perfetto di salute di cui la gaiezza appare come fioritura. Per ottener questo si sa che bisogna fuggire ogni eccesso ed ogni disordine, evitare ogni emozione violenta e penosa, come pure ogni applicazione dello spirito soverchia o troppo prolungata; bisogna ancora prendere ogni giorno due ore d’esercizio rapido all’aria libera, bagni frequenti d’acqua fredda, ed altre misure dietetiche dello stesso genere. Non v’è salute se non ci si dà ogni giorno abbastanza movimento; tutte le funzioni della vita per compiersi regolarmente esigono il movimento degli organi per cui si compiono, e dell’insieme del corpo. Aristotele ha detto con ragione: la vita è nel movimento. Infatti la vita consiste essenzialmente nel movimento. All’interno d’ogni organismo regna un movimento incessante e rapido: il cuore nel suo doppio movimento di sistole e diastole, batte impetuoso ed instancabile; 28 pulsazioni gli bastano per mandare la massa intera del sangue nel torrente della grande e della piccola circolazione; il polmone aspira senza mai smettere come una macchina a vapore; gl’intestini si contraggono senza posa d’un movimento peristaltico; tutte le glandule assorbono e danno secrezioni incessantemente; il cervello stesso ha un doppio movimento per ogni battito del cuore e per ogni aspirazione del polmone. Se, come succede nel genere di vita interamente sedentario di tante persone, il movimento esterno manca quasi totalmente, ne risulta una sproporzione innaturale e dannosa tra il riposo esterno ed il tumulto interno. Perchè questo perpetuo moto all’interno richiede anche d’esser aiutato qualche poco dal moto all’esterno; tale stato sproporzionato è analogo a quello che nascerebbe quando fossimo tenuti a non lasciar scorgere al di fuori segno visibile di un’emozione che ci fa bollire il sangue internamente. Gli alberi stessi, per prosperare, hanno bisogno d’esser agitati dal vento. È questa una regola assoluta che si può esprimere nel modo più conciso in latino: Omnis motus, quo celerior, eo magis motus (quanto più celere, tanto più ogni movimento è movimento). Per meglio renderci conto quanto la nostra felicità dipenda da una disposizione all’allegria, e questa dallo stato di salute, non abbiamo che a confrontare l’impressione che producono su noi le stesse circostanze esterne o gli stessi avvenimenti, nei giorni di salute e di forza con quella che è prodotta, quando uno stato di malattia ci dispone ad esser di cattivo umore ed inquieti. Non è già ciò che sono oggettivamente ed in realtà le cose, ma ciò che esse sono per noi, nella nostra percezione, che ci rende felici o infelici. È quanto esprime assai bene questa sentenza d’Epitteto: Ciò che commuove gli uomini non son le cose, ma l’opinione sulle cose. In tesi generale i nove decimi della nostra felicità riposano esclusivamente sulla salute. Con essa tutto diventa sorgente di piacere; senza di essa invece noi non sapremmo gustare un bene esterno di qual si sia natura; pur anche gli altri beni soggettivi, come le qualità dell’intelligenza, del cuore, del carattere, sono diminuite e guastate dallo stato di malattia. Così non è senza ragione che noi prendiamo notizia scambievolmente sullo stato della nostra salute e che ci desideriamo reciprocamente di star bene, perchè proprio in ciò v’ha quanto è più essenzialmente importante per là felicità umana. Ne segue adunque che è insigne pazzia sacrificare la propria salute a checchessia, ricchezza, carriera, studii, gloria e sopra tutto alla voluttà, ed ai piaceri fuggitivi. Al contrario tutto deve cedere il passo alla salute. Per quanto grande sia l’influenza della salute su questa gaiezza così essenziale alla nostra felicità, non di meno questa non dipende unicamente dalla prima, perchè con una salute perfetta si può avere un temperamento melanconico ed una disposizione predominante alla tristezza. Ne risiede certamente la causa nella costituzione originaria, quindi immutabile, dell’organismo e più specialmente nel rapporto più o meno normale della sensibilità con l’irritabilità e con la riproduttività. Una preponderanza anormale della sensibilità produrrà l’ineguaglianza d’umore, una gaiezza periodicamente esagerata ed un predominio della melanconia. Siccome il genio è determinato da un eccesso della forza nervosa, vale a dire della sensibilità, Aristotele ha osservato con ragione che tutti gli uomini illustri ed eminenti sono melanconici: Tutti gli uomini che sono nati o alla filosofia, o alla politica, o alla poesia o alle arti si mostrano melanconici (Prob. 30, 1). Cicerone ebbe senza dubbio in vista questo passaggio nella relazione tanto citata: Aristotele disse tutti gli uomini d’ingegno esser melanconici (Tusc. I, 33). Shakespeare ha dipinto molto piacevolmente questa grande diversità del temperamento generale; La natura si diverte qualche volta a formare esseri curiosi. V’ha chi si dà a fare continuamente gli occhietti piccoli e che si mette a ridere come un pappagallo davanti un semplice suonator di cornamusa, e v’ha chi tiene una tale fisonomia d’aceto che non scoprirebbe i suoi denti, pur per sorridere, quand’anche il grave Nestore giurasse ch’ei ha udito or ora uno scherzo dei più ameni. (Il Mercante di Venezia, scena I). È questa stessa diversità che Platone disegna colle parole δυσκολος (d’umore difficile), ed ευκολος (d’umore facile). Essa può esser ridotta alla suscettibilità, molto diversa nei diversi individui, per le impressioni piacevoli o disaggradevoli, in conseguenza della quale Tizio ride ancora di ciò che mette Cajo in disperazione. E di più la suscettibilità per le impressioni piacevoli è d’ordinario tanto più piccola quanto quella per le impressioni disaggradevoli è più forte, e viceversa. A probabilità eguali di buono o cattivo esito in un affare, il δυσκολος si stizzerà o si affliggerà dell’insuccesso, e non si rallegrerà per la riuscita; l’ευκολος invece non sarà nè stizzito nè afflitto per il cattivo esito, e sarà contento per il buon successo. Se, nove volte su dieci, il δυσκολος riesce ne’ suoi progetti, ei non si rallegrerà per le nove volte riescite a bene, ma sarà triste per il cattivo esito della decima; nel caso inverso l’ευκολος sarà consolato e contento per l’unico successo felice. Però non è facile trovare un male che non abbia alcun compenso; così succede che i δυσκολος, cioè i caratteri cupi ed inquieti, avranno, è vero, a sopportare alla fin fine più disgrazie e dolori immaginari che non i caratteri allegri e spensierati, ma in cambio incontreranno meno sventure effettive, perchè chi vede tutto nero, chi teme sempre il peggio e prende le sue misure in conseguenza, non avrà delusioni così frequenti come colui che dà colore e prospettiva ridente ad ogni cosa. Nondimeno quando un’affezione morbosa del sistema nervoso o dell’apparecchio digestivo viene a dar forza ad una δυσκολια innata, allora questa può giungere a quell’alto grado in cui un malessere permanente produce il disgusto della vita, d’onde proviene l’inclinazione al suicidio. Il quale può allora esser provocato dalle più piccole contrarietà; ad un grado molto elevato del male non havvi nemmeno bisogno di motivo, per risolvervisi basta la sola permanenza del malessere. Il suicidio si compie allora con sì fredda riflessione e con sì inflessibile risoluzione che a questo stadio il malato, posto d’ordinario sotto custodia, profitta, lo spirito costantemente fisso su questa idea, del primo momento in cui la sorveglianza sia rilassata per ricorrere senza esitazione, senza lotta e senza paura, a questo mezzo di sollievo per lui così naturale in questo momento, e così ben venuto. Esquirol ha descritto molto a lungo tale stato nel suo Trattato delle malattie mentali. È certo che l’uomo il più sano, e fors’anco il più gaio, potrà, capitando il caso, determinarsi al suicidio; ciò succederà quando l’intensità dei dolori o d’una sventura prossima ed inevitabile sarà più forte dei terrori della morte. Non v’è differenza che nella potenza più o meno grande del motivo determinante, potenza che è in rapporto inverso colla δυσκολια. Quanto più questa è grande, tanto più il motivo potrà esser piccolo; al contrario più l’ευκολια, come pure la salute che ne è la base, è grande, più grave dovrà essere motivo. Vi saranno dunque gradi innumerevoli tra questi due casi estremi di suicidio, tra quello cioè provocato puramente da una recrudescenza morbosa della δυσκολια innata, e quello dell’uomo sano ed allegro, proveniente da cause affatto oggettive.

2. La bellezza.

La bellezza è analoga in parte alla salute. Questa qualità soggettiva, benchè non contribuisca che indirettamente alla felicità coll’impressione che produce sugli altri, ha nondimeno una grande importanza anche per il sesso mascolino. La bellezza è una lettera aperta di raccomandazione che ci guadagna i cuori anticipatamente; specie ad essa s’applicano i versi di Omero; Non bisogna sdegnare i doni gloriosi degli immortali che soli possono dare e che nessuno può accettare o rifiutare a suo piacere.

3. Il dolore, e la noia. L’intelligenza.

Un semplice colpo d’occhio ci fa scoprire due nemici della felicità umana; il dolore e la noia. Inoltre possiamo osservare che a misura che riusciamo ad allontanarci dall’uno, ci avviciniamo al secondo, e reciprocamente; di maniera che la nostra vita rappresenta in realtà una oscillazione più o meno forte tra i due. Ciò deriva dal doppio antagonismo in cui ciascuno di essi si trova verso l’altro, antagonismo esterno od oggettivo, ed antagonismo interno o soggettivo. Infatti esteriormente il bisogno e la privazione generano il dolore; per contraccambio, gli agi e l’abbondanza fanno nascere la noia. Si è per questo che vediamo la classe inferiore del popolo lottare incessantemente contro il bisogno, dunque contro il dolore, ed al contrario, la classe ricca ed altolocata alle prese permanentemente, spesso disperatamente, contro la noia. Internamente, o soggettivamente, l’antagonismo si fonda sul fatto che in ogni individuo la facilità ad esser impressionato da uno di questi mali è in rapporto inverso colla facilità ad esser impressionato dall’altro; perocchè tale suscettibilità è determinata dalla misura delle forze intellettuali. Infatti una mente ottusa è sempre accompagnata da impressioni grossolane e da una certa mancanza d’irritabilità, ciò che rende l’individuo poco accessibile ai dolori ed ai dispiaceri d’ogni specie e d’ogni grado; ma questa stessa qualità ottusa dell’intelligenza produce d’altronde quel vuoto interno che è stampato su tanti visi e che si lascia scorgere per un’attenzione sempre svegliata su tutti gli avvenimenti, anche più insignificanti, del mondo esterno; questo vuoto è appunto la vera sorgente della noia, e chi ne soffre aspira con avidità ad eccitamenti esterni, allo scopo di mettere in movimento lo spirito ed il cuore non importa con qual mezzo. Così egli non è difficile nella scelta dei mezzi; lo si vede abbastanza alla miserabile meschinità di svaghi a cui si abbandonano gli uomini, al genere di società e di conversazioni che cercano, non meno che al numero immenso di fannulloni e di balordi che vanno pel mondo. È principalmente questo vuoto interno che li spinge alla ricerca d’ogni specie di riunioni, di divertimenti, di piaceri e di lusso, ricerca che conduce tanta gente alla dissipazione e finalmente alla miseria. Nessuna cosa mette in guardia contro tali traviamenti più sicuramente della ricchezza interna, la ricchezza dello spirito, perchè questo lascia tanto meno posto alla noia quanto più avvicina alla superiorità. L’attività incessante dei pensieri, il loro continuo avvicendarsi in presenza delle diverse manifestazioni del mondo interno ed esterno, la potenza e la capacità di combinazioni sempre variate mettono una testa eminente, salvo nei momenti di fatica, fuori affatto dall’attacco della noia. Ma d’altronde un’intelligenza superiore ha per condizione immediata una sensibilità più viva, e per radice un più grande impeto della volontà e per conseguenza della passione; dall’unione di queste due condizioni deriva una intensità più considerevole di ogni emozione ed una sensibilità esagerata per i dolori morali ed eziandio pei fisici, come pure una grande intolleranza di faccia al minimo ostacolo, od anche al minimo sconcerto. Ciò che contribuisce altresì potentemente a questi effetti si è la vivacità prodotta dalla forza dell’immaginazione. Quanto dicemmo si applica, mantenuta ogni proporzione, a tutti i gradi intermediarî che dividono il vasto intervallo compreso tra l’imbecillità la più ottusa ed il più gran genio. In conseguenza, oggettivamente come pure soggettivamente, ogni individuo si trova tanto più vicino ad una delle sorgenti delle umane sventure quanto più è lontano dall’altra. La sua inclinazione naturale lo porterà dunque, sotto questo rapporto, ad accomodare quanto meglio possibile l’oggettivo col soggettivo, vale a dire a premunirsi come meglio potrà contro quella sorgente di dolori che lo attacca più facilmente. L’uomo intelligente aspirerà prima d’ogni altra cosa a fuggire qualunque dolore, qualunque contesa, ed a trovare riposo ed agi; cercherà dunque una vita tranquilla, modesta, riparata per quanto è possibile contro gl’importuni; dopo aver mantenuto per qualche tempo relazioni con ciò che si chiama gli uomini, ei preferirà una esistenza ritirata, e, se sarà uno spirito assolutamente superiore, sceglierà la solitudine. Perocchè più un uomo possiede in sé stesso, meno ha bisogno del mondo esterno, e meno gli altri possono essergli utili. Così la superiorità dell’intelligenza conduce all’insociabilità. Ah! se la qualità della società potesse esser surrogata dalla quantità, varrebbe la pena di vivere pur anche nel gran mondo; ma, pur troppo, cento pazzi messi in mucchio non fanno un uomo ragionevole. L’individuo collocato all’estremo opposto, non appena il bisogno gli dà tempo di riprendere fiato, cercherà ad ogni prezzo passatempi e società; e s’accomoderà con tutto, non fuggendo che sè stesso. Si è nella solitudine, là dove ciascuno è ridotto alle sue sole risorse, che si scorge quanto si ha per sè stessi; là l’imbecille, sotto la porpora, sospira schiacciato dal peso della sua miserabile individualità, mentre l’uomo altamente dotato, popola ed anima co’ suoi pensieri la contrada la più deserta. Seneca (Ep. 9) disse con ragione: La stupidità dà fastidio a sè stessa, come pure Gesù figlio di Sirach; La vita dello stolto è peggior della morte. Così in conclusione si vede che ogni individuo è tanto più socievole quanto è più povero di spirito ed in generale più volgare. Perocchè nel mondo non si ha guari la scelta che tra l’isolamento e la società. Si pretende che i negri sieno di tutti gli uomini i più socievoli, come sono senza dubbio i più limitati nelle facoltà intellettuali; rapporti mandati dall’America del Nord, e pubblicati da giornali francesi (Le Commerce, 19 oct. 1837) raccontano che i negri, senza distinzione fra liberi e schiavi, si uniscono in gran numero nel locale più ristretto, perchè non saprebbero vedere mai abbastanza spesso ripetute le loro faccie nere e camuse. Nello stesso modo che il cervello ci sembra esser in certo qual modo il parassita od il dozzinante dell’intero organismo, così gli agi4 acquistati da chicchessia, dandogli il libero godimento della sua coscienza e della sua individualità, sono a questo titolo il frutto e la rendita di tutta la sua esistenza, la quale, per il resto, non è che pena e fatica. Ma vediamo un po’ cosa producono gli agi della maggior parte degli umani!: noia e sgarbatezza, ogni qual volta l’uomo non trova da occuparsi in piaceri sensuali od in balordaggini. Ciò che dimostra abbastanza che tali agi non hanno alcun valore si è il modo con cui sono impiegati; essi non sono letteralmente che Ozio lungo d’uomini ignoranti di cui parla l’Ariosto. L’uomo volgare non si preoccupa che di passare il tempo, l’uomo di talento che d’impiegarlo. La ragione per cui le teste povere sono tanto esposte alla noia, si è che il loro intelletto non è assolutamente altra cosa che l’intermediario dei motivi per la loro volontà. Se, in un dato momento, non vi sono motivi da cogliere, allora la volontà si riposa e l’intelletto resta inerte, perchè la prima, non meglio del secondo, non può entrare in attività di suo proprio impulso; il risultato è uno spaventevole stagnamento di tutte le forze nell’individuo intero — la noia. Per combatterla si suggerisce piano piano alla volontà dei motivi piccoli, provvisori, scelti indistintamente, allo scopo di stimolarla, e di metter con ciò in attività anche l’intelletto che deve coglierli: questi motivi sono dunque in rapporto ai motivi reali e naturali ciò che la carta-moneta è in rapporto al danaro, perchè il loro valore non è che convenzionale. Tali motivi sono i giuochi di carte ed altri, inventati precisamente allo scopo che abbiamo indicato. In loro mancanza l’uomo povero di sè si metterà a stamburare sui vetri, od a dar colpi con tutto quanto gli cade sotto mano. Anche il sigaro porge facilmente di che supplire ai pensieri. Si è per questo che in tutti i paesi i giuochi di carte sono arrivati ad essere l’occupazione principale d’ogni società; cosa che fornisce la misura di ciò che valgono queste riunioni e che costituisce la bancarotta dichiarata d’ogni pensiero. Non avendo idee da scambiare, si scambiano carte cercando di sottrarsi vicendevolmente alquanti fiorini. O razza miserabile! Tuttavia, per non esser ingiusto nemmeno qui, non voglio ommettere l’argomento che si può invocare in giustificazione del giuoco delle carte: si può dire che esso è una preparazione alla vita del mondo e degli affari, nel senso che vi si impara a profittare con saggezza da circostanze immutabili, essendo stabilite le carte dalla sorte, per trarne tutto il partito possibile; a tal fine si apprende a serbare un contegno corretto facendo buon viso a cattivo giuoco. Ma, d’altra parte, per questo stesso fatto, i giuochi di carte esercitano un’influenza demoralizzatrice. In fatti lo spirito del giuoco consiste nel sottrarre ad altri ciò che possiede, non importa con quale gherminella o con quale astuzia. Ma l’abitudine di procedere così, contratta al giuoco, prende radici, fa invasione nella vita privata, e il giocatore arriva quindi insensibilmente a proceder nella stessa guisa quando si tratta del tuo e del mio, ed a considerare come lecito ogni vantaggio che si ha in mano al momento, poichè lo si può fare legalmente. La vita ordinaria ne fornisce prove ogni giorno. Giacchè gli agi sono, come dicemmo, il fiore o piuttosto il frutto dell’esistenza di ciascuno, perciocchè solamente essi lo mettono al possesso del suo proprio io, noi dobbiamo stimare felici coloro che, guadagnando sè stessi, guadagnano cosa che ha prezzo, mentre gli agi non apportano alla maggior parte degli uomini che uno scioccone di cui non sanno che fare, uno scioccone che s’annoia a morte, e che è di peso a sè stesso. Congratuliamoci dunque o fratelli d’esser figli non di schiave, ma di madri libere (Paolo, Ep. ai Galati, 4, 31). Inoltre come è più felice quel paese che ha meno bisogno o non ha affatto bisogno d’importazione, così è felice l’uomo a cui basta la ricchezza interna, e che pei suoi divertimenti non domanda che poco, od anche nulla, al mondo esterno, attesochè una tale importazione è costosa, obbligante, pericolosa; essa espone a disgusti, e, in conclusione, è sempre un cattivo succedaneo alle produzioni del proprio suolo. Perocchè non dobbiamo, a nessun titolo, aspettarci gran cosa dagli altri, e in generale dal di fuori. Ciò che un individuo può essere per un altro è molto strettamente limitato; ciascuno finisce col restar solo, e chi è solo? diventa allora la grande questione. Goethe ha detto in proposito, parlando in modo generale, che in ogni cosa ciascuno, in conclusione, è ridotto a sè stesso (Poesia e verità, vol. III). Oliviero Goldsmith dice egualmente: Intanto da per tutto, ridotti a noi stessi, siamo noi che facciamo o troviamo la nostra propria felicità (Il Viaggiatore, v. 431 e seg.). Ognuno deve adunque essere e fornire a sè stesso ciò che v’ha di migliore e di più importante. Quanto più succederà così, tanto più per conseguenza l’individuo troverà in sé stesso le sorgenti dei suoi piaceri, e tanto più sarà felice. Si è quindi con ragione che Aristotele ha detto: La felicità appartiene a chi basta a sè stesso (Mor. ad Eudemo, VII, 2). Infatti tutte le sorgenti esterne della felicità e del piacere sono di lor natura eminentemente incerte, equivoche, fuggevoli, aleatorie, quindi soggette ad arrestarsi facilmente pur anche nelle circostanze più favorevoli, e questo è pure inevitabile, attesocchè noi non possiamo averle sempre alla mano. Anzi, con l’età, quasi tutte fatalmente si esauriscono; perché allora amore, voglia di divertirsi, passione pei viaggi e per cavalcare, attitudine a far figura nel mondo, tutto questo ci abbandona; la morte ci toglie perfino amici e parenti. A questo momento, più che mai, è importante sapere ciò che si ha da sè stessi. Non v’ha che questo, infatti, che resisterà più lungamente. Intanto in ogni età, senza differenza, ciò è e resta la sorgente vera, e sola permanente della felicità. Perocchè non vi è molto da guadagnare a questo mondo: la miseria ed il dolore lo empiono, e per quelli che hanno sfuggiti questi mali, la noia è là che li insidia da ogni banda. Inoltre d’ordinario è la perversità che regna, e la stoltezza che parla più forte. Il destino è crudele, e gli uomini sono miserabili. In un mondo siffatto colui che ha molto in sè stesso è simile ad una camera dell’albero di Natale, illuminata, calda, gaia, in mezzo alle nevi ed ai ghiacci d’una notte di dicembre. Per conseguenza, aver un’individualità ricca e superiore, e sopratutto molta intelligenza costituisce senza dubbio la sorte più felice sulla terra, per quanto ciò possa esser differente dalla sorte la più brillante. Sicchè quanta saggezza nell’opinione emessa su Descartes dalla regina Cristina di Svezia in età di appena diciannov’anni: Il signor Descartes è il più felice di tutti i mortali, e la sua condizione mi sembra degna d’invidia (Vie de Descartes par Baillet, l. VII, c. 10). Descartes a quell’epoca viveva da vent’anni in Olanda nella più profonda solitudine, e la regina lo conosceva solamente per quanto le era stato raccontato e per aver letto una delle sue opere. Bisogna solo, e ne era precisamente il caso in Descartes, che le circostanze esterne sieno abbastanza favorevoli per permettere di possedersi, e d’esser contenti di sè stessi; per questo l’Ecclesiaste diceva già: La saggezza è buona con un patrimonio e ci aiuta a rallegrarci alla vista del sole (7, 12). L’uomo cui, per un favore della natura o della fortuna, questa sorte è stata accordata, starà attento con cura gelosa perchè questa sorgente interna di felicità gli resti sempre accessibile; per ciò occorrono indipendenza ed agi. Li acquisterà dunque ben volentieri colla moderazione e col risparmio, e tanto più facilmente perchè egli non è ridotto, come gli altri uomini, alle sole sorgenti esterne dei piaceri. Ed è per questo che la prospettiva delle cariche, dell’oro, dei favori regali, e l’approvazione del mondo non lo indurranno a rinunziare a sè stesso per adattarsi alle vedute meschine od al cattivo gusto degli uomini. Al caso, ei farà come Orazio nella epistola a Mecenate (L. 1, ep. 7). È una gran pazzia perdere all’interno per guadagnare all’esterno, in altri termini abbandonare, in tutto o in parte, il proprio riposo, gli agi e l’indipendenza per il fasto, il grado, le pompe, i titoli, gli onori. Goethe però l’ha fatto. In quanto a me, il mio genio mi ha tratto energicamente nella via opposta. La verità, qui esaminata, che la sorgente principale della felicità vien dall’interno, si trova confermata da una giusta osservazione di Aristotele nella Morale a Nicomaco (I, 7; e VII, 13, 14); egli dice che ogni piacere suppone un’attività, quindi l’impiego di una forza, e che non può esistere senza di questa. Tale dottrina aristotelica di far consistere la felicità dell’uomo nel libero esercizio delle sue facoltà saglienti è riprodotta egualmente da Stobeo nell’Esposizione della morale peripatetica (Eclogoe ethicoe, II, c. 7); eccone un passo: La felicità consiste nell’esercitare le proprie facoltà (αρετην) in lavori capaci di risultato; egli spiega pure che αρετη indica ogni facoltà non comune. Ora la destinazione primitiva delle forze di cui la natura ha dotato l’uomo, è la lotta contro la necessità che l’opprime da per tutto. Quando la lotta lascia un momento di tregua, le forze senza impiego divengono un peso per lui; ei deve allora giuocare con esse, cioè impiegarle senza uno scopo, altrimenti si espone all’altra sorgente dell’umana infelicità, alla noia. Sicchè è la noia che tortura i grandi ed i ricchi più che gli altri, e Lucrezio ha fatto della loro miseria un quadro, di cui si ha ogni giorno nelle grandi città l’occasione di riconoscere la meravigliosa verità: Questi sorte spesso dal ricco palazzo, ove si annoia, ma vi fa ritorno un momento dopo non trovandosi più felice altrove; un altro corre a briglia sciolta in villa, quasicchè dovesse portare aiuto a spegnerne l’incendio; appena toccata la soglia è colpito dalla noia, e si abbandona gravemente al sonno e cerca di dimenticar sè stesso, oppure d’improvviso desidera di nuovo la città e vi ritorna (L. III, v. 1073 e seg.). Presso questi signori, finchè sono giovani, devono far le spese le forze muscolari e genitali. Ma più tardi non restano più che le forze intellettuali; in loro mancanza, od in difetto di sviluppo o di materiali per servire alla loro attività, la miseria è grande. La volontà essendo la sola forza inesauribile, si cerca allora di stimolarla coll’eccitare le passioni; si ricorre, per esempio, ai giuochi d’azzardo in grande, a questo vizio in vero degradante. Del resto ogni individuo sfaccendato sceglierà, secondo la natura delle forze in lui predominanti, un divertimento che le impieghi, come il giuoco delle palle o degli scacchi, la caccia o la pittura, le corse di cavalli o la musica, i giuochi di carte o la poesia, l’araldica o la filosofia, ecc. Possiamo anche trattare questa materia con metodo, riportandoci alla radice delle tre forze fisiologiche fondamentali: abbiamo dunque da studiarle qui nel loro esercitarsi senza scopo; esse ci si presentano allora come sorgenti di tre specie di piaceri possibili, fra le quali ciascuno sceglierà quelle che gli sono proporzionate secondo che l’una o l’altra di queste forze predominano in lui. Così troviamo anzi tutto le gioie della forza riproduttiva: esse consistono nel mangiare, nel bere, nella digestione, nel riposo e nel sonno. Vi sono intere popolazioni a cui si attribuisce di fare gloriosamente di tali gioie uno spasso nazionale. In secondo luogo i piaceri dell’irritabilità; essi sono i viaggi, la lotta, il salto, la danza, la scherma, il cavalcare ed i giuochi atletici d’ogni specie, come pure la caccia, e veramente anche i combattimenti e la guerra. In terzo luogo i piaceri della sensibilità, quali contemplare, pensare, sentire, creare nella poesia o nell’arte plastica, far musica, studiare, leggere, meditare, inventare, filosofare, ecc. Vi sarebbero da fare molte osservazioni sul valore, sull’altezza e sulla durata di queste differenti specie di piaceri; noi ne lasciamo la cura al lettore. Ma ciascuno comprenderà che il piacere nostro, motivato costantemente dall’impiego delle nostre proprie forze, come pure la nostra felicità, risultato del frequente rinnovarsi di questo piacere, saranno tanto più grandi quanto più la forza produttrice sarà di nobile specie. Nessuno potrà inoltre negare che il primo posto, sotto questo rapporto, tocchi alla sensibilità il cui predominio deciso stabilisce la distinzione tra l’uomo e le altre specie animali; le due altre forze fisiologiche fondamentali, che esistono presso l’animale nello stesso grado, od in un grado anche più alto che presso l’uomo, non vengono che in seconda linea. Alla sensibilità appartengono le nostre forze intellettuali; ed è per ciò che il suo predominio ci rende atti a gustare i piaceri che hanno sede nell’intelletto, i piaceri dello spirito; piaceri che sono tanto più grandi quanto il predominio della sensibilità è più accentuato. L’uomo normale, l’uomo ordinario non può prendere vivo interesse ad una cosa se questa non eccita la sua volontà, se non gli presenta un interesse personale. Ora ogni eccitamento persistente della volontà è, per lo meno, di natura mista, quindi combinato col dolore. I giuochi di carte, occupazione abituale della buona società di ogni paese, sono un mezzo per eccitare intenzionalmente la volontà, e ciò mediante interessi tanto minimi che non possono che occasionare dolori momentanei e leggeri, non già dolori permanenti e serî: cosicchè si può considerarli come un semplice solletico della volontà. L’uomo dotato di forze intellettuali predominanti, invece è capace d’interessarsi vivamente alle cose per via dell’intelligenza pura, senza immistione alcuna del volere; ne prova anzi il bisogno. Tale interesse lo trasporta allora in una regione in cui il dolore è essenzialmente straniero, nell’atmosfera per così dire, degli dei dalla vita facile, Θεῶν ρεία ζωόντων. Mentre l’esistenza del resto degli uomini passa così nel torpore, e che i sogni e le aspirazioni di essi sono dirette verso i meschini interessi del benessere personale colle loro miserie d’ogni sorte; mentre una noia insopportabile li coglie appena non sono più occupati a coltivare tali progetti, e che restano ridotti a sè stessi; mentre l’ardore selvaggio della passione può solo scuotere questa massa inerte, l’uomo dotato di facoltà intellettuali preponderanti possiede un’esistenza ricca di pensieri, sempre animata, e sempre importante; oggetti degni ed interessanti lo occupano non appena ha l’agio di darsi a loro, ed ei porta con sè una sorgente di gioie le più nobili. L’impulso esterno gli è fornito dalle opere della natura e dall’aspetto dell’attività umana, ed inoltre dalle produzioni così svariate delle menti più elevate di tutti i tempi e paesi, produzioni che egli solo può realmente gustare per intero, perchè egli solo è capace di comprenderli e di sentirli interamente. Si è dunque per lui, in realtà, che costoro hanno vissuto; si è dunque a lui, in fatto, che essi hanno indirizzato le loro parole, mentre gli altri, come uditori d’occasione, non comprendono che qualche poco qua e là, e solamente a mezzo, È certo che appunto per questo l’uomo superiore acquista un bisogno di più che gli altri uomini, il bisogno d’imparare, di vedere, di studiare, di meditare, di applicarsi; il bisogno quindi di aver tempo disponibile. Ora, come Voltaire ha giustamente osservato, non essendovi veri piaceri se non in seguito a veri bisogni, questo bisogno dell’uomo intelligente è precisamente la condizione che mette alla sua portata piaceri il cui accesso resta interdetto per sempre agli altri; per costoro le bellezze della natura e dell’arte, le opere dell’intelletto d’ogni specie, anche quando se ne circondano, non sono in fondo se non ciò che le cortigiane sono per un vecchio. Un ente così privilegiato, a lato della sua vita personale, vive d’una seconda esistenza, d’una esistenza intellettuale che arriva grado a grado ad essere il suo vero scopo, l’altra non essendo più considerata che come mezzo; per il resto degli uomini si è la loro stessa esistenza, insipida, vuota e desolata che deve loro servire di scopo. La vita intellettuale sarà l’occupazione principale dell’uomo superiore; aumentando senza mai cessare il suo tesoro di senno e di scienza, essa così acquista costantemente una connessione ed una gradazione, una unità ed una perfezione sempre più spiccate, come un’opera d’arte in via di formazione. In cambio che penoso contrasto fa con questa la vita degli altri, puramente pratica, diretta solo al benessere personale, vita che non ha aumento possibile se non in lunghezza senza poter guadagnare in profondità, e destinata nondimeno a servir loro di scopo per sè stessa, mentre per l’altro essa è un semplice mezzo! La nostra vita pratica, reale, dal momento che le passioni non la tengono in agitazione, è noiosa e scipita; quando esse la turbano diventa ben presto dolorosa; si è per questo che sono felici solamente coloro cui è toccato in sorte una somma d’intelletto eccedente quella misura che il servizio della loro volontà reclama. Così a lato della vita effettiva essi possono vivere d’una vita intellettuale che li occupa e li ricrea senza dolore, e tuttavia con vivacità. Il semplice agio, vale a dire un intelletto non occupato al servizio della volontà, non basta, abbisogna per ciò un eccedente positivo di forza che solo ci rende atti ad un’occupazione puramente spirituale e non legata al servizio della volontà. Per lo contrario l’ozio senza lo studio è morte e sepolcro dell’uomo vivo (Seneca, Ep. 82). Nella misura di questo eccedente, la vita intellettuale esistente a lato della vita reale presenterà gradazioni innumerevoli, dai lavori del raccoglitore che descrive insetti, uccelli, minerali, monete, ecc., fino alle più alte produzioni della poesia e della filosofia. Una tal vita intellettuale protegge non soltanto contro la noia, ma anche contro le sue perniciose conseguenze. Essa infatti ripara dalla cattiva compagnia e dai molti pericoli, disgrazie, perdite, e dissipazioni a cui si espone chi cerca interamente la sua felicità nella vita reale. Volendo parlare di me, per esempio, dirò che la mia filosofia non m’ha fruttato, ma mi ha risparmiato molto. L’uomo normale invece o limitato, nei piaceri della vita, alle cose esterne, quali le ricchezze, il grado, la famiglia, gli amici, la società, ecc.; su esse egli stabilisce la felicità della sua vita, cosicchè tale felicità crolla, quando le perde, o quando incontra qualche disinganno. Per disegnare questo stato dell’individuo possiamo dire che il suo centro di gravità cade fuori di lui. Si è per ciò che le sue voglie ed i suoi capricci sono sempre variabili: quando i suoi mezzi glielo permettono ei comprerà talora una villa, talora dei cavalli, oppure darà feste, poi intraprenderà dei viaggi, ma sopra tutto condurrà una vita fastosa, e tutto ciò precisamente perchè cerca, non importa dove, una soddisfazione che venga dal di fuori; così un uomo consumato spera trovare nel brodetto e nelle droghe di farmacia la salute ed il vigore la cui vera fonte è la forza vitale propria. Per non passare immediatamente all’estremo opposto, prendiamo ora un uomo dotato di una potenza intellettuale che senza esser eminente, oltrepassi tuttavia la misura ordinaria e strettamente sufficiente. Vedremo quest’uomo, quando le sorgenti esterne dei piaceri venissero a mancare o più non lo soddisfacessero, coltivare da dilettante qualche ramo delle belle arti, oppure qualche scienza, come la botanica, la mineralogia, la fisica, l’astronomia, la storia, ecc., e trovarvi un gran fondo di piacere e di ricreazione. A questo titolo possiamo dire che il suo centro di gravità cade già in parte dentro di lui. Ma il semplice dilettantismo nell’arte è ancora ben lontano dalla facoltà creatrice; d’altra parte le scienze non oltrepassano i rapporti dei fenomeni tra loro, esse non possono assorbire l’uomo tutto intero, colmare tutto il suo essere, nè per conseguenza intrecciarsi così strettamente nel tessuto della sua esistenza da renderlo incapace di prender interesse a tutto il resto. Ciò resta riservato esclusivamente alla suprema altezza intellettuale, a quell’altezza che si chiama comunemente genio; essa sola può prender per tema, interamente ed assolutamente, l’esistenza e l’essenza delle cose; dopo di che tende, secondo la sua direzione individuale, ad esprimere i suoi profondi concetti coll’arte, colla poesia o colla filosofia. Non è che per un uomo di tal tempra che l’occupazione permanente con sè stesso, coi suoi pensieri e colle sue opere riesce un bisogno irresistibile; per lui la solitudine è la ben venuta, gli agi sono il bene supremo; in quanto al resto egli può farne senza, e quando lo possiede esso gli diventa ben di frequente un peso. Di quest’uomo possiamo dire che il suo centro di gravità cade tutto intero dentro di lui. Questo ci spiega nello stesso tempo come succede che tali uomini d’una specie così rara non portano ai loro amici, alla loro famiglia, al bene pubblico, l’interesse intimo ed illimitato di cui molti fra gli altri sono capaci, perocchè alla fin fine essi possono farne a meno possedendo sè stessi. Esiste adunque di più in essi un elemento isolante, la cui azione è tanto più energica in quanto che gli altri uomini non possono soddisfarli pienamente; così essi non saprebbero vedere affatto negli altri degli eguali, ed anzi, sentendo continuamente la dissomiglianza della loro natura in tutto e da per tutto, si abituano adagio adagio ad essere fra gli umani come individui di una specie differente, ed a servirsi, quando le loro riflessioni si portano su di essi, della terza persona plurale in luogo della prima. Considerato sotto un tal punto di vista l’uomo il più felice sarà dunque colui che la natura ha riccamente dotato dal lato intellettuale, tanto ciò che è in noi ha più importanza di ciò che è al di fuori; questo, vale a dire l’oggettivo, in qualunque modo agisca, non agisce mai se non per l’intermediario dell’altro, vale a dire del soggettivo; l’azione dell’oggettivo è quindi secondaria. È quanto espresse in bei versi Luciano: La ricchezza dell’anima è la sola vera ricchezza; tutti gli altri beni sono fecondi di dolori (Ant. I, 67). Un uomo ricco siffattamente all’interno non domanda al mondo esteriore che un dono negativo, cioè gli agi per poter perfezionare e sviluppare le facoltà del suo spirito, e per poter godere delle sue ricchezze interne; ei reclama dunque unicamente la libertà di potere, per tutta la sua vita esser sè stesso ogni giorno, ed ogni ora. Per l’uomo destinato ad imprimere la traccia del suo spirito sull’umanità intera, non esistono che una sola felicità ed una sola infelicità, e sono di poter perfezionare il suo ingegno e completar le sue opere, oppure esserne impedito. Tutto il resto per lui non ha importanza. Ed è per questo che vediamo le grandi menti d’ogni epoca attribuire il prezzo più alto agli agi, perocchè tanto vale l’uomo, tanto valgono i suoi agi. Credo invero che la felicità stia negli agi (ozii), dice Aristotele (Mor. a Nic. X, 7). Anche Diogene Laerzio riporta che Socrate vantava gli agi come la più bella ricchezza (II, 5, 31). Si è sempre ciò che intende Aristotele (Mor. a Nic. X, 7, 8, 9), quando dichiara che la più bella vita è quella del filosofo. Egli dice egualmente nella Politica (IV, 11): Esercitare liberamente il proprio genio, ecco la vera felicità. E Goethe nel Wilhelm Meister; Chi è nato con un genio, per un genio, trova in esso la sua più bella esistenza. Ma posseder agi non è solo fuori della sorte ordinaria, ma anche fuori della natura ordinaria dell’uomo, perocchè sua destinazione naturale si è d’impiegare il suo tempo ad acquistare il necessario per la esistenza sua e per quella della famiglia. Egli è figlio della miseria, non un’intelligenza libera. Così gli ozi riescono ben presto ad essere di peso, poi si fanno tortura per l’uomo ordinario dal momento che egli non può occuparli con mezzi artificiali e fittizi d’ogni specie, coi giuochi, con passatempi, e con bagattelle d’ogni forma. Anzi per questo gli ozi gli procurano anche dei danni, perocchè si è detto con ragione: «difficilis in otio quies» è difficile esser tranquilli nell’ozio. D’altra parte però una intelligenza che oltrepassi di molto la misura normale è parimenti un fenomeno straordinario, quindi contro natura. Tuttavia, quando essa è data, l’uomo che ne è fornito, per trovare la felicità, ha precisamente bisogno di quegli agi che per gli altri sono qualche volta importuni e qualche volta funesti; in quanto a lui, senza agi sarà un Pegaso sotto il giogo; in una parola sarà infelice. Nondimeno se queste due anomalie, l’una esterna e l’altra interna, si trovano riunite, la loro unione produce un caso di suprema felicità, perocchè l’uomo così favorito condurrà allora una vita d’un ordine superiore, la vita d’un essere sottratto alle due sorgenti opposte dei dolori umani; il bisogno e la noia; che egli è del pari sollevato e dalla cura penosa di affaccendarsi per provvedere alla sua esistenza e dall’incapacità di sopportare gli ozi (vale a dire l’esistenza libera propriamente detta); altrimenti un uomo non può scappare da questi due mali se non se per il fatto che essi si neutralizzino e si annullino reciprocamente. Di fronte a tutto ciò che precede, bisogna considerare d’altra parte che, in seguito ad un’attività preponderante dei nervi, le grandi facoltà intellettuali producono un aumento eccessivo dell’attitudine a sentire il dolore sotto tutte le forme; che inoltre il temperamento passionato che ne è la condizione, come pure la vivacità e la perfezione più grande di ogni percezione, che ne sono inseparabili, danno alle emozioni così prodotte una violenza senza confronto più forte; ora si sa che le emozioni dolorose sono molto più frequenti che le piacevoli; finalmente bisogna anche ricordare che le alte facoltà intellettuali fanno di chi le possiede un uomo straniero agli altri uomini ed alle loro agitazioni, visto che più questi possede in sè stesso, meno può trovare in altrui. Mille oggetti per i quali costoro prendono un piacere infinito, a lui sembrano insipidi e ripugnanti. Forse in tal maniera la legge di compensazione che regna dovunque, domina egualmente qui pure. Non si è forse preteso bene spesso e non senza qualche apparenza di ragione, che in fondo l’uomo più povero di spirito è il più felice? Comunque si sia, nessuno gl’invidierà questa felicità. Io non voglio antecipare sul lettore per la soluzione definitiva di tale questione, tanto più perchè Sofocle stesso ha espresso su ciò giudizi diametralmente opposti: Il sapere è di molto la porzione più considerevole della felicità (Antigone). Un’altra volta disse: La vita del saggio non è la più piacevole (Ajace). I filosofi dell’Antico Testamento non vanno meglio d’accordo tra loro; Gesù, figlio di Sirac, ha detto: La vita dello stolto è peggior della morte (22, 12); l’Ecclesiaste invece (1, 18): Dove molta sapienza, ivi molto dolore. Frattanto ci tengo a ricordar qui che ciò che si disegna più particolarmente con una parola propria esclusivamente della lingua tedesca, Philister (borghese, droghiere, filisteo), si è precisamente l’uomo che, in seguito alla misura limitata e strettamente sufficente delle sue forze intellettuali, non ha bisogni spirituali; tale espressione appartiene alla vita da studenti, ed è stata messa in uso più tardi in un rispetto più elevato, ma analogo ancora al suo senso primitivo, per qualificare colui che è l’opposto d’un figlio delle Muse, vale a dire un uomo affatto prosaico. Costui infatti è e resta l’αμουσος ανηρ (l’uomo non iniziato alle Muse). Ponendomi ad un punto di vista più alto ancora vorrei definire i filistei dicendo che sono gente costantemente occupata, e ciò colla più gran serietà del mondo, d’una realtà che non è realtà. Ma questa definizione, già d’una natura trascendentale, non sarebbe in armonia col punto di vista popolare a cui mi son messo in questa dissertazione; potrebbe quindi non esser compresa da tutti i lettori. La prima invece ammette più facilmente un commento specifico, e disegna abbastanza l’essenza e la radice delle proprietà caratteristiche tutte del filisteo. Costui è dunque, come dicemmo, un uomo senza bisogni spirituali. Da ciò derivano molte conseguenze: la prima, in rapporto a lui stesso, si è che non avrà mai gioje spirituali, secondo la massima già citata che non vi sono veri piaceri se non con veri bisogni. Nessuna aspirazione ad acquistar conoscenze e giudizi nuovi per le cose in sè stesse anima la sua esistenza: e nessuna aspirazione ai piaceri estetici, perocchè queste due aspirazioni sono strettamente legate assieme. Quando la moda o qualche altro stimolo gl’impone tali piaceri ei se ne sbriga nel modo più breve possibile, come un galeotto si sbriga del suo lavoro forzato. Soli piaceri per lui sono i sensuali, su di essi egli prende il suo compenso. Mangiar ostriche, bever vino di Champagne, ecco per lui l’apice dell’esistenza; procurarsi tutto quanto contribuisce al benessere materiale, ecco lo scopo della sua vita. Troppo felice quando tale scopo lo occupa abbastanza! Perocchè se questi beni gli sono stati già concessi antecipatamente, ei diventa preda della noia; per cacciarla prova tutto ciò che si può immaginare; balli, teatri, società, giuochi di carte, giuochi d’azzardo, cavalli, donne, ebbrezza, viaggi, ecc. E nullameno tutto questo non basta quando l’assenza di bisogni intellettuali rende impossibili i piaceri dello spirito. Così una serietà fosca e secca, molto simile a quella dell’animale, è propria del filisteo e lo caratterizza. Niente lo diverte, niente lo scuote, niente risveglia il suo interesse. I piaceri materiali sono presto esauriti; la società, composta di filistei suoi pari, gli viene ben tosto a noia; il giuoco delle carte finisce collo stancarlo. Gli restano rigorosamente parlando le soddisfazioni della vanità alla sua maniera: esse consisteranno a sorpassare gli altri nelle ricchezze, nel grado, nell’influenza o nel potere, ciò che allora gli vale la loro stima; oppure anche ei cercherà di potersi almeno fregare intorno a coloro che brillano per tali vantaggi, e di riscaldarsi ai riflessi del loro splendore (in inglese questo si chiama snob). La seconda conseguenza che risulterebbe dalla proprietà fondamentale che abbiamo riscontrata nel filisteo, si è che in rapporto agli altri, siccome è privo di bisogni intellettuali, e limitato ai soli materiali, cercherà gli uomini che potranno soddisfare questi ultimi, e non coloro che potrebbero provvedere ai primi. Sicchè non sono certamente le alte qualità intellettuali che chiede loro; che anzi quando le incontra eccitano la sua antipatia, e fors’anche il suo odio, perocchè ei non prova in loro presenza se non un sentimento importuno d’inferiorità ed un’invidia sorda, secreta, che nasconde colla più gran cura, che cerca di dissimulare a sè stesso, ma che giusto per questo cresce talora fino ad una rabbia muta. Non è mica sulle facoltà dello spirito che costui penserà mai a misurare la sua stima o la sua considerazione; ei le riserverà esclusivamente al grado ed alla ricchezza, al potere ed all’influenza, cose che passano a’ suoi occhi come le sole qualità vere, le sole in cui può aspirare di eccellere. E tutto ciò perchè il filisteo è un uomo privo di bisogni intellettuali. Il suo estremo soffrire deriva dal fatto che le idealità non gli portano alcun divertimento, e che, per sfuggire la noia, ei deve sempre ricorrere alle realtà. Ora queste da una parte sono ben presto esaurite, ed allora in luogo di far piacere, stancano; e dall’altra portano con sé sciagure d’ogni fatta, mentre le idealità sono inesauribili e per sè stesse innocue. In tutta questa dissertazione sulle condizioni personali che contribuiscono alla nostra felicità, ebbi in vista le qualità fisiche, e principalmente le qualità intellettuali. Si è nella mia memoria sul Fondamento della morale (§ 22) che ho esposto come la perfezione morale, a sua volta, influisca direttamente sulla felicità: a quest’opera invito il lettore.

CAPITOLO III.
Di ciò che si ha.

Epicuro, il grande maestro di felicità, ha mirabilmente e giudiziosamente diviso i bisogni umani in tre classi. Primo, i bisogni naturali e necessari: quelli che non soddisfatti producono dolore; essi dunque non comprendono che il victus e l’amictus (cibo e vesti). Sono facili da soddisfare. — Secondo, i bisogni naturali, ma non necessari: cioè il bisogno di soddisfazione sessuale, quantunque Epicuro non lo dica nell’opera di Diogene Laerzio (del resto riproduco qui, in generale, tutta questa dottrina leggermente modificata e corretta). Tale bisogno è già più difficile da soddisfare. — Terzo, quelli che non sono né naturali, nè necessarî: e sarebbero i bisogni del lusso, dell’abbondanza, del fasto e della splendidezza; il loro numero è infinito, e la loro soddisfazione molto difficile (Vedi Diogene Laerzio L. X, c. 27, § 149 e 127; — Cicerone, De fin. I, 13). Il limite dei nostri desiderî ragionevoli riferendosi ai beni di fortuna, è difficile, se non impossibile, determinarlo. Perocchè la soddisfazione di ciascuno a tale riguardo si fonda non sopra una quantità assoluta, ma sopra una quantità relativa, vale a dire sul rapporto tra le sue brame e le sue ricchezze; così queste ultime, considerate in sè stesse, sono tanto prive di significato quanto il numeratore di una frazione senza denominatore. La mancanza di beni a cui un uomo non ha mai sognato d’aspirare, non può affatto privarlo di qualche cosa; ei sarà perfettamente pago senza di essi, mentre un altro che possede cento volte di più si sentirà infelice perchè gli manca il solo oggetto che brama. Ciascuno ha pure, riguardo i beni a cui gli è permesso aspirare, un orizzonte tutto proprio, e le sue pretese non vanno oltre i limiti di quest’orizzonte. Quando un oggetto, collocato entro questi limiti, gli si presenta in modo ch’ei possa esser certo di raggiungerlo, si troverà felice; al contrario si sentirà infelice se, sopravvenendo ostacoli, tale prospettiva gli è tolta. Ciò che è posto al di là non ha alcuna azione su di lui. Si è per questo che la immensa fortuna del ricco non dà molestia al povero, e per questo pure, d’altra parte, che tutte le ricchezze già possedute non consolano il ricco quando è deluso in un’aspirazione. (La ricchezza è come l’acqua salata: più se ne beve, più cresce la sete; lo stesso succede della gloria). Il fatto che dopo la perdita della ricchezza o dell’agiatezza, appena vinto il primo dolore, il nostro umore abituale non sarà molto diverso da quello che era per lo avanti, si spiega riflettendo che, il fattore del nostro avere essendo stato diminuito dalla sorte, riduciamo subito, da noi stessi, considerevolmente il fattore delle nostre pretese. Ecco dove sta quanto havvi di veramente doloroso in una disgrazia; una volta compiuta questa operazione, il dolore si fa sempre meno sensibile, e finisce collo sparire; la piaga si cicatrizza. Nell’ordine inverso, in presenza d’un avvenimento felice, il peso che comprime le nostre pretese s’innalza e permette loro di dilatarsi: in ciò consiste il piacere. Ma questo pure non dura che il tempo necessario perchè l’operazione si compia; noi ci avvezziamo poi alla scala così aumentata delle pretese, e diveniamo indifferenti al possesso corrispondente della ricchezza. È quanto esprime un passo di Omero (Odissea, XVIII, 130-137) di cui presentiamo gli ultimi versi: Tale invero è lo spirito degli uomini terrestri, simile ai giorni mutevoli che adduce il padre degli uomini e degli dei. La fonte dei nostri dispiaceri sta negli sforzi da noi sempre rinnovati per elevare il fattore delle aspirazioni, mentre l’altro fattore colla sua immobilità vi si oppone. Non bisogna stupirsi di vedere, nella specie umana, povera e piena di bisogni, la ricchezza più altamente e più sinceramente apprezzata, fors’anco più venerata, di qualunque altra cosa; il potere stesso non è tenuto in conto se non perchè conduce alla fortuna; e neppure bisogna maravigliarsi nel vedere gli uomini metter da parte, o passar sopra a qualunque considerazione quando si tratta d’acquistar ricchezze, nel veder per esempio i professori di filosofia far buon mercato della loro scienza per guadagnar danaro. Si fa spesso rimprovero agli uomini di volgere i loro voti specialmente al danaro e di amarlo più d’ogni altra cosa al mondo. Pure è ben naturale, quasi inevitabile, di amare ciò che, simile ad un Proteo instancabile, è pronto ad assumere in ogni momento la forma dell’oggetto attuale delle nostre voglie sì mobili, o dei nostri bisogni sì diversi. Ogni altro bene, infatti, non può soddisfare che un solo desiderio, che un solo bisogno: le vivande hanno valore solamente per chi ha fame, il vino per chi sta bene, i medicamenti per chi è malato, una pelliccia durante l’inverno, le donne per la gioventù, ecc. Tutte queste cose non sono dunque che αγαθα προς τι, vale a dire relativamente buone. Il solo danaro è il bene assoluto, perchè esso non provvede unicamente ad un solo bisogno «in concreto,» ma al bisogno in generale «in abstracto.» I beni di fortuna di cui si può disporre devono dunque esser considerati come un riparo contro il gran numero di mali e di disgrazie possibili, e non come un permesso, e meno ancora come un obbligo di aversi da procurare i piaceri del mondo. Le persone che, senza aver un patrimonio, giungono col loro ingegno, qualunque esso sia, al punto di guadagnare molto danaro, cadono quasi sempre nell’illusione di credere che il loro ingegno sia un capitale stabile, e che il danaro che frutta loro l’ingegno sia per conseguenza l’interesse del detto capitale. Così non mettono da canto alcun poco di ciò che guadagnano per farsene una rendita certa, ma spendono nella stessa misura che prendono. Ne segue che d’ordinario essi cadono in miseria quando i loro guadagni ristanno o cessano completamente; infatti il loro talento stesso, passaggero di sua natura, come lo è per esempio il genio per quasi tutte le belle arti, si esaurisce, oppure le circostanze speciali o le occasioni che lo rendevano produttivo spariscono. Gli artigiani possono a tutto rigore menar una tal vita, perchè la capacità richiesta per il loro mestiere non si perde facilmente, o può esser surrogata dal lavoro dei loro operai; inoltre i loro prodotti sono oggetti di necessità il cui smercio è sempre assicurato; un proverbio tedesco dice con ragione: «Ein Handwerk hat einen goldenen Boden» vale a dire un buon mestiere vale molto oro. Così non avviene degli artisti e dei virtuosi d’ogni specie. Ed è giusto per questo che sieno pagati a prezzi così alti; ma anche per la stessa ragione dovrebbero essi capitalizzare il danaro che guadagnano; nella loro presunzione lo considerano invece come se non fosse che l’interesse e vanno incontro così alla loro rovina. In cambio la gente che possiede un patrimonio sa molto bene fin da principio distinguere tra capitale ed interessi. Sicchè la maggior parte cercherà d’investire il suo capitale nel modo più sicuro, nè lo rosicchierà in alcun caso, anzi riserverà, possibilmente, sugl’interessi l’ottava parte almeno per prevenire ad una crisi eventuale. Costoro si mantengono così soventi volte nell’agiatezza. Niente di quanto diciamo si applica ai commercianti; per essi il danaro è per sè stesso l’istromento del guadagno, l’utensile di professione per così dire: d’onde segue che anche quando lo hanno acquistato col loro lavoro, cercheranno nel suo impiego i mezzi di conservarlo e di aumentarlo. Così la ricchezza è abituale in questa classe più che in qualunque altra. In generale, si troverà che ordinariamente quelli che hanno già lottato colla vera miseria e col bisogno, li temono incomparabilmente meno, e sono più portati alla dissipazione di coloro che non conoscono questi mali se non per averne sentito parlare. Alla prima categoria appartengono tutti coloro che; non importa per qual colpo della sorte, o per qualunque talento speciale, sono passati rapidamente dalla povertà all’agiatezza; alla seconda quelli che, nati con beni di fortuna, li hanno conservati. Costoro stanno in apprensione per l’avvenire più dei primi e sono più economi. Se ne potrebbe dedurre che il bisogno non è cosa tanto brutta come sembrerebbe visto da lontano. Però la ragione vera dev’essere piuttosto la seguente: all’uomo nato con un patrimonio, la ricchezza appare come qualche cosa d’indispensabile, come l’elemento della sola esistenza possibile, allo stesso titolo dell’aria; così ei ne avrà cura come della sua vita istessa, e sarà, in generale, ordinato, previdente ed economo. Al contrario a colui che fin dalla nascita visse in povertà, si è questa che sembrerà la condizione naturale; le ricchezze che gli potranno toccare più tardi, non importa come, gli pareranno un superfluo, buono solo per goderne e farne baldoria; egli dirà a sè stesso che quando saranno nuovamente sparite, saprà cavarsela senza di esse come per lo avanti, e che, per per di più, sarà sollevato da un fastidio. È proprio il caso di dire con Shakespeare: Bisogna che il proverbio si verifichi: il mendicante a cavallo fa galoppare la bestia fino alla morte (Enrico VI, P. 3, A. 1). Aggiungiamo ancora che questa gente possede, non tanto nella testa quanto nel cuore, una ferma ed eccessiva confidenza da una parte nella sua buona fortuna e dall’altra nelle sue proprie risorse, che le hanno di già dato aiuto per cavarsi dalle strettezze e dall’indigenza; questa gente non considera la miseria, come fanno i ricchi di nascita, quale un abisso senza fine, ma la crede un basso-fondo che basta battere col piede per rimontarne alla superficie. Con questa stessa particolarità umana si può spiegare perchè le donne, povere prima del loro matrimonio, sieno molto spesso più esigenti e più prodighe di quelle che hanno portato con sè una grossa dote; infatti, quasi sempre, le ragazze ricche non possedono solamente beni di fortuna, ma anche uno zelo, o, per così dire, un certo istinto ereditario di conservarli che fa difetto alle povere. Tuttavia coloro che volessero sostenere la tesi opposta troveranno autorità nella satira prima dell’Ariosto; in cambio il dottor Johnson si mette dalla parte mia: «Una donna ricca, essendo abituata a maneggiar monete, le spende con giudizio; ma quella che per il suo matrimonio si trova per la prima volta in possesso della ricchezza, trova tanto gusto nello spendere che getta il danaro con grande profusione.» (Vedi Boswell, life of Johnson, vol. III, pag. 199, ediz. del 1821). Io consiglierei per ogni evento, a chi sposa una ragazza povera, di affidarle non già un capitale, ma una semplice rendita, e sopratutto di vegliare perchè il patrimonio dei figli non cada nelle sue mani. Non credo proprio far cosa indegna della mia penna raccomandando qui la cura di conservar la propria fortuna, guadagnata od avuta in eredità; perocchè è un vantaggio inapprezzabile il possedere tutta fatta una sostanza quand’anche essa non bastasse a lasciarci vivere agiatamente solo e senza famiglia, in una vera indipendenza, vale a dire senza aver bisogno di lavorare; ecco ciò che costituisce il privilegio che affranca dalle miserie e dai tormenti propri della vita umana; ecco l’emancipazione della servitù generale che è il destino dei figli della terra. Non è che con questo favore della sorte che siamo veramente uomini nati liberi; a questa sola condizione si è realmente sui juris, padroni del proprio tempo e delle proprie forze, e si potrà dire ogni mattina: La giornata m’appartiene. Sicchè tra chi ha una rendita di mille scudi e chi ne ha una di centomila la differenza è infinitamente più piccola che tra il primo e chi non ha nulla. Ma la fortuna patrimoniale arriva al suo più alto valore quando tocca a colui che, dotato di forze intellettuali superiori, intende ad uno scopo la cui realizzazione non mira ad un lavoro per vivere; messo in tali condizioni quest’uomo è doppiamente dotato dalla sorte; ei può ora vivere a suo genio, e pagherà al centuplo il suo debito all’umanità producendo ciò che nessun altro potrebbe produrre, e creando cose che formeranno il bene e nello stesso tempo l’onore della comunità umana. Un altro, posto in una situazione altrettanto favorevole, sarà benemerito dell’umanità per le sue opere filantropiche. Quanto a chi possedendo un patrimonio, non produce alcunchè di simile, in qualunque misura si sia, fosse pure a titolo di saggio, o che con studi seri non si crea almeno la possibilità di far progredire una scienza, costui non è che un fannullone spregievole. E nemmeno questi sarà felice perchè il fatto d’esser liberato dal bisogno lo trasporta all’altro polo della miseria umana, alla noia, che lo tortura in tal maniera ch’ei sarebbe assai più contento se il bisogno gli avesse imposto un’occupazione. La noia lo farà cadere più facilmente in quelle stravaganze che gli toglieranno la fortuna di cui non è degno. In realtà una folla di persone non è nell’indigenza se non per aver speso il suo danaro, finchè ne aveva, a fine di procurarsi un sollievo momentaneo alla noia che la opprimeva. Le cose succedono in tutt’altro modo quando lo scopo a cui si tende è quello di elevarsi altamente nel servizio dello Stato; quando si tratta, per conseguenza, d’acquistare favore, amici, relazioni per mezzo dei quali potersi alzare di grado in grado e giungere forse un giorno ai posti più eminenti: in tal caso val meglio, in sostanza, esser venuto al mondo affatto senza beni di fortuna. Per un individuo sopratutto che non è della nobiltà, e che ha qualche talento, essere un povero cialtrone costituisce un vantaggio reale ed una raccomandazione. Perocchè ciò che ognuno cerca ed ama anzitutto, non solo nella semplice conversazione, ma anche a fortiori nel servizio pubblico, si è l’inferiorità degli altri. Ora non v’ha che un pitocco che sia convinto e penetrato della sua profonda, intera, indiscutibile, onnilaterale 8 inferiorità, della sua totale dappocaggine e della sua nullità al punto voluto dalla circostanza. Un pitocco solamente si china abbastanza spesso ed abbastanza a lungo, e sa piegare la schiena a riverenze di 90 gradi ben contati; egli solo soffre tutto col sorriso sulle labbra; egli solo riconosce che i meriti non hanno alcun valore; egli solo vanta pubblicamente, ad alta voce od a grosso carattere, come capolavori le inezie letterarie dei suoi superiori, od in generale degli uomini influenti; egli solo sa l’arte di mendicare; per conseguenza egli solo può esser iniziato a tempo, vale a dire fin dalla prima giovinezza, a quella verità nascosta che Goethe ci ha svelato in questi termini: Che nessuno si lagni della bassezza, perchè essa è la potenza, checchè se ne dica (W. O. Divan). Chi invece ebbe dai genitori una fortuna sufficiente per vivere sarà d’ordinario recalcitrante; egli è uso a camminare colla testa alta; egli non ha imparato tutti questi giuochi di flessibilità; fors’anche egli pensa di giovarsi di quel certo talento che possede e di cui dovrebbe piuttosto comprendere l’insufficienza in faccia a ciò che succede con il mediocre e lo strisciante 9; egli è pure capace di notare l’inferiorità di coloro che sono posti al di sopra di lui, e finalmente, quando le cose toccano l’indegnità, egli doventa restìo ed ombroso. Non si va avanti nel mondo così; alla fine potrà accadergli di dire con Voltaire, quell’impudente: Non abbiamo che due giorni da vivere, non vale la pena di passarli strisciando davanti spregevoli bricconi. Disgraziatamente, sia detto strada facendo, spregevole briccone è un attributo per il quale esiste in questo mondo un numero maledettamente grande di soggetti. Possiamo dunque vedere che ciò che dice Giovenale (Sat. II, v. 164): Non facilmente emergono coloro al cui merito pone ostacolo la povertà, si applica piuttosto alla carriera delle persone eminenti che a quella degli uomini di mondo. Tra le cose che si possede non ho annoverato moglie e figli perchè si è piuttosto posseduti da loro. Si potrebbe più ragionevolmente comprendervi gli amici, ma qui pure il proprietario deve nella stessa misura essere anche proprietà dell’altro.

CAPITOLO IV
Di ciò che si rappresenta.

1. Dell’opinione altrui.

Ciò che rappresentiamo, o, in altri termini, la nostra esistenza nell’opinione altrui è generalmente, in conseguenza di una debolezza particolare della nostra natura, troppo apprezzata, benchè la più piccola riflessione possa insegnarci che tutto questo per sè stesso non ha importanza alcuna per la nostra felicità. Sicchè si dura fatica a spiegarsi la grande soddisfazione interna che prova un uomo quando s’accorge d’una prova di stima datagli dagli altri, e quando viene lusingata la sua vanità, non ne importa il come. Tanto infallibilmente il gatto si mette a ronfare quando gli si carezza il dorso, altrettanto sicuramente si vede una dolce estasi dipingersi sulla figura dell’uomo che vien lodato, soprattutto quando la lode tocca il dominio delle sue pretese, e quand’anche essa fosse una menzogna palpabile. I segni dell’approvazione altrui lo consolano spesso d’una sventura reale o della parsimonia colla quale stillano per lui le due fonti principali di felicità, di cui abbiamo trattato finora. Dall’altro lato fa stupore il vedere quanto egli sia infallantemente angosciato e molte volte dolorosamente ferito da ogni lesione alla sua ambizione, in qualunque senso, a qualunque grado, o sotto qualunque rapporto si sia, da ogni sdegno, da ogni trascuranza, dalla più piccola mancanza di riguardi. Servendo di base al sentimento dell’onore, questa proprietà può avere un’influenza salutare sulla buona condotta di moltissime persone, a guisa di succedaneo della loro moralità; ma in quanto alla sua azione sulla felicità reale dell’uomo, e soprattutto sulla quiete dell’animo e sull’indipendenza, le due condizioni sì necessarie alla felicità, essa è piuttosto perturbatrice e dannosa che favorevole. Si è per questo, che, dal nostro punto di vista, è prudente metterle un limite e, con saggie riflessioni e con un giusto apprezzamento del valore dei beni, moderare questa grande sensibilità riguardo l’opinione altrui tanto nel caso che carezzi quanto nel caso che ferisca, perocchè in tutti e due pende dal medesimo filo. Altrimenti restiamo schiavi dell’opinione e del sentimento degli altri:

Sic leve, sic parvum est, animum quod laudis avarum Subruit ac reficit.
(Talmente tenue, talmente piccolo è ciò che perturba e riconforta un’anima avida di lode).

Per conseguenza un giusto apprezzamento del valore di ciò che si e in sè stesso e per sè stesso confrontato con ciò che si è solamente agli occhi altrui contribuirà molto alla nostra felicità. Il primo termine del confronto comprende quanto riempie il tempo della nostra esistenza, il contenuto intimo di questa, e quindi tutti i beni che abbiamo esaminati nei capitoli intitolati Di ciò che si è e Di ciò che si ha. Perocchè il luogo dove si trova la sfera d’azione di tutto questo è proprio la coscienza dell’uomo. Invece il luogo di tutto ciò che siamo per gli altri è la coscienza altrui; è la figura sotto la quale noi vi appariamo, come pure le nozioni che vi si riferiscono. Ora queste sono cose che, direttamente, non esistono affatto per noi; tutto ciò non esiste che indirettamente, vale a dire se non in quanto stabilisce la condotta degli altri verso di noi. Ed anche questo non entra realmente in considerazione che in quanto influisce su ciò che potrebbe modificare quello che siamo in noi e per noi stessi. Ciò posto, quanto succede in una coscienza straniera ci è, a tal titolo, perfettamente indifferente, e, a nostra volta, noi vi diverremo indifferenti a misura che conosceremo abbastanza la superficialità e la futilità dei pensieri, i ristretti limiti delle nozioni, la piccolezza dei sentimenti, l’assurdità delle opinioni e il numero considerevole di errori che s’incontra nella maggior parte dei cervelli umani — a misura che impareremo per esperienza con qual disprezzo si parla, all’occasione, di ciascuno di noi quando non si teme o non si crede che lo sapremo — ma soprattutto allorquando avremo inteso una sol volta con qual disdegno una dozzina d’imbecilli parla dell’uomo il più degno di stima. Comprenderemo allora che attribuire un alto valore all’opinione degli uomini è far loro troppo onore. In ogni caso, è proprio esser ridotti ad una meschina risorsa il non trovare la felicità nelle due classi di beni di cui abbiamo già parlato, ed il doverla cercare in questa terza, o, con altre parole, in ciò che si è non realmente, ma nell’immaginazione altrui. In tesi generale è la nostra natura animale che costituisce la base del nostro essere, e per conseguenza anche della nostra felicità. L’essenziale per il benessere è dunque la salute, e poi i mezzi necessari al nostro mantenimento, e per conseguenza una vita libera da cure moleste. L’onore, il fasto, la grandezza, la gloria, qualunque valore si attribuisca loro, non possono entrar in concorrenza con questi beni essenziali, nè surrogarli; ben altrimenti, toccando il caso, non si esiterebbe un momento solo a cangiarli con gli altri. Sarà dunque molto utile per la nostra felicità il conoscere per tempo questo fatto così semplice che ognuno vive anzitutto ed effettivamente nella sua propria pelle e non nell’opinione degli altri, e che allora naturalmente la nostra condizione reale e personale, quale la determinano la salute, il temperamento, le facoltà intellettuali, le rendite, la moglie, i figli, l’abitazione, ecc., è cento volte più importante per la nostra felicita di ciò che piace agli altri fare di noi. L’illusione contraria rende infelice. Esclamare con enfasi: «L’onore vale più della vita» è dire realmente: «La vita e la salute sono niente; ciò che gli altri pensano di noi, ecco l’importante». Tutt’al più questa massima può esser considerata come una iperbole in fondo alla quale si trova la prosaica verità che per mantenersi e per andar avanti fra gli nomini, l’onore, vale a dire la loro opinione a nostro riguardo, è spesso d’un’utilità indispensabile: ritornerò più avanti su tale questione. Quando si vede invece come quasi tutto ciò che gli uomini cercano durante l’intera loro vita, a prezzo di sforzi incessanti, di mille pericoli e di mille amarezze, ha per iscopo finale di elevarli nell’opinione altrui, perocchè non solo le cariche, i titoli e le onorificenze, ma la ricchezza ancora, o pur anche la scienza e le arti sono, in sostanza, ricercate principalmente a questo fine, quando si vede che il risultato definitivo a cui si tende è di ottenere più rispetto da parte degli altri, tutto ciò non prova, ahimè! se non la grandezza dell’umana follia. Annettere troppo valore all’opinione altrui è una superstizione universalmente dominante; che essa abbia le sue radici nella nostra stessa natura, o che abbia seguito la nascita della società e della civiltà, egli è certo che esercita in ogni caso sulla nostra condotta un’influenza smisurata ed ostile alla nostra felicità. Possiamo seguire tale influenza dal punto in cui si mostra sotto la forma d’una deferenza ansiosa e servile per il che se ne dirà? fino al punto in cui pianta il pugnale di Virginio in petto alla figlia, oppure in cui trascina l’uomo a sacrificare alla gloria postuma il suo riposo, la sua fortuna, la sua salute e perfino la sua vita. Questo pregiudizio offre, è vero, a chi è chiamato a regnare sugli uomini od, in generale, a dirigerli, una risorsa comodissima; sicchè il precetto d’aver da tenere svegliato o stimolato il sentimento dell’onore occupa il posto principale in ogni ramo dell’arte dell’educazione; ma riguardo alla felicità dell’individuo, ed è questo che qui ci occupa, succede tutt’altra cosa, e noi dobbiamo dunque dissuaderci dall’attribuire un valore troppo alto all’opinione altrui. Se nondimeno, come ce lo insegna l’esperienza, il fatto si presenta ogni giorno; se ciò che la maggior parte degli uomini stima di più si è precisamente l’opinione altrui a loro riguardo, e se essi se ne preoccupano più che di quanto, succedendo nella loro propria coscienza, esiste immediatamente per loro; se dunque, per un rovesciamento dell’ordine naturale, si è l’opinione altrui che sembra loro esser la parte reale dell’esistenza, l’altra non apparendo esserne che la parte ideale; se fanno di ciò che è derivato e secondario l’oggetto principale, e se l’immagine del loro essere nella testa degli altri sta loro più a cuore che il loro essere stesso; tale apprezzamento diretto di ciò che direttamente non esiste per alcuno costituisce quella follia a cui si è dato il nome di vanità, «vanitas» per indicare con questa parola il vuoto ed il chimerico di tale tendenza. Si può facilmente comprendere anche, per quanto dicemmo più indietro, che essa appartiene alla categoria di quegli errori che consistono nell’obliare lo scopo per i mezzi, come l’avarizia. In fatti il prezzo che noi annettiamo all’opinione altrui e la nostra costante preoccupazione a questo riguardo passano quasi ogni limite ragionevole, talmente che tale preoccupazione può esser considerata come una specie di mania generalmente diffusa, o piuttosto innata. In tutto ciò che facciamo, come in tutto ciò che ci asteniamo di fare, noi prendiamo in considerazione l’opinione altrui quasi prima d’ogni altra cosa, e si è da una tal cura che in seguito ad un esame profondo vedremo nascere la metà circa dei tormenti e delle angoscie che abbiamo provato. Perocchè è davvero questa preoccupazione che troviamo in fondo di ogni nostro amor proprio, così spesso offeso perchè è così morbosamente sensibile, al fondo di ogni nostra vanità e di ogni nostra pretesa, come pure al fondo del nostro fasto e della nostra ostentazione. Senza una tale preoccupazione, senza una tal rabbia, il lusso non sarebbe il decimo di ciò che è. Su essa è stabilito tutto il nostro orgoglio, punto d’onore e puntiglio, di qualunque specie si sia ed a qualunque sfera appartenga, — e quante vittime non fa di frequente! Essa si mostra già nel fanciullo poi in ogni stadio della vita, ma raggiunge tutta la sua forza nell’età avanzata, perchè allora, l’attitudine ai piaceri sensuali essendo esaurita, vanità ed orgoglio non hanno più a divider l’impero che con l’avarizia. Un tale furore si osserva più chiaramente nei Francesi presso i quali essa regna endemicamente e si manifesta spesso per mezzo dell’ambizione la più sciocca, della vanità nazionale la più ridicola, e della millanteria la più spudorata; ma le loro pretese per ciò stesso si annullano perchè li espongono al riso delle altre nazioni, ed hanno fatto un nomignolo grottesco del titolo di grande nation. Per spiegare più chiaramente tutto ciò che abbiamo esposto fin qui sulla stoltezza di preoccuparsi fuor di misura dell’opinione altrui voglio ricordare un esempio davvero maraviglioso di questa follia radicata nella natura umana; questo esempio è favorito da un effetto di luce che deriva da circostanze speciali e d’un carattere appropriato; ciocchè ci permetterà di ben valutare la forza di questo bizzarro motore delle azioni umane. Ecco un brano del rapporto dettagliato pubblicato dal Times del 31 marzo 1846 sulla recente esecuzione di un certo Thomas Wix, operaio che aveva assassinato il suo padrone per vendetta: «Nella mattina del giorno fissato per l’esecuzione, il reverendo cappellano delle carceri si portò presso di lui. Ma Wix, quantunque assai calmo, non ascoltava le esortazioni del ministro di Dio; sua sola preoccupazione era quella di far mostra d’un coraggio estremo in presenza della folla che stava per assistere alla sua brutta fine. E vi è riuscito. Arrivato nel cortile che doveva traversare per giungere al patibolo, innalzato di contro alla prigione, esclamò: «Ebbene, come diceva il dottor Dodd, conoscerò fra poco il gran mistero!» Quantunque avesse le braccia legate, salì senza aiuto la scala della forca; giunto alla cima, fece a dritta e a manca saluti agli spettatori, e la moltitudine assembrata vi corrispose, in ricompensa, con formidabili acclamazioni, ecc.» Aver davanti gli occhi la morte, sotto la forma più spaventosa, coll’eternità dopo di essa, e non preoccuparsi se non dell’effetto che si produrrà su quella massa di balordi accorsi e dell’opinione che si lascierà dopo morte nelle loro teste, non è forse un saggio unico d’ambizione? Lecomte che, lo stesso anno, fu ghigliottinato a Parigi per tentato regicidio, si rammaricava principalmente, durante il processo, di non potersi presentare davanti la Camera dei pari, vestito convenientemente, ed anche al momento dell’esecuzione era suo gran dolore che non gli si avesse permesso di radersi la barba prima di salire il patibolo. Lo stesso succedeva per lo passato, ciò che potremo vedere nell’introduzione (declaracion) da cui Mateo Aleman fa precedere il suo celebre romanzo Guzman d’Alfarache; in essa è detto che molti delinquenti dal cervello sconcertato tolgono le loro ultime ore alle cure della salute eterna, a cui dovrebbero impiegarle esclusivamente, per terminare ed imparare a mente un piccolo discorso che vorrebbero recitare dall’alto della forca. Possiamo trovare la nostra propria immagine in simili tratti; perocchè sono gli esempi di taglia colossale che forniscono le spiegazioni più evidenti in ogni materia. Per noi tutti, ben di sovente, le nostre preoccupazioni, i nostri affanni, le cure angosciose, le nostre collere, le nostre inquietudini, i nostri sforzi, ecc., hanno in vista quasi interamente l’opinione altrui e sono tanto assurde quanto quelle dei poveri diavolacci ricordati più indietro. L’invidia e l’odio partono egualmente, in gran parte, dalla stessa radice. Nessuna cosa evidentemente contribuirebbe meglio alla nostra felicità, composta principalmente di calma dello spirito e di soddisfazione, del limitare la potenza di un tale motore, e dell’abbassarla a un grado che la ragione potesse giustificare (a 1/50 per esempio) estraendo così dalle nostre carni questa spina che le strazia. Ma la cosa è molto difficile; abbiamo a che fare con una bizzarria naturale ed innata: Anche i saggi si spogliano per ultimo dalla passion della gloria, dice Tacito (Hist. IV, 6). Il solo mezzo di liberarci da questa follia universale sarebbe di riconoscerla distintamente per una follia, e, a tale scopo, renderci conto ben chiaramente fino a qual punto le opinioni, nelle teste degli uomini, sieno in massima parte e molto di frequente false, storte, erronee ed assurde; quanto l’opinione altrui abbia poca influenza reale su noi nella maggior parte dei casi e delle cose; quanto in generale essa sia cattiva, talmentechè non vi sarebbe chi non si ammalerebbe dalla collera se sentisse in che tono si parla e cosa si dice di lui; quanto infine l’onore istesso non abbia, propriamente parlando, che un valore indiretto e non immediato, ecc. Se potremo riuscire ad ottenere la guarigione di questa pazzia generale, guadagneremo infinitamente in calma di spirito ed in soddisfazione, ed acquisteremo nel tempo stesso un contegno più fermo e più sicuro, e un portamento molto più sciolto e più naturale. L’influenza affatto benefica d’una vita ritirata sulla nostra tranquillità d’animo e sulla nostra soddisfazione proviene in gran parte perchè essa ci sottrae all’obbligo di vivere costantemente sotto lo sguardo altrui e, per conseguenza, ci toglie la preoccupazione incessante sulla loro possibile opinione: ciò che ha per effetto di renderci a noi stessi. In tal maniera sfuggiremo egualmente a molti mali effettivi la cui causa unica è questa aspirazione puramente ideale, o, per dire più correttamente, questa deplorabile demenza; ci resterà pure la facoltà di prestare maggior cura ai beni reali, che potremo allora gustare senza essere disturbati. Ma «Χαλεπα τα καλα» (moleste le cose buone) lo abbiamo già detto. Dalla follia della natura umana or ora descritta, germogliano tre rampolli principali: l’ambizione, la vanità e l’orgoglio. Tra i due ultimi la differenza consiste in ciò che l’orgoglio è la convinzione già fermamente acquistata del nostro alto valore sotto ogni rapporto; la vanità invece è il desiderio di far nascere questa convinzione negli altri e, d’ordinario, colla secreta speranza di poter in seguito appropriarsela. Così l’orgoglio è l’alta stima di sè, procedente dall’interno, dunque diretta; la vanità invece è la tendenza ad acquistarla dal di fuori, dunque indirettamente. Per ciò la vanità rende loquaci, l’orgoglio taciturni. Ma il vanitoso dovrebbe sapere che l’alta opinione degli altri, a cui aspira, si ottiene molto più presto e più sicuramente serbando un continuo silenzio che parlando, quand’anche s’avesse da dire le più belle cose del mondo. Non è orgoglioso chiunque lo voglia; tutt’al più può affettare orgoglio chiunque lo voglia; ma quest’ultimo si tradirà ben presto nella parte che vuol rappresentare, siccome in ogni parte presa a prestito. Perocchè ciò che rende realmente orgoglioso si è la ferma, l’intima, l’incrollabile convinzione di meriti eminenti e d’un valore straordinario. Tale convinzione può essere erronea, oppure basarsi su meriti semplicemente esterni e convenzionali — ciò poco importa all’orgoglio, purchè essa sia reale e sincera. Poichè l’orgoglio ha le sue radici nella convinzione, sarà, come ogni idea, al di fuori della nostra libera volontà. Il suo peggior nemico, voglio dire il suo maggior ostacolo, è la vanità che briga l’approvazione altrui per fondar poi su questa la propria alta stima di sè stessa, mentre l’orgoglio suppone un’opinione già fermamente stabilita. Quantunque l’orgoglio sia generalmente biasimato ed infamato, nondimeno sono tentato di credere che ciò venga principalmente da coloro che non hanno di che insuperbirsi. Vista l’impudenza, e la stupida arroganza della maggior parte degli uomini, ogni persona che possede meriti di qualsivoglia specie farà molto bene a metterli in chiara luce da sè stesso, allo scopo di non lasciarli cadere in un completo oblio; perocchè colui che benevolmente, non cerca di approfittarsene e si conduce con la gente come se fosse affatto suo simile, non tarderà ad esser considerato da essa in tutta sincerità come un suo pari. Vorrei raccomandare di condursi in siffatta guisa a coloro sopratutto i cui meriti sono dell’ordine il più elevato, meriti reali, in conseguenza puramente personali, attesochè essi non possono esser richiamati ad ogni momento alla memoria, come le decorazioni e i titoli, da una impressione dei sensi; altrimenti facendo, vedranno realizzarsi troppo spesso il sus Minervam (il maiale che ammonisce Minerva). Un eccellente proverbio arabo dice: Scherza collo schiavo, ed ei ti mostrerà ben tosto il deretano. Anche la massima di Orazio: Sume superbiam quaesitam meritis (Assumi la superbia richiesta dai meriti) non è da disdegnare. La modestia è proprio una virtù inventata principalmente per uso e consumo dei mariuoli, perocchè esige che ciascuno parli di sé come se fosse un mariuolo: ciocchè stabilisce un’eguaglianza di livello ammirabile e produce la stessa apparenza come se non vi fosse in generale che della canaglia. Intanto l’orgoglio a più buon mercato è l’orgoglio nazionale. Esso tradisce presso chi ne è tocco l’assenza di ogni qualità individuale di cui potesse andar fiero, perocchè, se così non fosse, questi non sarebbe ricorso ad una qualità che divide con tanti milioni d’individui. Chiunque possede meriti personali distinti riconoscerà invece più chiaramente i difetti della sua nazione, poichè l’ha sempre sotto gli occhi. Ma ogni miserabile imbecille, che non ha al mondo cosa di cui possa andar superbo, si getta su quest’ultima risorsa, d’esser fiero cioè della nazione alla quale si trova appartenere per azzardo; si è con ciò che vuol rifarsi, e, nella sua gratitudine, è pronto a difendere πνιξ και λαξ (a pugni ed a calci) tutti i difetti e tutte le sciocchezze proprio alla sua nazione. Così, su cinquanta inglesi, per esempio, se ne troverà appena uno solo che leverà la voce per approvarvi quando parlerete con giusto disprezzo del bigottismo stupido e degradante della sua nazione; ma questo solo individuo sarà certamente una buona testa. I Tedeschi non hanno orgoglio nazionale e provano così quell’onestà di cui hanno la fama; invece provano tutto il contrario coloro fra i Tedeschi che professano ed affettano in modo ridicolo tale orgoglio, come fanno principalmente i deutschen Brüder (fratelli tedeschi) ed i democratici che adulano il popolo allo scopo di sedurlo. Si pretende bene che i Tedeschi abbiano inventato la polvere, ma io non sono di quest’opinione. Lichtenberg presenta la seguente questione: «Perchè un uomo che non è tedesco si fa molto di rado passare per tale? e perchè quando vuol farsi passare per qualche cosa, si dirà ordinariamente francese o inglese?». Del resto l’individualità, in ogni persona, è cosa ben altrimenti importante della nazionalità, e merita mille volte più di questa d’esser presa in considerazione. Onestamente non si potrà mai dire gran bene d’un carattere nazionale, poichè nazionale significa che appartiene al volgo. Si è piuttosto la meschinità dello spirito, la demenza e la perversità della specie umana che sole spiccano in ogni paese sotto forma differente, ed è questo che si chiama carattere nazionale. Stomacati di uno, ne lodiamo un altro, fino a che anche questo c’ispira lo stesso sentimento. Una nazione si ride dell’altra, e tutte hanno ragione. La materia di questo capitolo può esser classificata, come dicemmo, in onore, grado e gloria.

2. Il grado.

In quanto al grado, per importante che sembri agli occhi del volgo e dei filistei, e per grande che possa essere la sua utilità come roteamento nella macchina dello Stato, avremo finito con esso in poche parole per raggiungere il nostro scopo. Si tratta d’un valore di convenzione, o, più correttamente, d’un valore di simulazione; la sua azione ha per risultato una stima simulata, e il tutto è una commedia per la folla. Le decorazioni sono cambiali tirate sull’opinione pubblica; il loro valore si basa sul credito del traente. Intanto, senza parlare del danaro non indifferente che risparmiano allo Stato sostituendo le ricompense pecuniarie, esse sono nondimeno un’istituzione delle più felici, dato che la loro distribuzione sia fatta con discernimento ed equità. Infatti la folla ha occhi ed orecchie, ma nient’altro; sopratutto il senno le è infinitamente scarso, e corta pure la memoria. Certi meriti sono affatto fuori della portata del suo comprendimento; e ve n’ha di quelli che essa comprende ed acclama al loro apparire, ma che ben presto dimentica. Ciò essendo, trovo convenientissimo di gridare, ovunque e sempre, alla folla coll’organo d’una croce o d’una stella: «L’uomo che vedete non è vostro pari, egli ha dei meriti!» Per altro con una distribuzione ingiusta, non ragionevole od eccessiva, le decorazioni perdono il loro prezzo; sicchè un principe dovrebbe mettervi tanta circospezione ad accordarle, quanta un commerciante a segnar cambiali. L’iscrizione «Al merito» sopra una croce è un pleonasmo; ogni decorazione dovrebbe essere «pour le merite, ça va sans dire».

3. L’onore.

La discussione sull’onore sarà molto più difficile e molto più lunga di quella sul grado. Prima di tutto dovremo definirlo. Se a tal uopo dicessi: «L’onore è la coscienza esterna, e la coscienza è l’onore interno», la definizione potrebbe forse piacere a qualcuno, ma avremmo una spiegazione piuttosto brillante che netta e ben fondata. Sicchè direi: «L’onore è, oggettivamente, l’opinione che hanno gli altri del nostro valore, e, soggettivamente, il timore che c’ispira tale opinione.» In quest’ultima qualità esso ha di sovente un’azione molto benefica, quantunque in morale pura niente affatto fondata, sull’uomo d’onore. La radice e l’origine del sentimento dell’onore e della vergogna, inerente ad ogni uomo che ancora non sia interamente corrotto, ed il motivo dell’alto prezzo attribuito all’onore, saranno messi in mostra colle considerazioni seguenti. L’uomo non può, da sé solo, che assai poca cosa: egli è un Robinson abbandonato; unicamente in società cogli altri è, e può molto. Ei si rende conto di questa condizione fino dall’istante in cui la sua coscienza comincia a svilupparsi un po’, che subito si sveglia in lui il desiderio di esser annoverato come un membro utile della società, capace di concorrere «pro parte virili» all’azione comune, con diritto così di partecipare ai vantaggi della comunità umana. Vi riesce soddisfacendo da prima a ciò che si esige e si aspetta da qualunque uomo in qualunque posizione, e poi a ciò che si esige e si aspetta da lui nella posizione speciale che occupa. Ma egli conosce ben presto che ciò che importa non è d’esser un uomo di tal tempra nella sua propria opinione, ma bensì in quella degli altri. Ecco l’origine dell’ardore con cui egli briga favorevole l’opinione altrui, e dell’alto prezzo che vi annette. Queste due tendenze si manifestano colla spontaneità d’un sentimento innato che si chiama sentimento dell’onore e, in certe circostanze, sentimento del pudore (verecundia). Ecco ciò che caccia il sangue sulle guancie all’uomo non appena ei si crede minacciato di perdere nell’opinione altrui, benchè si sappia innocente, od ancorchè il fallo svelato non sia che un’infrazione relativa, vale a dire non concerni che un obbligo assunto gentilmente. D’altra parte nessuna cosa fortifica in lui il coraggio di vivere meglio della certezza acquistata o rinnovellata della buona opinione degli altri, perocchè essa gli assicura la protezione ed il soccorso delle forze riunite dell’insieme, ciocchè costituisce un riparo contro i mali della vita infinitamente più gagliardo delle sue sole forze. Dalle diverse relazioni in cui un uomo può trovarsi con altri individui e che mettono costoro nel caso di accordargli fiducia, in conseguenza di avere, come si dice, buona opinione di lui, nascono diverse specie di onore. Di esse le principali sono il mio ed il tuo, i doveri a cui si ha preso impegno, e in fine il rapporto sessuale; vi corrispondono l’onore borghese, l’onore dell’officio e l’onore sessuale, ciascuno dei quali presenta ancora delle suddivisioni. L’onore borghese occupa la sfera la più estesa: consiste nella presupposizione che noi rispetteremo assolutamente i diritti di ciascuno e che, per conseguenza, non impiegheremo mai a nostro vantaggio mezzi ingiusti od illeciti. Esso è la condizione richiesta per partecipare al commercio pacifico cogli uomini. Basta, per perderlo, una sola azione che gli sia fortemente e manifestamente contraria; come conseguenza ogni pena criminale ce lo toglie egualmente, a condizione però che la pena sia giusta. Tuttavia l’onore si basa sempre, in ultima analisi, sulla convinzione dell’immutabilità del carattere morale, in virtù della quale una sola cattiva azione garantisce una qualità identica di senso morale in tutte le azioni ulteriori, non appena si presenteranno ancora circostanze simili; ciò che indica pure l’espressione inglese «character» che vuoi dire stima, riputazione, onore. Ed ecco perchè la perdita dell’onore è irreparabile, a meno che non sia dovuta alla calunnia od a false apparenze. Perciò v’hanno leggi contro la calunnia, i libelli, e di più contro le ingiurie; perocchè l’ingiuria, l’insulto semplice, è una calunnia sommaria, senza indicazione di motivi: in greco si potrebbe esprimere questo pensiero così: «εστι ἡ λοιδορια διαβολη συντομος» (L’ingiuria è la calunnia abbreviata); tuttavia questa massima non si trova espressa in alcun luogo. È un fatto che chi ingiuria non ha niente di reale nè di vero da produrre contro l’altro, altrimenti lo esprimerebbe come premessa e lascierebbe tranquillamente a chi ascolta la cura di tirare la conclusione; ma invece dà la conclusione e resta in debito della premessa contando sulla presupposizione nello spirito degli uditori ch’egli proceda in siffatta guisa solamente per brevità. L’onore borghese prende, è vero, il nome dalla classe borghese; ma la sua autorità si estende sopra tutte le classi indistintamente, senza eccezione pure per le più alte; nessuno può farne senza; si è proprio un affare dei più serj, e bisogna guardarsi dal prenderlo alla leggera. Chiunque viola la fede e la legge rimane per sempre uomo senza fede e senza legge, checchè faccia e checchè possa essere; i frutti amari che porta con sè la perdita dell’onore non tarderanno a mostrarsi. L’onore ha, in un certo senso, carattere negativo, in opposizione alla gloria il cui carattere è positivo, perchè l’onore non è quell’opinione che si riferisce a qualità speciali, appartenenti ad un solo individuo, ma è l’opinione che si riferisce a qualità d’ordinario presupposte, e che l’individuo è tenuto di possedere egualmente agli altri. L’onore dunque si accontenta di far testimonianza che questo soggetto non fa eccezione, mentre la gloria afferma che esso è un’eccezione. La gloria deve quindi esser acquistata; l’onore al contrario non abbisogna che di non esser perduto. Per conseguenza la mancanza di gloria è l’oscurità, una negazione; la mancanza d’onore è l’onta, una positività. Non bisogna però confondere questa condizione negativa con la passività; tutto all’opposto l’onore ha un carattere interamente attivo. Infatti esso procede unicamente dal suo soggetto; esso è fondato sulla condotta propria di questi e non sulle azioni d’altri, o su fatti esterni; esso è dunque «των έφ̉ ημι̃ν» (una qualità interna). Vedremo bentosto che questo è il marchio distintivo fra il vero onore, e l’onore cavalleresco o falso onore. Dal di fuori non v’ha attacco possibile contro l’onore che colla calunnia; il solo mezzo di difesa ne è il respingerla colla pubblicità necessaria per smascherare il calunniatore. Il rispetto che si accorda all’età sembra fondarsi sul fatto che l’onore dei giovani, quantunque accordato per supposizione, non è ancora stato messo alla prova e per conseguenza non esiste, propriamente parlando, che a credito, mentre per gli uomini maturi si è potuto constatare nel corso della vita se colla loro condotta hanno saputo serbarlo. Perocchè nè gli anni per sè stessi — gli animali raggiungendo essi pure un’età avanzata e forse più avanzata che l’uomo — nè l’esperienza quale semplice conoscenza più intima dell’andamento delle cose umane giustificherebbero abbastanza il rispetto dei giovani per chi conta maggior numero d’anni, rispetto che tuttavia si esige universalmente; la pura fiacchezza senile darebbe diritto ai riguardi piuttosto che alla considerazione. Nondimeno è da notare che vi è nell’uomo un certo rispetto innato, realmente istintivo, per i capelli bianchi. Le grinze, segno ben più certo di vecchiezza, non lo ispirano minimamente. Non si è mai fatto menzione di grinze rispettabili, si è sempre detto: i venerabili capelli bianchi. L’onore non ha che un valor indiretto. Perocchè, come spiegai al principio del capitolo, l’opinione degli altri a nostro riguardo non può aver valore per noi che in quanto determini o possa determinare eventualmente la loro condotta verso di noi. È vero che ciò succede sempre per quanto a lungo si viva cogli uomini o fra essi. Infatti, siccome nello stato di civiltà dobbiamo solo alla società la nostra sicurezza e il nostro avere, siccome inoltre in ogni impresa abbiamo bisogno degli altri e ci occorre avere la loro confidenza perchè essi entrino in relazione con noi, l’opinione loro avrà un alto prezzo agli occhi nostri; ma questo prezzo sarà sempre indiretto, ed io non saprei ammettere che essa potesse avere un valore diretto. Tale è pure il parere di Cicerone (Fin., III, 17): Della buona fama poi Crisippo e Diogene invero dicevano che, messa da parte l’utilità, per essa certo non sarebbe da muovere un dito; ciò che io pure affermo altamente. Anche Elvezio nel suo capolavoro Dello spirito (Disc. III, cap. 13), sviluppa a lungo questa verità, e giunge alla conclusione: Noi non amiamo la stima per sè stessa, ma, unicamente per i vantaggi che procura. Ora il mezzo non potendo valere più del fine, la massima pomposa: Prima della vita l’onore, non sarà mai, come già dicemmo, che un’iperbole. Ecco quanto sull’onore borghese. L’onore dell’officio è l’opinione generale che un uomo investito d’un impiego possieda effettivamente tutte le qualità richieste, e adempia appuntino ed in ogni circostanza agli obblighi della sua carica. Quanto più nello Stato la sfera d’azione di un uomo è importante ed estesa, quanto più il posto ch’egli occupa è elevato e potente, tanto più grande deve essere l’opinione che si ha delle qualità intellettuali e morali che ne lo rendono degno; per conseguenza dovrà alzarsi il grado dell’onore che gli si accorda e che si manifesta coi titoli, colle decorazioni, ecc., e l’umiltà nella condotta degli altri a suo riguardo s’accentuerà progressivamente. Si è la posizione di un uomo che, misurata sulla stessa scala, determina costantemente il grado particolare dell’onore che gli è dovuto; questo grado tuttavia può esser modificato dalla facilità più o meno grande delle masse a comprendere l’importanza della posizione. Ma si concederà sempre maggior onore a chi avrà obblighi affatto speciali da disimpegnare, come quelli d’un officio, per esempio, che al semplice borghese, il di cui onore è stabilito principalmente su qualità negative. L’onore dell’officio esige inoltre che colui che tiene una carica, la faccia rispettare a causa dei suoi colleghi e dei suoi successori; per riuscirvi deve, come dicemmo, soddisfare puntualmente a’ suoi doveri, ma di più non deve lasciare impunito nessun attacco contro il posto o contro lui stesso, come funzionario: non permetterà dunque giammai che si dica ch’egli non disimpegna scrupolosamente ai doveri del suo officio, o che questo non è di alcuna utilità per il paese, dovrà invece, facendo punire il colpevole dai Tribunali, provare che tali attacchi erano ingiusti. Come sotto-ordini di questo onore troviamo quelli dell’impiegato, del medico, dell’avvocato, di ogni pubblico professore, e pur anco di ogni graduato, in poche parole, di chiunque in virtù d’una dichiarazione officiale è stato proclamato capace di un qualche lavoro intellettuale, e per ciò si è impegnato ad eseguirlo; l’onore finalmente in quella qualità che si può comprendere sotto la designazione di obbligati pubblici. In tale categoria bisogna dunque mettere anche il vero onore militare, che consiste nell’opinione che chiunque si è impegnato a difender la patria comune, possede realmente le qualità volute, fra le quali e prima d’ogni altra il coraggio, il valore e la forza, e che costui è pronto a difenderla risolutamente fino alla morte, ed a non abbandonare per nessun prezzo la bandiera a cui ha prestato giuramento. Ho dato all’onore dell’officio un significato molto largo, perocchè ordinariamente quest’espressione significa il rispetto dovuto dai cittadini all’officio stesso. Mi pare che l’onore sessuale richiegga d’esser esaminato più da vicino, e che i suoi principi debbano esser rintracciati fino nella radice; ciò che verrà a confermare nel tempo stesso che ogni onore si fonda, alla fin fine, sopra considerazioni di utilità. Considerato nella sua natura l’onore sessuale si divide in onore delle donne ed in onore degli uomini, e costituisce d’ambe le parti uno spirito di corpo bene inteso. Dei due il primo è molto più importante perchè nella vita della donna il rapporto sessuale è l’affare principale. Così dunque l’onore femminile è, quando si parla di una ragazza, l’opinione generale che ella non si sia data all’uomo, e, per la donna maritata, che ella si sia data a quello solo a cui è unita in matrimonio. L’importanza di questa opinione si fonda sulle considerazioni seguenti. Il sesso femminile invoca e si aspetta dal sesso mascolino assolutamente tutto; tutto ciò che desidera e tutto ciò che gli è necessario; il sesso mascolino non domanda all’altro, prima di tutto e direttamente, che un’unica cosa. Si dovette quindi acconciarsi in maniera tale, che il sesso mascolino non potesse ottenere questa unica cosa se non a condizione di prendersi cura di tutto, e per soprammercato dei nascituri; su tale disposizione di cose è basato il benessere di tutto il sesso femminile. Perchè la disposizione possa eseguirsi conviene necessariamente che tutte le donne tengano fermo insieme, e che mostrino uno spirito di corpo. Esse si presentano allora come un solo tutto, a schiere serrate, dinanzi la massa intera del sesso mascolino, come contro un nemico comune che, avendo dalla natura ed in virtù della preponderanza delle forze fisiche ed intellettuali, il possesso di tutti i beni terrestri, deve esser vinto e conquistato allo scopo di giungere, essendone padrone, a godere nello stesso tempo dei beni terrestri. A tal fine la massima d’onore di tutto il sesso femminile, si è che la vita in comune fuori del matrimonio sarà assolutamente interdetta agli uomini, affinchè ognuno di essi sia costretto al matrimonio come ad una specie di capitolazione, e che così siano provvedute tutte le donne. Tale risultato non può essere ottenuto per intero che coll’osservanza vigorosa della massima or ora esposta; sicchè il sesso femminile tutto intero veglia con vero spirito di corpo a che tutti i suoi membri l’eseguiscano fedelmente. Per conseguenza ogni ragazza che col concubinato si rende colpevole di tradimento verso il suo sesso, è scacciata dal corpo intero e notata d’infamia, perocchè il benessere della comunità correrebbe pericolo se questo modo di procedere si generalizzasse; allora si dice: Ella ha perduto il suo onore. Nessuna donna deve più frequentarla; la si sfugge come un’appestata. La stessa sorte tocca alla donna adultera, perchè essa ha violato la capitolazione consentita dal marito, e tale esempio distoglie gli uomini dal conchiudere sì fatte convenzioni, mentre ne dipende la salute di tutte le donne. Ed inoltre, siccome una tale azione comprende una frode ed un volgare mancamento di parola, la donna adultera perde non solo l’onore sessuale, ma anche l’onore borghese. Per ciò si può dire, come per scusarla: «una ragazza è caduta»; non si dirà mai: «una donna è caduta»; il seduttore può rendere l’onore alla prima col matrimonio, ma giammai l’adultero alla sua complice, in seguito a divorzio. Dopo una esposizione così chiara si riconoscerà che la base del principio dell’onor femminile è uno spirito di corpo salutare, necessario anzi, ma tuttavia calcolato giustamente e fondato sull’interesse; si potrà bene attribuirgli la più alta importanza nella vita della donna, si potrà accordargli un grande valore relativo, ma non mai un valore assoluto che oltrepassi quello della vita colle sue sorti; nè si ammetterà in alcun caso che questo valore arrivi al punto d’esser pagato a prezzo dell’esistenza stessa. Non si potrà dunque approvare Lucrezia, nè Virginio nel loro esaltamento degenerante in una buffonata tragica. La peripezia nel dramma Emilia Galotti (di W. Lessing), per la stessa ragione ha qualche cosa talmente ributtante, che si sorte dallo spettacolo affatto mal disposti. In cambio ed a dispetto dell’onor sessuale non si può astenersi dal simpatizzare colla Clärchen dell’Egmont. Tale maniera di spingere agli estremi il principio dell’onore femminile appartiene, come tante altre, all’oblio del fine per i mezzi; si attribuisce, con tali esagerazioni, all’onore sessuale un valore assoluto, quando, non altrimenti d’ogni altro onore, non ha che un valore relativo; fors’anche si potrebbe esser condotti a dire che questo valore è puramente convenzionale, quando si legga «Thomasius, De concubinato»; si scorge in quest’opera che, fino alla riforma di Lutero, in quasi tutti i paesi e in ogni tempo, il concubinato fu uno stato di cose permesso e riconosciuto dalla legge e che la concubina non cessava d’esser onorevole: senza parlare di Militta Babilonese (vedi Erodoto, I, 199), ecc. Vi hanno pure convenienze sociali che rendono impossibile la formalità esterna del matrimonio, sopratutto nei paesi cattolici ove non è ammesso il divorzio; ma in ogni paese tale ostacolo esiste per i sovrani; a mio avviso, intanto, aver un’amante è da parte loro un’azione molto più morale di un matrimonio morganatico; i figli nati da simili unioni possono levar pretese nel caso in cui la discendenza legittima venisse ad estinguersi, d’onde risulterebbe la possibilità, benchè assai lontana, d’una guerra civile. Di più il matrimonio morganatico, concluso cioè a dispetto di ogni convenienza esterna, è alla fin fine una concessione fatta alle donne ed ai preti, due classi di persone a cui si deve guardarsi, per quanto si può, dal concedere qualche cosa. Consideriamo ancora che ciascuno, nel suo paese, può sposare la donna da lui desiderata; ve n’ha uno solo a cui questo diritto naturale è tolto: questo pover’uomo è il sovrano. La sua mano appartiene al paese; non la si accorda che in vista di una ragione di Stato, vale a dire dell’interesse del paese. E tuttavia questo principe è un uomo che, come gli altri, vorrebbe una volta seguire l’inclinazione del suo cuore. È ingiustizia ed ingratitudine, quanto volgarità borghese, il proibire o il rimproverare al sovrano di vivere colla sua amante, bene inteso però quando ei non le accordi influenza alcuna sugli affari del paese. Dal suo lato pure quest’amante, in rapporto all’onore sessuale, è per così dire una donna eccezionale, fuori della regola comune, ella non si è data che ad un sol uomo, lo ama e ne è amata, ed egli non potrà mai prenderla per moglie. Ciò che prova soprattutto che il principio dell’onore femminile non ha un’origine puramente naturale si è il gran numero di sacrifizi sanguinosi che gli vengono fatti dall’infanticidio e dal suicidio delle madri. Una ragazza che si dà fuori della legge viola, è vero, la fede verso il suo sesso; ma da lei questa fede è stata solo tacitamente accettata, non giurata. E siccome nella maggior parte dei casi è precisamente il suo stesso interesse che ne soffre nel modo più diretto, la sua follia è infinitamente più grande della sua depravazione. L’onore sessuale degli uomini è provocato da quello delle donne a titolo di spirito di corpo opposto; ogni uomo che si adatta al matrimonio, vale a dire ad una capitolazione così vantaggiosa per la parte avversaria, contrae l’obbligo di vegliare ormai a che si rispetti la capitolazione, affinchè un tal patto non venga a perdere della sua saldezza se si prendesse l’abitudine di non osservarlo che assai negligentemente; non bisogna che gli uomini, dopo aver accordato tutto, giungano al punto di non esser nemmeno sicuri della sola cosa che hanno stipulato d’aver in cambio, cioè del possesso esclusivo della sposa. L’onore del marito esige che questi vendichi l’adulterio della moglie, e lo punisca almeno colla separazione. Se egli lo tollera quando ne sia a conoscenza, la comunità mascolina lo copre di vergogna; ma questa non è, presso a poco, così profonda come quella della donna che ha perduto l’onore sessuale. Essa è tutt’al più una levioris notae macula (una macchia di lieve impronta), perocchè le relazioni sessuali sono per l’uomo un affare secondario, vista la moltiplicità e l’importanza delle altre sue relazioni. I due grandi poeti drammatici dei tempi moderni hanno preso, ciascuno due volte, per soggetto l’onore maschile: Shakespeare nell’Otello e nel Racconto d’una notte d’inverno, e Calderon in El medico de su honra (Il medico del suo onore) e in A secreto agravio secreta venganza (Ad oltraggio secreto, secreta vendetta). Del resto questo onore non chiede che il castigo della donna, e non quello dell’amante; la punizione di quest’ultimo non è che opus superogationis (affare di soprammercato), ciò che conferma molto bene che la sua origine sta nello spirito di corpo dei mariti. L’onore, quale lo considerai fin qui nelle varie specie e nei suoi principî, lo si trova regnare in generale presso tutti i popoli ed in tutte le epoche, quantunque si possa scoprire qualche modificazione locale o temporanea sui principî dell’onor femminile. Ma esiste pure un genere di onore interamente diverso da quello che ha corso generalmente e dovunque, un genere di onore di cui nè i Greci nè i Romani avevano la menoma idea, come non l’hanno pure fino ad oggi nè i Chinesi, nè gl’Indiani, nè i Maomettani. In fatti esso è nato nel medio evo, e non si è climatizzato che nell’Europa cristiana; qui pure non è penetrato che in una frazione minima della popolazione, cioè fra le classi superiori della società e fra gli emuli di esse. Il suo nome è onore cavalleresco, o punto d’onore. La base di esso è totalmente diversa da quella dell’onore di cui abbiamo trattato finora; su alcuni punti ne è anzi l’opposto, poichè l’uno fa l’uomo onorevole, e l’altro invece l’uomo d’onore. Vengo dunque ora ad esporne separatamente i principi sotto forma di codice o specchio cavalleresco.

1.° L’onore non consiste nell’opinione altrui sul nostro merito, ma unicamente nelle manifestazioni di quest’opinione; poco importa che l’opinione manifestata esista realmente, o non esista, e meno che sia o non sia fondata. Per conseguenza il mondo può avere la più cattiva opinione sul nostro conto a causa della nostra condotta; esso può disprezzarci quanto gli accomoda; tutto ciò non nuoce per niente al nostro onore fino a che qualcuno non si permette di dirlo ad alta voce. Ma viceversa se pure le nostre qualità e le nostre azioni forzassero l’universo mondo a stimarci altamente (perocchè ciò non dipende dal libero arbitro di esso), basterà che un solo individuo, fosse pure il più cattivo od il più stupido, dimostri disprezzo a nostro riguardo, ed ecco d’un tratto leso, fors’anche perduto per sempre il nostro onore se noi non lo ripariamo. Un fatto che mostra esuberantemente non trattarsi minimamente dell’opinione per sè stessa, ma solo della sua manifestazione esterna, si è che le parole offensive possono esser ritirate, che al caso si può domandarne perdono, e che allora avviene come se non fossero state pronunziate; la questione di sapere se l’opinione che le aveva provocate cangiò nel tempo istesso e perchè si è cangiata, non ha a che fare; non si annulla che la manifestazione, ed allora tutto è in regola. Il risultato che si ha in vista non è dunque di meritare il rispetto, ma di estorcerlo.

2.° L’onore di un uomo non dipende da ciò che egli fa, ma da ciò che gli vien fatto, da ciò che gli succede. Abbiamo studiato più sopra l’onore che regna da per tutto; i suoi principî ci hanno dimostrato che esso dipende esclusivamente da ciò che un uomo fa o dice; invece l’onore cavalleresco risulta da ciò che un altro dice o fa. Esso è dunque posto nella mano, o semplicemente attaccato all’estremità della lingua del primo venuto: per poco che questi vi accenni l’onore è ad ogni istante in pericolo di perdersi per sempre, a meno chel’offeso non se lo riprenda colla forza. Parleremo fra poco delle formalità da compiere per rimetterlo a posto. Per altro questa procedura non può esser seguita che con pericolo della vita, della libertà, della fortuna e della quiete dello spirito. La condotta di un uomo, fosse pure la più onorevole e la più nobile, la sua anima la più pura e la sua testa la più eminente, tutto ciò non impedirà che il suo onore non possa esser perduto non appena piacerà ad un individuo qualunque d’ingiuriarlo; e, sotto la sola riserva di non aver ancora violato i precetti dell’onore in questione, questo individuo potrà essere il più vile briccone, il bruto più stupido, uno scioperato, un giocatore, un uomo ingolfato nei debiti, in poche parole un cialtrone nemmeno degno che l’altro lo guardi. E ordinariamente sarà ad una creatura di siffatta specie che piacerà insultare, perocchè come Seneca ha giustamente osservato (De Constantia,), quanto più un uomo è dispregiato e schernito, tanto più ha la lingua sciolta, ed è contro l’uomo eminente di cui parlammo or ora che un vile briccone, si scaglierà di preferenza, perchè caratteri opposti si odiano e perchè la vista di qualità superiori risveglia di solito una rabbia sorda nell’anima dei tristi; per questo dice Goethe: (W. O. Divan) Perchè lagnarti de’ tuoi nemici? Potrebbero mai esser tuoi amici, uomini pei quali una natura come la tua è secretamele un eterno rimprovero? Si vede bene quanta riconoscenza tale genia deve al principio dell’onore, principio che la solleva allo stesso livello di coloro i quali le sono infinitamente superiori sotto ogni aspetto. Che un individuo siffatto scagli un’ingiuria, vale a dire attribuisca ad un altro qualche brutta qualità; se questi non lava tosto nel sangue l’insulto, questo passerà provvisoriamente per un giudizio oggettivamente vero e fondato, per un decreto avente forza di legge; l’affermazione potrà anche restare per sempre vera e valevole. In altri termini l’insulto rimane (agli occhi di tutti gli «uomini d’onore») come l’insultatore (fosse pur l’ultimo degli uomini) lo ha detto, perchè l’insultato ingoiò l’affronto (è questo il «terminus technicus»). Da allora gli «uomini d’onore» lo sprezzeranno profondamente, lo fuggiranno come se avesse la peste; rifiuteranno, per esempio, altamente e pubblicamente di andare in una società ove lo si riceve, ecc. Credo poter con certezza far risalire al medio evo l’origine di questo lodevolissimo sentimento. Infatti C. W. de Wachter (Contributo alla storia tedesca particolarmente sul diritto penale, 1845) c’insegna che fino al XV secolo nei processi criminali non spettava al denunciatore provare la reità, ma che toccava all’accusato provare la sua innocenza. Questa prova poteva darsi col giuramento di purgazione, per il quale occorrevano all’accusato i consacramentales che giurassero esser convinti ch’egli fosse incapace d’uno spergiuro. Se l’accusato non poteva trovare garanti, o se l’accusatore li ricusava, interveniva il giudizio di Dio che consisteva ordinariamente nel duello. Perocchè «l’accusato» diveniva allora un «insultato» e doveva purgarsi dall’insulto. Ecco dunque l’origine della nozione dell’«insulto» e di tutta quella procedura che viene praticata, salvo il giuramento, anche oggigiorno fra gli «uomini d’onore.» Tutto questo ci spiega anche la profonda indignazione d’obbligo che commuove gli «uomini d’onore» quando si sentono accusar di menzogna, e così pure la sanguinosa vendetta che ne tirano; ciò che pare tanto più strano in quanto che la menzogna è cosa d’ogni giorno. In Inghilterra sopra tutto la faccenda si leva all’altezza d’una superstizione fortemente radicata (chiunque minaccia di morte colui che lo accusa di menzogna dovrebbe, in realtà, non aver mai mentito in tutta la sua vita). Nei processi criminali del medio evo v’era una procedura ancor più sommaria, e consisteva nel replicare dell’accusato all’accusatore: «Tu hai mentito», dopo di che si faceva appello immediatamente al giudizio di Dio; da ciò deriva nel codice dell’onor cavalleresco l’obbligo di ricorrere senza ritardo alle armi quando si abbia ricevuto l’accusa d’aver mentito. Ecco quanto concerne l’ingiuria. Ma esiste qualche cosa molto peggiore dell’ingiuria, qualche cosa talmente orribile che devo domandar perdono agli «uomini d’onore» d’osare unicamente ricordarla in questo codice dell’onor cavalleresco; non ignoro che solo a pensarvi essi ne avranno i brividi e che i capelli si drizzeranno loro sulla testa, perocchè questa cosa è il summum malum, di tutti i mali della terra il più grande, più spaventevole della morte e dell’eterna dannazione. Può succedere infatti, horribile dictu, può succedere che un individuo dia uno schiaffo od una percossa ad un altro individuo: con ciò una spaventevole catastrofe! La morte dell’onore è allora così completa che, se si può guarire con un semplice salasso ogni altra lesione dell’onore, questa per la radicale guarigione esige che si debba uccidere completamente.

3.° L’onore non si dà pensiero di ciò che possa esser l’uomo in sè e per sè, e nemmeno della questione di sapere se la condizione morale d’un individuo possa modificarsi coll’andar del tempo o d’altre simili pedanterie da scolaretti. Quando l’onore è stato per un momento intaccato o perduto, esso può esser prontamente ed interamente ristabilito, ma alla condizione che vi si provveda al più presto: la panacea ne è il duello. Se però l’autore dell’affronto non appartiene alle classi che professano il codice dell’onor cavalleresco, o s’egli lo ha violato in qualche occasione, havvi, sopratutto quando l’affronto è stato prodotto da vie di fatto, ma pur anco quando lo fu solamente da parole, havvi, diciamo, un’operazione infallibile da intraprendere, ed è, se si ha un’arma addosso, di passargliela immediatamente od anche, a rigore, un’ora dopo, attraverso il corpo; in tal maniera l’onore è riparato. Ma qualche volta si vuole evitare quest’operazione perchè si teme gl’impicci che ne potrebbero derivare; allora se non si è ben sicuri che l’offensore si sottometta alle leggi dell’onore cavalleresco, si ricorre ad un rimedio palliativo che si chiama pigliar l’avvantaggio. Consiste questo, quando l’avversario è stato villano, nell’esser notabilmente più villano di lui; se per ciò le ingiurie non bastano si viene alle percosse: e qui pure v’ha un climax, una gradazione nella cura dell’onore: gli schiaffi sono guariti colle bastonate, queste colle scudisciate; per le scudisciate poi v’è qualcuno che raccomanda, come rimedio d’efficacia garantita, lo sputare nel viso. Ma nel caso in cui non si arrivi a tempo con questi rimedi, bisogna senza fallo ricorrere alle operazioni sanguinose. Un tal metodo di cura palliativa è basato in sostanza sulla massima seguente:

4.° Nella stessa maniera che esser insultato è un’onta, insultare è un onore. Così, che la verità, il diritto e la ragione sieno pure dalla parte del mio avversario, e che io lo ingiuri, sull’istante egli non ha che da andare al diavolo con tutti i suoi meriti: il diritto e l’onore sono dalla mia parte, ed egli al contrario ha provvisoriamente perduto l’onore fino a che non lo ristabilisca — col diritto e colla ragione, direte voi? niente affatto!: colla pistola o colla spada. Dunque dal punto di vista dell’onore la rozzezza è una qualità che supplisce o domina tutte le altre: il più villano ha sempre ragione: quid multa? Qualunque sciocchezza, qualunque sconvenienza, qualunque infamia si abbia potuto commettere, una villania grossolana toglie loro questo carattere, e le legittima seduta stante. Che in una discussione, od in una semplice conversazione una persona mostri una conoscenza più esatta della questione, un amore più severo della verità, una mente più vasta, un raziocinio più giusto, in una parola ch’egli metta in luce tali meriti intellettuali che facciano cader nell’ombra i nostri, nondimeno noi potremo d’un sol colpo annullare tutte queste superiorità, nascondere la nostra pochezza di mente, ed esser superiori a nostra volta divenendo villani ed offensivi. Perocchè una villania volgare atterra qualunque argomento ed eclissa qualunque grande ingegno. Se dunque il nostro avversario non vuol entrare in partita, e non replica con una villania ancora più grande, nel qual caso verremo a nobile tenzone per pigliar l’avvantaggio, saremo noi i vincitori e l’onore resterà dal nostro lato: verità, istruzione, raziocinio, intelligenza, ingegno, tutto ciò deve far fagotto, e fuggire davanti l’arte divina dello svillaneggiare. Così gli «uomini d’onore», non appena qualcuno manda fuori una opinione differente dalla loro, o fa mostra di ragioni migliori di quelle che essi possono mettere in campo, faranno vista immediatamente d’inforcar gli arcioni di un tal cavallo da guerra; quando in una controversia mancano di argomenti da opporre, essi cercheranno qualche insulto grossolano, ciò che fa lo stesso officio ed è più facile a trovare: dopo di che se ne andranno tutti trionfanti. Dopo quanto abbiamo esposto, non si ha forse ragione di dire che il principio dell’onore nobilita il tono della società? La massima di cui ci siamo or ora occupati è fondata a sua volta sulla seguente, che è, a dir vero, il fondamento e l’anima del presente codice.

5.° La corte suprema di giustizia, quella davanti a cui, in ogni contesa concernente l’onore, si può appellarsi di qualunque altro giudizio, si è la forza fisica, vale a dire l’animalità. Perocchè qualunque villania è, propriamente parlando, un appello all’animalità nel senso che essa dichiara l’incompetenza della lotta delle forze intellettuali o del diritto morale e la surroga con quella delle forze fisiche; nella specie uomo, che Franklin definisce a toolmaking animal (un animale che fabbrica degli arnesi), questa lotta si effettua col duello, per mezzo di arme costruite espressamente allo scopo, e porta una decisione senza appello. Questa massima fondamentale è disegnata, come si sa, coll’espressione diritto della forza, espressione che implica un’ironia come in tedesco la parola Aberwitz (delirio, demenza), che indica una specie di «Witz» (spirito) che è ben lungi dall’essere del «Witz»; nello stesso ordine d’idee l’onore cavalleresco dovrebbe chiamarsi l’onore della forza.

6.° Trattando dell’onore borghese, lo abbiamo trovato molto scrupoloso circa i capitoli del tuo e del mio, degli obblighi contratti e della parola data, invece il codice in questione professa su tutti questi punti i principî più nobilmente liberali. Infatti v’ha una sola parola a cui non si deve mancare: «la parola d’onore» vale a dire la parola dopo la quale si ha detto: «sul mio onore», donde risulta la presunzione che si può mancare ad ogni altra parola. Ma anche nel caso in cui si avesse violato la parola d’onore, l’onore, a un bisogno, può esser salvato per mezzo della nota panacea, il duello: siamo tenuti a batterci con chi sostenesse che abbiamo data la nostra parola d’onore. Inoltre non esiste che un solo debito che occorra pagare immancabilmente: il debito di giuoco, che, per questo motivo, si chiama «debito di onore». In quanto agli altri debiti si rubi pure ad Ebrei ed a Cristiani, che ciò non nuoce minimamente all’onore cavalleresco. Qualunque mente di buona fede riconoscerà a prima vista che un tal codice strano, barbaro e ridicolo dell’onore non può aver la sua origine nell’essenza della natura umana o in una maniera sensata di considerare i rapporti degli uomini fra loro. E questo è quanto conferma pure il dominio molto ristretto della sua autorità: tale dominio, che ebbe principio solamente nel medio evo, è limitato all’Europa, ed anche qui non comprende che la nobiltà, la classe militare ed i loro emuli. Perocchè nè i Greci, nè i Romani, nè le popolazioni eminentemente civilizzate dell’Asia, non meglio nell’antichità che nei tempi moderni, hanno saputo e sanno una parola di un siffatto onore e dei suoi principi. Tutti questi popoli non conoscono che ciò che noi abbiamo chiamato l’onore borghese. Presso di loro l’uomo non ha altro valore che quello conferitogli dalla sua intera condotta, e non quello fattogli dalle parole che una mala lingua si diverte a proferire sul suo conto. Presso tutti questi popoli ciò che dice o fa un individuo può benissimo annientare il suo proprio onore, ma non mai quello di un altro. Una percossa, presso tutti questi popoli, non è altra cosa che una percossa, eguale e forse meno pericolosa del calcio che può tirare un cavallo od un asino: una percossa potrà, al caso, suscitar la collera o spingere immediatamente alla vendetta, ma non ha niente di comune coll’onore. Queste nazioni non tengono registri ove notare a conto le percosse o le ingiurie, oppure le soddisfazioni che si ebbe cura, o si trascurò di ottenere. Per bravura, e per disprezzo della vita esse non la cedono affatto affatto all’Europa cristiana. I Greci ed i Romani erano certo eroi perfetti, ma ignoravano completamente il «punto d’onore». Il duello, presso di loro, non era privilegio delle classi nobili, ma affare di vili gladiatori, di schiavi abbandonati, di rei condannati che erano eccitati a battersi, alternativamente colle bestie feroci, per divertimento del pubblico. Col Cristianesimo i giuochi dei gladiatori furono aboliti, ma al loro posto, e regnando sovrana la religione di Cristo, si istituì il duello, coll’intermedio del giudizio di Dio. Se i primi erano un sacrifizio crudele offerto alla pubblica curiosità, il duello è un sacrifizio non meno crudele al pregiudizio generale, sacrifizio in cui non sono immolati colpevoli, schiavi o prigionieri, ma uomini liberi e nobili. Moltissimi tratti che la storia ci ha conservato provano che gli antichi ignoravano assolutamente questo pregiudizio. Quando, per esempio, un capo teutono invitò Mario ad un duello, l’eroe gli fece rispondere che «se era stanco della vita non aveva che da appiccarsi per la gola», proponendogli tuttavia un gladiatore dei più valenti con cui potrebbe combattere a suo piacere (Freinsheim, Supplementi a Tito Livio, 1. LXVIII, c. 12). Leggiamo in Plutarco (Temistocle, 11) che Euribiade, comandante della flotta, in una discussione con Temistocle, avrebbe alzato il bastone per batterlo; non si scorge mica che questi abbia snudata la spada, ma che disse: «Batti, ma ascolta». Quale indegnazione il lettore «uomo di onore» deve provare non trovando menzione in Plutarco che il corpo degli ufficiali ateniesi non abbia immediatamente dichiarato di non voler più servire sotto Temistocle! Perciò uno scrittore francese dei nostri giorni dice con ragione: «Se qualcuno s’immaginasse di dire che Demostene fu un uomo d’onore si riderebbe per compassione… Neppur Cicerone era uomo d’onore.» (Soirées littéraires, par C. Durand; Rouen, 1828, vol. II, pag. 300). Inoltre il passo di Platone (De leg., IX, le sei ultime pagine e XI, pag. 131, ediz. Bipont) sopra le αικια, vale a dire sulle ingiurie con vie di fatto, prova abbastanza che in quest’argomento gli antichi non supponevano nemmeno tale sentimento del punto d’onore cavalleresco. Socrate, in seguito alle sue numerose controversie, si espose molte volte alle percosse, che sopportava con tutta calma; un giorno, avendo ricevuto un calcio, non ne fece caso e disse a qualcuno che si maravigliava di ciò: «Se me lo avesse dato un asino ne porterei querela?» (Diogene Laerzio, II, 21). Un’altra volta, siccome qualcuno gli diceva: «Quest’uomo vi biasima; non vi ingiuria forse?» rispose: «No, perchè ciò che dice non si riferisce a me» (Ibid. 36). — Stobeo (Florilegium, ediz. Gaisford, vol. I, pag. 327- 330) ci ha conservato un lungo brano di Musonio, brano che ci lascia scorgere la maniera con cui gli antichi consideravano le ingiurie: essi non conoscevano altra soddisfazione che quella da ottenersi per mezzo dei magistrati, e i saggi disdegnavano pur questa. Si può vedere nel Gorgia di Platone (pag. 86, ediz. Bipont) che in fatti così aveva luogo l’unica riparazione che si potesse pretendere per uno schiaffo; noi vi troviamo anche (pag. 133) riportata l’opinione di Socrate in proposito. E ciò spicca pure da quanto racconta Aulo Gellio (XX, 1) di un certo Lucio Verazio il quale si divertiva, per malizia e senza motivo alcuno, a dare uno schiaffo ai cittadini romani che incontrava per istrada; allo scopo di evitare lunghe formalità egli si faceva accompagnare da uno schiavo che portava un sacco di moneta di bronzo e che era incaricato di pagare immediatamente al passeggiero stupito l’ammenda legale di 25 assi. Crate, il celebre cinico, avendo ricevuto dal musicista Nicodromo uno schiaffo così forte che il viso gli si era gonfiato con larga echimosi, si attaccò alla fronte una tavoletta coll’iscrizione: Nicodromo fece, ciò che coperse di vergogna il suonatore di flauto che si era lasciato trasportare ad una tale brutalità (Diogene Laerzio, VI, 89) contro un uomo che tutta Atene riveriva al pari d’un Dio Lare (Apulejo, Flor. pag. 126, ediz. Bipont). Abbiamo in argomento una epistola di Diogene di Sinope a Melesippo nella quale, dopo avergli detto d’esser stato battuto da alcuni Ateniesi ubbriachi, aggiunge che di ciò non gli cale (Nota Casaub. ad Diog. Laert., VI, 33). Seneca nel libro De constantia sapientis, dal capitolo X fino alla fine, tratta in dettaglio de contumelia per stabilire che il savio la sprezza. Al capitolo XIV dice: «Ma il saggio percosso da uno schiaffo che farà? Ciò che fece Catone, il quale percosso nel viso non si adirò, non vendicò l’ingiuria e neppure la perdonò, ma negò che gli fosse stata fatta».

«Sta bene, esclamerete, ma erano savî!»
E voi altri, siete pazzi voi altri? — Ve lo accordo.

Noi vediamo dunque che ogni principio d’onore cavalleresco era ignoto agli antichi precisamente perchè consideravano, sotto ogni punto di vista, le cose nel loro aspetto naturale senza prevenzioni e senza lasciarsi raggirare da ciance empie o funeste. Sicchè in uno schiaffo non vedevano altra cosa se non ciò che è in realtà, un piccolo danno fisico, mentre per i moderni esso è una catastrofe ed un tema da tragedia, come per esempio nel Cid di Corneille ed in un dramma tedesco più recente intitolato La forza delle circostanze, ma che dovrebbe piuttosto chiamarsi La forza del pregiudizio. Se un dì fosse dato uno schiaffo nell’Assemblea nazionale a Parigi, l’Europa intera ne rimbomberebbe. Le reminiscenze classiche, e gli esempi dell’antichità or ora ricordati devono aver mal disposto gli «uomini d’onore»; noi raccomandiamo loro come antidoto di leggere in Jacques le fataliste, capolavoro di Diderot, la storia di Monsieur Desglands18; vi troveranno un tipo nobilmente straordinario dell’onore cavalleresco moderno che potrà dilettarli e nel tempo stesso edificarli a maraviglia.
Da quanto precede resta provato abbastanza che il principio dell’onore cavalleresco non è un principio primitivo, basato sulla natura stessa dell’uomo; invece esso è artificiale, e la sua origine è facile a scoprire. L’onore cavalleresco è il figlio di quei secoli in cui i pugni erano esercitati più che le teste, ed in cui i preti tenevano incatenata la ragione, del medio evo insomma, del medio evo tanto vantato, e della sua cavalleria. Allora infatti il buon Dio non aveva la sola missione di vegliare su noi, ei doveva anche giudicare per noi. Perciò le cause giudiziarie d’indole delicata si decidevano per mezzo delle Ordalie o giudizi di Dio, che consistevano, meno qualche piccola eccezione, in combattimenti singolari, non solamente tra cavalieri, ma anche tra borghesi come viene provato da un bel passo dell’Enrico VI di Shakespeare (2a parte, atto 2°, scena 3a). Il combattimento singolare o giudizio di Dio era un’istanza suprema a cui si poteva appellarsi contro ogni sentenza giudiziaria. In tal modo, invece della ragione, si era la forza e la destrezza fisica, altramente detta la natura animale, che si erigeva a tribunale, e non era mica ciò che un uomo aveva fatto, ma ciò che gli era accaduto che decideva se egli aveva torto o ragione, precisamente come procede il principio dell’onore cavalleresco oggigiorno in vigore. Se qualcuno conservasse ancora dei dubbi su tale origine del duello e delle sue formalità non avrebbe, per levarseli intieramente, che a leggere l’eccellente opera di J. G. Mellingen, The history of duelling, 1849. Ai nostri giorni ancora, fra le persone che regolano la loro vita su questi precetti, — già si sa che ordinariamente non sono nè le più istruite, nè le più ragionevoli — ve n’ha di quelle per le quali l’esito del duello rappresenta effettivamente la sentenza divina nelle conseguenze che ha portato il combattimento; opinione nata evidentemente da una lunga trasmissione ereditaria e tradizionale. Fatta astrazione dalla sua origine, il principio dell’onore cavalleresco ha per iscopo immediato di farsi accordare, colla minaccia della forza fisica, le testimonianze esterne di quella stima che si crede troppo difficile, o superfluo d’acquistare realmente. Presso a poco è la stessa cosa come se qualcuno scaldasse colla mano il bulbo d’un termometro e volesse provare, perchè la colonna di mercurio sale, che la sua camera è bene riscaldata. Volendo considerare la cosa più da vicino, eccone il principio: nello stesso modo che l’onore borghese, avendo in vista i rapporti pacifici degli uomini tra loro, consiste nell’opinione che noi meritiamo piena fiducia perchè rispettiamo scrupolosamente i diritti altrui, del pari l’onore cavalleresco consiste nell’opinione che noi siamo da temere perchè decisi a difendere ad oltranza i nostri diritti. La massima che val meglio ispirar timore che fiducia non sarebbe così falsa, visto il pochissimo conto che si può fare sulla giustizia degli uomini, se vivessimo nello stato di natura in cui ciascuno deve da sè stesso difendere la sua persona e i suoi diritti. Ma essa non trova applicazione nella nostra epoca di civiltà, in cui lo Stato si è preso l’incarico di proteggere persone e proprietà; essa non esiste più che come quei castelli e quei torrioni dell’epoca del diritto feudale, inutili ed abbandonati, frammezzo campi ben coltivati, quartieri animati, e fors’anche strade ferrate. L’onore cavalleresco, per la ragione stessa che professa la massima precedente, è andato a ficcarsi necessariamente in tutte quelle offese alla persona che lo Stato non punisce che leggermente, o non punisce affatto in virtù del principio: De minimis lex non curat, tali delitti non producendo che un danno insignificante, e non essendo il più delle volte che semplici puntigli. Per mantenere il suo dominio in una sfera molto elevata, esso ha attribuito alla persona un valore la cui esagerazione è affatto sproporzionata con la natura, la condizione ed il destino dell’uomo; spinge questo valore fino al punto di fare qualche cosa di sacro dell’individuo, e, trovando del tutto insufficienti le pene pronunziate dallo Stato contro le piccole offese alla persona, si prende la briga di punirle esso stesso con punizioni sempre corporali, ed anche colla morte dell’offensore. Havvi evidentemente, in sostanza, l’orgoglio più smisurato e l’oltracotanza più ributtante nell’obbliare la natura reale dell’uomo e nel pretendere di rivestirlo d’una inviolabilità e d’una irreprensibilità assolute. Ma ogni uomo che è deciso a mantenere simili principî colla violenza, e che professa la massima: chi m’insulta o mi tocca deve morire, merita per ciò solo d’essere espulso dal paese. È vero che si mette avanti ogni sorta di pretesti per inorpellare questo orgoglio smisurato. Di due uomini intrepidi, si dice, nessuno cederà; nella più leggera collisione essi verranno subito alle ingiurie, poi alle percosse e finalmente all’omicidio: è dunque preferibile, in riguardo alle convenienze, di sorpassare i gradi intermedi, e ricorrere immediatamente alle armi. I dettagli della procedura sono stati allora formulati in un sistema di rigido pedantismo, sistema che ha le sue leggi e le sue regole, e che è davvero la buffonata più lugubre del mondo; vi si può scorgere, nessuno lo neghi, il Panteon glorioso della follìa. Ma il punto di partenza istesso è falso; nelle cose d’importanza minima (gli affari gravi restano sempre deferiti alla decisione dei tribunali) di due uomini intrepidi ve n’ha sempre uno, il più saggio, che cede: quando non si tratta che di opinioni non si vorrà nemmeno occuparsene. Ne troviamo la prova nel popolo, o, per meglio dire, in tutte quelle numerose classi sociali che non ammettono il principio dell’onore cavalleresco; quivi le contese seguono il loro corso naturale e tuttavia l’omicidio vi è cento volte meno frequente che nella frazione minima, l/1000 appena, che lo accetta; anche le risse vi sono rare. Si pretende inoltre che questo principio, coi suoi duelli, sia la pietra angolare che mantiene il bon ton e le belle maniere nella società, che sia un baluardo che mette al riparo dall’urto della brutalità e della rozzezza. Per altro in Atene, a Corinto, a Roma c’era della buona ed anche della buonissima società, delle maniere eleganti, del bon ton, senza che vi fosse bisogno d’impiantarvi l’onore cavalleresco a guisa di spauracchio. È giusto però il dire che le donne non regnavano nella società antica come presso di noi. Oltre il carattere frivolo e puerile che assume con esse la conversazione, poichè se ne bandisce qualunque soggetto serio ed ampliamento trattato, la presenza delle donne nella nostra società contribuisce di certo per una gran parte ad accordare al coraggio personale il primato su ogni altra qualità, mentre in realtà esso non è che un merito molto subordinato, una semplice virtù da sotto-tenente nella quale gli animali stessi ci sono superiori; infatti non si dice forse: «coraggioso come un leone?» Ma v’ha di più: all’opposto dell’asserzione precedentemente riportata, il principio dell’onore cavalleresco è di sovente il rifugio sicuro della disonestà e della scelleratezza negli affari gravi, e nello stesso tempo l’asilo dell’insolenza, della sfacciataggine e della rozzezza nelle cose di lieve momento, per la semplicissima ragione che nessuno si vuol prender la briga di castigare queste brutte qualità a rischio della vita. In prova vediamo il duello rigogliosamente in fiore, e praticato colla più sanguinaria serietà, precisamente presso quella nazione la quale, nelle sue relazioni politiche e finanziarie, ha mostrato mancanza di vera onestà: a chi ne ha fatto la prova bisognerebbe domandare di che natura sieno le relazioni private cogli individui di quella nazione; in quanto poi alle loro maniere civili ed alla loro coltura sociale, sono cose che da lunga data hanno grande celebrità come modelli negativi. Tutti questi motivi che vengono allegati sono adunque privi di fondamento. Si potrebbe affermare con più ragione che, come il cane brontola quando lo si irrita e fa vezzi quando lo si carezza, nello stesso modo è proprio della natura dell’uomo il rendere ostilità per ostilità e l’essere esacerbato ed irritato per le manifestazioni dello sprezzo o dell’odio. Cicerone l’ha già detto: «L’ingiuria ha un certo aculeo che gli stessi uomini saggi e prudenti difficilmente possono tollerare», ed infatti in nessuna parte del mondo (fatta eccezione di alcune sette divote) si sopportano con calma le ingiurie, o, a più forte ragione, le percosse. Ma la natura c’insegna di non andar al di là d’una rappresaglia equivalente all’offesa, non ci dice mica di punir colla morte colui che ci accusasse di menzogna, di stupidità, o di codardia. L’antica massima tedesca: «Ad uno schiaffo con uno stile» è un pregiudizio cavalleresco che muove a sdegno. In qualunque caso si è alla collera che tocca rendere o vendicare le offese, e non all’onore od al dovere, ai quali il principio dell’onore cavalleresco ne impone l’obbligo. È certo d’altronde che un rimprovero non offende che nella misura con cui ci colpisce; ciò che lo prova si è che la più piccola allusione, che batta giusto, ferisce molto più profondamente di un’accusa assai più grave ma che non sia fondata. Per conseguenza chiunque ha la coscienza sicura di non aver meritato un rimprovero, può disdegnarlo e non gliene calerà. Il principio dell’onore invece gli impone di mostrare una irritazione che non prova e di vendicare col sangue offese che non lo hanno colpito. Eppure è veramente aver pochissima opinione del proprio valore il cercar di soffocare ogni parola che mostrasse di metterlo in dubbio! La vera stima di sè stesso darà la calma ed il disprezzo reale delle ingiurie; in mancanza di essa, la prudenza e la buona educazione ci comandano di salvare l’apparenza e di dissimulare la nostra collera. Se inoltre noi giungessimo a spogliarci dal pregiudizio del principio cavalleresco; se nessuno più ammettesse che un insulto fosse capace di togliere o di restituire checchessia all’onore; se si fosse convinti che un torto, una brutalità, una villania non possono essere giustificati all’istante colla sollecitudine che si vorrà mettere a darne soddisfazione, cioè a battersi, allora ognuno arriverebbe a comprendere che quando si tratta d’invettive e d’ingiurie, si è il vinto che sorte vincitore dal combattimento, e che, come dice Vincenzo Monti, delle ingiurie avviene lo stesso come delle processioni sacre, le quali ritornano sempre al loro punto di partenza. Allora non basterebbe più, come attualmente, spacciare una insolenza per mettere il diritto dalla nostra parte; allora il senno e la ragione avrebbero ben altra autorità, mentre oggidì devono, prima di parlare, vedere se non urtano in checchessia l’opinione delle menti meschine e degli imbecilli che irrita ed allarma già la loro sola apparizione, che altrimenti l’intelligenza può trovarsi nel caso di giuocare in un colpo di dadi, la testa ove risiede contro il cervello grossolano ove è alloggiata la stupidità. Allora la superiorità intellettuale occuperebbe realmente nella società il primo posto che gli è dovuto e che si dà oggi, benchè in modo mascherato, alla superiorità fisica ed al coraggio alla ussara; di più allora vi sarebbe, per gli uomini eminenti, un motivo di meno per fuggire la società, ciò che fanno attualmente. Un mutamento tanto radicale farebbe nascere il vero bon ton e fonderebbe la vera buona società nella forma in cui, senza dubbio, ha esistito a Roma, a Corinto ed in Atene. A chi volesse averne saggio raccomando di leggere il Banchetto di Senofonte. L’ultimo argomento in difesa del codice cavalleresco sarà senza dubbio concepito così: «Andiamo dunque! ma allora un uomo potrebbe, Dio ce ne guardi, percuotere un altro!» A ciò potrei rispondere, senza frasi reboanti, che il caso si è presentato ben di frequente in quei 999/1000 della società presso i quali tale codice non è ammesso, senza che un solo individuo ne sia morto, mentre che presso coloro che ne seguono i precetti, ogni percossa, per regola, diventa una faccenda mortale. Ma voglio esaminare la questione più in dettaglio. Io mi sono molto di sovente affaticato la mente per trovare nella natura animale od intellettuale dell’uomo una qualche ragione valida od anche solamente plausibile, fondata non su semplici modi di dire, ma su nozioni distinte, una qualche ragione, ripeto, che possa giustificare la convinzione, profondamente radicata in una parte della specie umana, che una percossa è una orribile cosa: tutte le mie ricerche riescirono vane. Una percossa non è e non sarà mai che un piccolo male fisico che ogni uomo può cagionare ad un altro, senza provare con ciò altra cosa se non che egli è più forte o più destro, oppure che l’altro non stava in guardia. Dall’analisi di più non abbiamo. Inoltre io vedo questo stesso cavaliere per il quale, una percossa ricevuta dalla mano di un uomo sembra il più grande di tutti i mali, ricevere un colpo dieci volte più forte dal suo cavallo ed assicurare, trascinando la gamba e dissimulando il dolore, che non è niente. Allora ho supposto che ciò dipendesse dalla mano dell’uomo. Vedo però il nostro cavaliere in un combattimento, ricever dalla mano di un uomo colpi di punta e di taglio ed assicurare ancora che sono bagattelle di cui non vale la pena di parlare. Imparò inoltre che i colpi di lama piatta non sono a un dipresso tanto terribili come i colpi di bastone, sicchè molto di recente gli allievi delle scuole militari erano ancora passibili dei primi, e giammai degli altri. Ma v’ha di più: nella iniziazione di un cavaliere il colpo col piatto della lama è un grandissimo onore. Ed ecco esauriti tutti i miei motivi psicologici e morali; ora non mi resta più che a considerare la cosa come un’antica superstizione, profondamente radicata, come un nuovo esempio, a lato di tanti altri, di quanto si può dare ad intendere agli uomini. Ciò che è provato anche dal fatto ben noto che in China i colpi di bastone sono una punizione civile impiegata assai frequentemente anche riguardo a funzionarî d’ogni grado; la qual cosa dimostra che colà la natura umana, pur anco fra le persone più civili, non parla comeda noi. Inoltre un esame imparziale della natura umana c’insegna che il battere è tanto naturale all’uomo quanto il mordere agli animali carnivori e il dar colpi di testa alle bestie cornute; l’uomo è, propriamente parlando, un animale percuotitore. Per questo siamo mossi a sdegno quando sentiamo che un uomo ha morsicato un altro uomo: dare o ricever colpi invece è per esso un effetto tanto naturale quanto frequente. Si comprende facilmente come le persone d’una educazione finita cerchino di sottrarsi a tali effetti dominando reciprocamente la loro naturale inclinazione. Ma havvi invero della crudeltà nel voler far credere ad una intera nazione, od anche solo ad una classe d’individui, che ricevere una percossa sia una disgrazia spaventevole, che dev’essere seguita dall’omicidio. Ci sono troppi veri mali a questo mondo perchè sia permesso d’aumentarne il numero e crearne d’immaginarî che ne portano pur troppo di reali seco loro, ciò che fa tuttavia questo sciocco e scellerato pregiudizio. Come conseguenza io non potrei che disapprovare quei governi e quei corpi legislativi che gli vengono in aiuto affaticandosi con ardore per far abolire, tanto nel codice civile che nel militare, le punizioni corporali. Così facendo essi credono di agire nell’interesse dell’umanità, quando, al contrario, lavorano così a consolidare questo traviamento snaturato e funesto a cui sono già state sacrificate tante vittime. Per ogni colpa, salvo le più gravi, infliggere alcune bastonate è la punizione che nell’uomo si presenta per prima alla mente; dunque è la più naturale; chi non si sottomette alla ragione, si sottometterà ai colpi. Punire con una leggera bastonatura colui che non può esser colpito nelle ricchezze quando non ne ha, e che non può esser privato della libertà, quando si ha bisogno de’ suoi servigi, è un atto tanto giusto quanto naturale. Perciò non viene presentata alcuna buona ragione contro questo principio; gli oppositori si contentano d’invocare la dignità dell’uomo, maniera di parlare che non si appoggia sopra una nozione veramente chiara, ma ancora e sempre sul fatale pregiudizio di cui abbiamo parlato più in alto. Un fatto recente dei più comici viene a confermare tale stato di cose: molti Stati hanno or ora sostituito nell’armata le stangate alle bastonate; le stangate come ogni altro colpo, producono senza dubbio un dolore fisico, e nondimeno sono tenute per non infamanti, né disonoranti. Stimolando così il pregiudizio che ci tien servi, s’incoraggia nello stesso tempo il principio dell’onore cavalleresco e quindi del duello, mentre d’altra parte si fanno sforzi, o piuttosto si pretende di sforzarsi per abolire colle leggi il duello21. Così vediamo questo frammento del diritto del più forte, trasportato attraverso il tempo dal medio-evo al XIX secolo, fare oggi ancora scandalosa mostra di sè in pieno giorno; è tempo alla fin fine di cacciarlo vergognosamente. Oggidì, quando è proibito di addestrare con metodo cani e galli a battersi gli uni contro gli altri (in Inghilterra almeno questi combattimenti sono puniti), ci è dato veder creature umane eccitate loro malgrado a lotte mortali: si è da questo ridicolo pregiudizio, da questo principio assurdo dell’onore cavalleresco, si è da questi stupidi rappresentanti e da questi campioni che, per la prima bagattella insorta, viene imposto agli uomini l’obbligo di battersi fra loro come gladiatori. Propongo ai nostri puristi tedeschi di rimpiazzare la parola duell, derivata probabilmente non dal latino duellum, ma dallo spagnuolo duelo (danno, querela, pena), colla parola Ritterhetze (lotta di cavalieri, come si dice lotta di galli o di bull-dogs). Si ha certamente amplio soggetto al riso nel vedere le formalità pedanti con cui si compiono tutte queste follie. Non si è per ciò meno mossi a sdegno, riflettendo che questo principio, col suo codice assurdo, costituisce nello Stato uno Stato che, non riconoscendo altro diritto se non quello del più forte, tiranneggia le classi sociali che sono sotto il suo dominio collo stabilire un tribunale permanente della Santa- Vehme; ognuno può esser citato da chichessia a comparirvi; i motivi della citazione, facili a trovare, fanno l’officio di sbirri del tribunale, e la sentenza pronunzia la pena di morte contro le due parti. È questo naturalmente il rifugio dal fondo del quale l’individuo più spregevole, alla sola condizione di appartenere alle classi soggette alle leggi dell’onore cavalleresco, potrà minacciare, od anche uccidere gli uomini più nobili e migliori, che sono precisamente quelli che odia di necessità. Poichè al giorno d’oggi la giustizia e la polizia hanno guadagnato presso a poco abbastanza autorità perchè un briccone non possa più arrestarci per la strada gridandoci: la borsa o la vita!, sarebbe tempo che il buon senso assumesse altrettanta autorità affinchè la prima canaglia venuta non possa più venirci a turbare nel bel mezzo della nostra esistenza più pacifica esclamando: l’onore o la vita! Bisogna finalmente liberare le classi superiori dal peso che le opprime, bisogna affrancarci tutti dall’angoscia di sapere che possiamo ad ogni momento essere chiamati a pagare colla nostra vita la brutalità, la rozzezza, la balordaggine o la cattiveria di tale individuo cui avrà piaciuto scaricarla contro di noi. È ingiusto, è vergognoso che due giovani inesperti e senza cervello sieno tenuti ad espiare col loro sangue la più piccola contesa. Ecco un fatto che prova a quale altezza si sia levata la tirannia di questo Stato nello Stato, ed a qual punto sia arrivato il potere di questo pregiudizio: si è visto spesso persone uccidersi per la disperazione di non aver potuto ristabilire il loro onore cavalleresco offeso, sia perché l’offensore era di troppo alta o di troppo bassa condizione, sia per tutt’altra causa di disproporzione che rendeva il duello impossibile; una tal morte non è proprio tragicomica? Tutto quanto è falso ed assurdo si rivela alla fine per ciò che, giunto al suo sviluppo perfetto, porta come fiore una contraddizione; egualmente nel caso nostro la contraddizione sboccia sotto la forma della più ingiusta antinomia; infatti il duello è proibito all’ufficiale, e nondimeno questi è punito colla destituzione se, dandosene il caso, si rifiutasse di battersi. Poichè ci sono, voglio andare ancora più avanti col mio parlar franco. Esaminata con cura e senza prevenzioni, la grande differenza, che si fa risuonare tanto forte, tra l’uccidere il proprio avversario in una lotta alla piena luce del sole e ad armi eguali oppure in un agguato, è fondata semplicemente su quanto abbiamo già detto che cioè questo Stato nello Stato non riconosce altro diritto che quello del più forte e ne fa la base del suo codice dopo averlo elevato all’altezza di un giudizio di Dio. Infatti, ciò che si chiama un combattimento leale non prova altra cosa se non che si è o il più forte o il più abile. La giustificazione che si cerca colla pubblicità del duello presuppone dunque che il diritto del più forte sia realmente un diritto. Ma la circostanza che il mio avversario sa difendersi male mi dà effettivamente la possibilità, e non il diritto di ucciderlo; questo diritto, altrimenti detto la mia giustificazione morale, non può derivare che dai motivi che io ho di togliergli la vita. Ammettiamo ora che questi motivi esistino e che sieno soddisfacenti; allora non v’ha più alcuna ragione di cercar prima chi di noi due maneggia meglio la pistola o la spada, allora è indifferente che io lo uccida in tale o tal’altra maniera, per davanti o per di dietro. Perocchè, moralmente parlando, il diritto del più forte non ha più peso del diritto del più scaltro, ed è di quest’ultimo che si fa uso quando si ammazza a tradimento: qui il diritto del pugno vale esattamente il diritto della testa. Osserviamo inoltre che anche nel duello sono messi in pratica i due diritti, perchè ogni finta nella scherma è un inganno. Se io mi credo moralmente autorizzato a toglier la vita ad un uomo, farei una sciocchezza col rimettermi alla sorte s’egli sapesse maneggiare le armi meglio di me, perocchè in questo caso sarà lui che dopo avermi offeso mi ucciderà per soprammercato. Rousseau è d’avviso che bisogna vendicar un’offesa non col duello, ma coll’assassinio; egli presenta tale sua opinione con molte precauzioni nella 21.a nota, concepita in termini così misteriosi, del IV libro dell’Emilio. Ma egli è ancora così fortemente imbevuto dal pregiudizio cavalleresco che considera il rimprovero d’una menzogna come giustificazione dell’assassinio, mentre dovrebbe sapere che ogni uomo ha meritato questo rimprovero innumerevoli volte, egli stesso per primo ed al più alto grado. È evidente che il pregiudizio che autorizza ad uccidere l’offensore a condizione che il combattimento succeda di pieno giorno e ad armi eguali, considera il diritto della forza come se fosse realmente un diritto, e il duello come un giudizio di Dio. Almeno l’italiano che bollente di collera assalta senza complimenti, a colpi di coltello, l’uomo che lo ha offeso, agisce in modo logico e naturale: egli è più scaltro, ma non più cattivo del duellista. Se si volesse oppormi che ciò che mi giustifica dell’uccisione del mio avversano in duello si è che da parte sua egli cerca di fare altrettanto, risponderei che provocandolo l’ho messo nel caso di legittima difesa. Mettersi così mutuamente e con intenzione nel caso di legittima difesa non significa altro, in conclusione, se non cercare un pretesto plausibile per l’omicidio. Si potrebbe meglio trovare una giustificazione nella massima: «Volenti non fit injuria» (Non si fa torto a chi v’acconsente), poichè si è di comune accordo che si rischia la vita; ma a ciò si potrebbe replicare che volens non è parola esatta, perocchè la tirannia del principio dell’onore cavalleresco e del suo codice assurdo è l’alguazilo che ha trascinato i due campioni, o per lo meno uno di essi, davanti questo tribunale sanguinario della Santa-Vehme. Mi sono fermato a lungo sull’onore cavalleresco, ma lo feci con una buona intenzione e perchè la filosofia è l’Ercole che solo può combattere sulla terra le mostruosità morali ed intellettuali. Due cose principalmente distinguono lo stato della società moderna da quello della società antica, e ciò a detrimento della prima a cui danno una tinta seria, tetra, sinistra da cui non era velata l’antichità, ciò che la fa apparir candida e serena come il mattino della vita. Queste due cose sono: il principio dell’onor cavalleresco e la sifilide, par nobile fratrum. A loro due hanno avvelenato νεἰκος και φιλία della vita (i contrasti e le amicizie della vita). Infatti l’influenza della sifilide è molto più estesa che non sembri a prima vista per ciò che tale influenza non è solamente fisica ma anche morale. Dappoichè la faretra d’amore porta anche freccie avvelenate s’è introdotto nelle mutue relazioni dei sessi un elemento eterogeneo, ostile, direi quasi diabolico, il quale fa che esse sieno pregne d’una tetra e paurosa diffidenza: gli effetti indiretti d’una tale alterazione nel fondamento d’ogni comunità umana si fanno sentire egualmente, a gradi diversi, in tutte le altre relazioni sociali; ma la loro analisi dettagliata mi trarrebbe troppo lungi. Analoga, benchè di tutt’altra natura, è l’influenza del principio d’onore cavalleresco, questa forza di grave conseguenza che rende la moderna società rigida, cupa ed inquieta poichè ogni parola fuggitiva vi è scrutata e discussa. Ma non è tutto. Questo principio è un Minotauro universale a cui bisogna sacrificare ogni anno un gran numero di figli di famiglie nobili, presi non in un solo Stato, come per il mostro antico, ma in tutti i paesi d’Europa. Sicchè è tempo alla fine d’attaccare coraggiosamente corpo a corpo la chimera, come ho fatto or ora. Possa il XIX secolo sterminare questi due mostri dei tempi moderni! Noi non disperiamo di vedere i medici riuscirvi circa uno di essi col mezzo della profilassia. Ma appartiene alla filosofia l’annientar la chimera raddrizzando le idee; i governi non hanno potuto aver buon esito colle leggi, che il solo ragionamento filosofico può attaccare il male nella radice. Fino a che questo avvenga, se i governi vogliono seriamente abolire il duello, e se il piccolissimo successo dei loro sforzi non dipende che dalla loro impotenza, io vengo a proporre loro una legge di cui garantisco l’efficacia e che non reclama operazioni sanguinose, nè patiboli, né forche, nè prigioni perpetue. Si tratta invece di un piccolo, di un piccolissimo rimedio omeopatico dei più facili; eccolo: «Chiunque manderà o accetterà una sfida riceverà alla chinese, di pieno giorno, davanti il corpo di guardia dodici colpi di bastone per mano del caporale; chi portò la sfida, e così pure i testimoni ne riceveranno sei cadauno. Per le conseguenze eventuali del duello succeduto si seguirà la procedura criminale ordinaria». Qualche cavaliere mi porrà forse l’obiezione che dopo aver subito un tale castigo molti «uomini d’onore» saranno capaci di bruciarsi le cervella; a ciò rispondo: Val meglio che un pazzo uccida sè stesso, piuttosto che un altro uomo. Ma so molto bene che in sostanza i governi non cercano seriamente l’abolizione dei duelli. Gli stipendi degli impiegati civili, ma sopra tutto quelli degli ufficiali (salvo nei gradi elevati) sono molto inferiori al valore di ciò che producono. Quindi si paga loro la differenza in onore. Questo è rappresentato dai titoli e dalle decorazioni, e, sotto un punto di vista più largo e più generale, dall’onore della funzione. Ora per tale onore il duello è un eccellente cavallo da maneggio il cui ammaestramento comincia già nelle Università. Si è col loro sangue che le vittime pagano il deficit dello stipendio. Per non fare alcuna ommissione ricordiamo qui ancora l’onore nazionale. È desso l’onore di tutto un popolo considerato come membro della comunità dei popoli. Questa comunità non riconoscendo altro foro che quello della forza, e ciascun membro avendo per conseguenza da difendere da sè stesso i suoi diritti, l’onore di una nazione non consiste solo nell’opinione fermamente stabilita che essa merita fiducia (il credito), ma di più che essa è abbastanza forte perchè la si tema; perciò una nazione non dovrebbe lasciar impunita la più piccola offesa ai suoi diritti. L’onore nazionale combina dunque il punto d’onore borghese col punto d’onore cavalleresco.

4. La gloria.

In ciò che si rappresenta ci resta da esaminare per ultimo la gloria. Onore e gloria sono gemelli, ma alla maniera dei Dioscuri di cui uno, Polluce, era immortale e l’altro, Castore, mortale: l’onore è il fratello mortale della gloria immortale. È evidente che ciò non si deve intendere che della gloria la più alta, della gloria vera e di buona lega, perocchè v’hanno pure molte specie effimere di gloria. Inoltre l’onore non si applica che a qualità che il mondo esige da tutti coloro i quali si trovano in condizioni simili, la gloria invece si applica a qualità che non si possono pretendere da alcuno; l’onore si riferisce a meriti che ciascuno può attribuirsi pubblicamente, la gloria a meriti che nessuno può attribuirsi da sé stesso. Mentre l’onore non va oltre i limiti in cui siamo personalmente conosciuti, la gloria, tutto all’opposto, precede nel suo volo la conoscenza dell’individuo e se la porta dietro tanto lontano quanto arriverà ella stessa. Ognuno può pretendere all’onore; alla gloria le sole eccezioni, perocchè non la si acquista che con produzioni eccezionali. Tali produzioni possono essere atti od opere: da ciò due strade per giungere alla gloria. Un animo grande sovra ogn’altra cosa ci apre la via degli atti; una mente grande ci rende capaci di seguir quella delle opere. Ciascuna delle due ha vantaggi ed inconvenienti suoi propri. La differenza capitale si è che le azioni passano, e le opere rimangono. L’azione la più nobile ha sempre un’influenza solamente temporanea, l’opera del genio invece sussiste ed agisce, benefica e nobilitante, a traverso i tempi. Delle azioni non resta che la memoria che diventa sempre grado a grado più piccola, svisata e indifferente; essa è pur anco destinata a sparire affatto se la storia non la raccoglie per trasmetterla, pietrificata, alla posterità. Le opere in cambio sono immortali da per sè stesse, e le opere scritte sopra tutto possono vivere in ogni tempo. Il nome e la memoria di Alessandro il Grande sono soli viventi oggidì; ma Platone, Aristotele, Omero ed Orazio sono presenti essi stessi, vivono ed agiscono direttamente. I Veda, colle loro Upanishadi sono là, davanti a noi; ma di tutte le azioni compite nel loro tempo, non la più piccola nozione è giunta fino a noi24 W. Un altro svantaggio delle azioni si è che esse dipendono dalla occasione che, prima di ogn’altra cosa, deve dar loro la possibilità di prodursi: d’onde risulta che la grandezza della loro gloria non è regolata unicamente dal loro valore intrinseco, ma anche dalle circostanze che danno loro importanza e splendore. La gloria delle azioni deriva inoltre, quando queste sono puramente personali, come in guerra, dalla relazione d’un piccolo numero di testimoni oculari; ora può succedere che non vi sieno stati testimoni, o che questi sieno ingiusti o mal prevenuti. D’altra parte le azioni, essendo qualche cosa di pratico, hanno il vantaggio d’esser alla portata delle facoltà che intendono e giudicano presso tutti gli uomini; perciò si rende loro immediatamente giustizia non appena i dati sono esattamente prodotti, a meno che tuttavia i motivi non ne possano esser nettamente conosciuti o giustamente apprezzati che più tardi, perocchè, per ben comprendere un’azione, bisogna conoscerne il motivo. Per le opere la cosa è affatto diversa; la loro produzione non dipende dall’occasione, ma unicamente dal loro autore, ed esse restano quello che sono in sè stesse e da per sé stesse per quanto a lungo durino. Qui, in cambio, la difficoltà consiste nella facoltà di giudicarle, e la difficoltà è tanto più grande quanto più le opere sono di qualità eminente; di sovente mancano giudici competenti; di sovente pure mancano giudici imparziali ed onesti. Di più non è un tribunale solo che decide della loro gloria, havvi sempre luogo ad appello. Infatti se, come abbiamo detto, la memoria delle azioni giunge alla posterità sola, e quale i contemporanei l’hanno trasmessa, le opere al contrario vanno ai posteri da per sè stesse, e quali sono, salvo i frammenti perduti: qui dunque non v’ha la possibilità di snaturare i dati, e se al loro apparire l’ambiente ha potuto esercitare qualche influenza dannosa, questa più tardi sparisce. Anzi, per meglio dire, si è il tempo che produce, uno ad uno, il piccolo numero di giudici veramente competenti, chiamati, come esseri eccezionali quali sono, a giudicarne di più eccezionali ancora: eglino depongono successivamente nell’urna i loro voti significativi, e con ciò si stabilisce, qualche volta dopo secoli, un giudizio pienamente fondato e che il progredire del tempo non può invalidare. Si vede quindi che la gloria delle opere è assicurata, infallibile. Occorre un concorso di circostanze esterne ed un azzardo perchè l’autore arrivi alla gloria durante la vita; il caso sarà tanto più raro quanto più il genere delle sue opere sarà difficile ed elevato. Perciò Seneca ha detto (Ep. 79), in un linguaggio incomparabile, che la gloria segue tanto infallantemente il merito quanto l’ombra il corpo, benchè essa cammini, come l’ombra, ora davanti ed ora di dietro. Dopo aver sviluppato questa idea egli aggiunge: «Ancorchè l’invidia imponesse silenzio su di te a tutti i viventi verrà chi giudicherà senza odio, senza amore;» questo passo ci mostra nel tempo stesso che l’arte di soffocare malignamente i meriti col silenzio e con una finta ignoranza, allo scopo di nascondere al pubblico ciò che è buono a profitto di ciò che è cattivo, è stata già messa in pratica dalla canaglia fin dall’epoca di Seneca, come lo si fa dalla canaglia ai nostri giorni, e che all’una e all’altra è l’invidia che chiude la bocca. D’ordinario la gloria è tanto più tardiva quanto più sarà durevole, perocchè tutto ciò che è squisito matura adagio. La gloria chiamata ad esser eterna è pari alla quercia che cresce lentamente dal seme; la gloria facile, effimera somiglia alle piante annuali, rapide a crescere; in quanto poi alla gloria falsa essa è come quelle cattive erbaccie che nascono a vista d’occhio e che si cerca in tutta fretta di estirpare. E questo perchè quanto più un uomo appartiene alla posterità, o con altre parole all’umanità intiera in generale, tanto più è straniero alla sua epoca; perocchè ciò che egli crea non è destinato specialmente a questa come tale, ma come parte dell’umanità collettiva; perciò queste opere non essendo tinte del color locale del loro tempo, succede ben di sovente che i contemporanei le lascino passare inosservate. Ciò che costoro apprezzano sono piuttosto le opere che trattano delle cose fuggevoli del giorno, o che servono al capriccio del momento; queste appartengono loro completamente, vivono e muoiono con essi. Così la storia dell’arte e della letteratura c’insegna generalmente che le più alte produzioni della mente umana sono state accolte, di regola, con disfavore e sono rimaste in abbandono disdegnate fino al giorno in cui spiriti elevati, attratti da esse, hanno riconosciuto il loro valore ed hanno assegnato loro una considerazione che da quel momento conservarono costantemente. In ultima analisi tutto questo ha fondamento sul fatto che ciascuno non può realmente comprendere ed apprezzare se non quanto gli è omogeneo. Ora l’omogeneo per l’uomo d’ingegno limitato si è ciò che è limitato; per l’uomo triviale ciò che è triviale; per una mente vasta ciò che è vasto, e per l’insensato l’assurdo; quello che ciascuno preferisce è l’opera sua propria, essendo cosa della stessa natura. Già il vecchio Epicarmo, il poeta favoloso, cantava così: «Non è cosa ammirabile ch’io parli così, e che un simile piaccia al suo simile, e gli sembri esser nato bello; imperocchè il cane par cosa bellissima al cane, ed il bue al bue, l’asino all’asino sembra una maraviglia, il porco al porco». Val bene la pena di tradurre questi versi, affinchè quanto esprimono non sia perduto per nessuno. Lo stesso braccio più vigoroso quando lancia un corpo leggero, non può comunicargli abbastanza moto perchè vadi lontano e colpisca fortemente; il corpo cadrà inerte da vicino perchè, mancando di massa materiale propria, non può ricevere forza dall’esterno; tale sarà la sorte dei pensieri grandi e belli, dei capolavori del genio, quando, per esser compresi, non incontrano che cervelli piccoli, teste deboli o balzane. Ecco quanto i saggi di tutti i tempi hanno ad una voce e senza posa deplorato. Gesù, figlio di Sirach, per esempio dice: «Chi parla ad uno stolto parla ad un addormentato; quando ha finito di parlare l’altro domanda: che hai?» — In Amleto: «Un discorso sagace dorme nell’orecchio di uno sciocco». — Goethe a sua volta: «La parola più felice perde il suo valore quando chi l’ascolta ha l’orecchio di traverso». Ed anche: «Tu non puoi agire, tutto sta inerte (ottuso); non te ne affliggere! Il sasso gettato nella palude non fa cerchî». Ecco Lichtenberg: «Quando una testa ed un libro urtandosi danno un suono fesso, dipende ciò sempre dal libro?» Lo stesso autore disse altrove: «Tali opere sono specchi; quando vi si mira una scimmia non possono riflettere le sembianze d’un apostolo». Riportiamo pure il bello e toccante lamento del vecchio papà Gellert, che ben lo merita: «Quante volte le migliori qualità trovano scarsi ammiratori, e quante volte la maggior parte degli uomini prende il cattivo per buono! È questo un male che si vede ogni giorno. Ma come evitare tale pestilenza? Dubito che questa calamità possa esser bandita dal mondo. Non vi sarebbe a tal uopo che un solo mezzo sulla terra, ma è infinitamente difficile: che cioè i matti diventassero savi. Ma che! Ciò non sarà mai. Essi non conoscono il valore delle cose, giudicano cogli occhi, non colla ragione. Lodano costantemente ciò che è vile perchè non hanno mai conosciuto il buono.» A questa incapacità intellettuale degli uomini la quale fa che, come disse Goethe, sia meno raro veder nascere un’opera eminente che non di vederla conosciuta ed apprezzata, viene ad aggiungersi ancora la loro perversità morale che si manifesta coll’invidia. Perocchè colla gloria che si acquista, havvi un uomo di più che si leva sopra gli altri della sua specie; costoro sono dunque abbassati altrettanto, di modo che ogni merito straordinario ottiene la sua gloria a spese di coloro che non hanno meriti: «Quando noi rendiamo onore agli altri dobbiamo abbassar noi stessi», scrive Goethe (W. O. Divan). Ecco ciò che spiega perchè, non appena appare un’opera superiore, di qual genere non importa, tutte le innumerevoli mediocrità fanno alleanza, e congiurano per impedirle che sia conosciuta e per soffocarla se è possibile. Loro tacita parola d’ordine si è: «abbasso il merito». Coloro stessi che hanno meriti e che sono già al possesso della lor parte di gloria, non vedono volentieri sorgere una gloria novella di cui lo splendore diminuirà d’altrettanto lo splendore della gloria loro. Goethe stesso ha detto: «Se per nascere avessi atteso che mi si dasse la vita, non sarei ancora di questo mondo; potete ben comprenderlo vedendo come si arrabattano coloro che, pur di parer qualche cosa, mi rinnegherebbero volentieri». Sicchè, mentre l’onore trova molto di sovente giudici retti, mentre l’invidia non lo attacca e lo si accorda anzi ad ognuno per antecipazione od a credenza, la gloria, tutto al contrario, deve esser conquistata con seria lotta, a dispetto dell’invidia, ed è un tribunale di giudici decisamente sfavorevoli che decreta la palma. Possiamo e vogliamo divider l’onore con tutti, ma la gloria acquistata da un altro diminuisce la nostra o ce ne rende la conquista più penosa. Inoltre la difficoltà d’arrivare alla gloria colle opere è in ragione inversa del numero d’individui di cui si compone il pubblico dedicatosi ad esse, e ciò per motivi facili a comprendere. Sicchè la fatica è più grande per le opere che hanno per iscopo l’istruire che non per quelle che son fatte solo per dilettare. Per i lavori di filosofia la difficoltà è ancora più grande perchè l’insegnamento che promettono, dubbio da una parte, senza profitto materiale dall’altra, s’indirizza, fin da bel principio, ad un pubblico di concorrenti. Da quanto dicemmo sulle difficoltà di giungere alla gloria deriva che il mondo vedrebbe nascere molto poche opere immortali, od anche nessuna, se coloro che possono produrne non lo facessero per amore stesso di queste opere, per loro propria soddisfazione, e se avessero bisogno dello stimolante della gloria. Anzi, chiunque può produrre il buono ed il vero, e fuggire il male, sfiderà l’opinione delle masse e dei loro organi, dunque li disprezzerà. Perciò si è fatto giustamente osservare, da Osorio fra gli altri (De gloria), che la gloria fugge davanti coloro che la cercano e segue coloro che non se ne curano, perchè i primi si piegano al gusto dei loro contemporanei, mentre gli altri lo affrontano. Tanto è difficile acquistar la gloria quanto è poi facile conservarla. Anche su ciò essa è in opposizione coll’onore. Questo è accordato a tutti, anche a credito, e basta saperlo conservare. Ma l’affare è arduo perchè una sola azione vituperevole lo fa perdere irrevocabilmente. Al contrario la gloria non può realmente esser mai perduta, perocchè l’azione o l’opera che l’ha data resta sempre compita, e la gloria ne va sempre all’autore quand’anche questi non aggiungesse nuovi meriti a quelli già acquistati. Se nondimeno essa si estingue, se l’autore le sopravvive, vuol dire che si trattava di gloria falsa, vale a dire non meritata; essa proveniva da una valutazione esagerata e momentanea del merito; era una gloria del genere di quella di Hegel, di quella gloria che Lichtenberg descrive, dicendo che era stata «proclamata a suono di tromba da una brigata di amici e di discepoli e ripercossa dall’eco dei cervelli vuoti; ma come devono ridere i posteri quando un giorno, battendo alla porta di questi castelli di parole smaglianti, di questi avanzi incantevoli d’una moda svanita, di queste stanze di convenzioni finite, troveranno tutto, assolutamente tutto vuoto, e non un pensiero che risponda con fiducia: ENTRATE». In conclusione, la gloria è fondata su ciò che un uomo è in confronto degli altri. È dunque in essenza qualche cosa di relativo, e non può quindi avere che un valore relativo. Essa sparirebbe totalmente se gli altri divenissero ciò che è già l’uomo celebre. Una cosa non può avere un valore assoluto se non se conservando il suo prezzo in ogni circostanza; nel caso presente ciò che avrà un valore assoluto sarà dunque ciò che un uomo è per sé stesso direttamente: ecco per conseguenza la cosa che costituirà necessariamente il valore e la felicità d’un gran cuore e d’una gran mente. Ciò che v’ha di prezioso invero non è la gloria, ma il meritarsela. Le condizioni che ne rendono degni sono, per così dire, la sostanza; la gloria non è che l’accidente; questa agisce sull’uomo celebre come sintomo esterno che viene a confermare a’ suoi occhi l’alta stima ch’egli ha di sè stesso; si potrebbe dire che, simile alla luce che non diviene visibile se non riflessa da un corpo, ogni mente superiore non acquista la piena coscienza di sè che colla gloria. Ma il sintomo istesso non è infallibile, visto che esiste pure gloria senza merito, e merito senza gloria. Su questo argomento disse Lessing in modo graziosissimo: «Vi sono uomini celebri, ve ne sono che meriterebbero di esserlo». Sarebbe invero un’esistenza ben miserabile quella il cui valore o svilimento dipendesse da ciò che essa appare agli occhi altrui, e tale sarebbe la vita dell’eroe e dell’uomo di genio se il prezzo della loro esistenza consistesse nella gloria, vale a dire nell’approvazione altrui. Ogni individuo vive ed esiste prima di tutto per suo proprio conto, di conseguenza principalmente in sè e per sè stesso. Quello che un uomo è, non ne importa il come, lo è a bella prima e sopra tutto in sè stesso; se, così considerato, il valore ne è minimo vuol dire che esso è pure minimo considerato in generale. L’immagine invece del nostro essere, quale si riflette nella testa degli altri uomini, è qualche cosa di secondario, di derivato, di eventuale, non riferendosi che molto indirettamente all’originale. Inoltre le teste delle masse sono un locale troppo miserabile perchè la vera felicità vi possa trovare il suo posto. Non vi si può trovare che una felicità chimerica. Quale ibrida società non si vede riunita in questo tempio della gloria universale! Capitani, ministri, ciarlatani, espilatori, ballerini, cantanti, milionarî ed ebrei: precisamente così; i meriti di questa gente sono molto più sinceramente apprezzati, trovano molto maggior sentita stima che non i meriti intellettuali, sopra tutto quelli d’ordine superiore, che non ottengono dalla grande maggioranza che una stima sulla parola. Dal punto di vista eudemonologico la gloria non è che il boccone più raro e più squisito presentato al nostro orgoglio ed alla nostra vanità. Ma si trova una straordinaria soprabbondanza d’orgoglio e di vanità presso la maggior parte degli uomini benchè queste due condizioni sieno dissimulate; e fors’anco le s’incontra in più alto grado presso coloro che possedono, non importa a qual titolo, diritti alla gloria, e che più di sovente devono portare ben a lungo nell’animo la coscienza incerta del loro alto valore, prima d’aver occasione di metterlo alla prova e di farlo poi conoscere; fino allora essi hanno il sentimento di subire una secreta ingiustizia26. In generale, e come dicemmo in principio del capitolo, il prezzo annesso all’opinione è del tutto sproporzionato e fuor di ragione, a tal punto che Hobbes ha potuto dire in termini molto energici ma giustissimi: «Ogni piacere dell’animo, ogni soddisfazione viene dal poter avere, mettendosi a confronto cogli altri, un’alta opinione di sè stesso. (De Cive, I, 5)». Così si spiega il prezzo grandissimo che si annette alla gloria, e i sacrifizî che si fa nella sola speranza di arrivarvi un giorno: «La fama è lo sprone che spinge le menti superiori (ultima debolezza delle anime nobili) a sdegnare i piaceri ed a consacrare la loro vita al lavoro». Come anche: «Quanto è faticoso l’arrampicarsi su quelle cime ove brilla il tempio della fama». Perciò la più vanitosa di tutte le nazioni ha sempre in bocca la parola «gloria» e la considera come il motore delle grandi azioni e delle grandi opere. Solo, siccome la gloria non è incontestabilmente che il semplice eco, l’immagine, l’ombra, il sintomo del merito, e siccome in ogni caso ciò che si ammira deve valere più dell’ammirazione, ne segue che quello che rende veramente felice non sta nella gloria ma in ciò che ce la procura, nel merito stesso, o, per parlare più esattamente nel carattere e nelle facoltà che fondano il merito sia nell’ordine morale, sia nell’ordine intellettuale. Perocchè ciò che un uomo può essere di più eccellente, è necessariamente per lui stesso che deve esserlo; quanto del suo avere si riflette nella testa degli altri, quanto egli vale nella loro opinione non è per lui che accessorio e d’un interesse subordinato. Per conseguenza colui che non fa che meritare la gloria, quand’anche non la ottenga, possede ampiamente la cosa principale ed ha di che consolarsi se gli manca l’accessorio, vale a dire la gloria stessa. Ciò che rende l’uomo degno d’invidia non è l’esser tenuto per grande da quel pubblico così incapace di giudicare e di sovente così cieco, ma è l’esser grande; e neppur si è felicità suprema vedere il proprio nome passar alla posterità, bensì produrre pensieri che meritino di esser raccolti e meditati in ogni epoca. Ecco quanto non può esser tolto «των ἐφ́ ημῖν»; il resto è «τον οὔκ ἐφ́ ημῖν». Quando invece l’ammirazione stessa è l’oggetto principale, si è il soggetto che non ne è degno. Tale infatti è il caso della falsa gloria, vale a dire della gloria non meritata. Chi la possede deve contentarsene per ogni suo pasto, poichè ei non ha quelle qualità di cui questa gloria non dovrebbe esser che il sintomo, il semplice riflesso. Ma tal gloria gli verrà molto di sovente a noia: giunge finalmente il momento in cui a dispetto dell’illusione sul proprio conto che la vanità gli procura, ei sarà preso dalle vertigini su quelle altezze per cui non è fatto, od anche si risveglierà in lui un vago sospetto di non essere che di bronzo dorato; allora è preso dal timore di essere conosciuto ed umiliato come lo merita, soprattutto quando già può legger sulla fronte dei saggi il giudizio dei posteri. Ei rassomiglia ad un uomo che possiede una eredità in virtù d’un testamento falso. Il rimbombo della gloria vera, di quella gloria che vivrà a traverso i tempi che verranno, non arriva mai alle orecchie di chi ne è l’oggetto, e nondimeno lo si vede felice. Egli è che sono le facoltà eminenti a cui deve la gloria, l’agio di poterle svolgere, cioè di agire in conformità della propria natura, il poter occuparsi degli oggetti che ama o che lo dilettano, egli è tutto ciò che lo rende felice; e solo in tali condizioni sono create le opere che condurranno alla gloria. Si è dunque la sua anima grande, si è la ricchezza della sua intelligenza, l’impronta della quale nelle sue opere costringerà all’ammirazione le età future, sono queste cose che formano la base della sua felicità; vi si aggiungono ancora i suoi pensieri la cui meditazione sarà soggetto di studio e sorgente di delizia ai più nobili spiriti attraverso secoli innumerevoli. Aver meritato la gloria, ecco ciò che ne costituisce il valore e nel tempo istesso la propria ricompensa. Che lavori chiamati a gloria immortale l’abbiano qualche volta già ottenuta dai contemporanei, è tal fatto dovuto a circostanze fortuite e che non ha grande importanza. Perocchè gli uomini mancano ordinariamente di giudizio proprio, e sopra tutto non hanno le facoltà volute per apprezzare le produzioni di un ordine superiore e difficile; perciò essi seguono sempre su queste materie l’autorità altrui, e la gloria suprema è accordata di pura fiducia da novantanove ammiratori su cento. Per questo l’approvazione dei contemporanei, per quanto numerose sieno le voci loro, ha un prezzo assai basso per il pensatore; questi vi distingue solo l’eco di qualche voce che non è ella stessa che un effetto del momento. Un virtuoso si sentirebbe molto lusingato dal plauso approvatore del pubblico se sapesse che, salvo uno o due individui, l’uditorio è composto affatto da sordi, i quali per dissimulare scambievolmente la loro infermità, applaudiscono a tutta forza non appena vedono muover le mani la sola persona che ha le orecchie sane? Che sarebbe dunque s’egli sapesse pure che i capi della claque sono stati spesso comprati per procurare il più splendido successo al più infelice raschiatore di violino! Questo ci spiega perchè la gloria contemporanea subisca così di rado la metamorfosi in gloria immortale: d’Alembert espone la stessa idea nella sua magnifica descrizione del tempio della gloria letteraria: «L’interno del tempio non è abitato che dai morti che non vi erano mentre vivevano, e da pochi viventi che sono messi alla porta, nella maggior parte, non appena hanno cessato di vivere». Strada facendo possiam dire che elevare un monumento ad un uomo ancora in vita è lo stesso che dichiarare che su quanto lo concerne non si ha fidanza nella posterità. Quando ad onta di tutto un uomo arriva durante la vita ad una gloria che le generazioni future confermeranno, ciò non succederà mai se non in età avanzata; v’ha bene qualche eccezione a questa regola in favore degli artisti e dei poeti, ma molto di rado per i filosofi. I ritratti di uomini celebri per le loro opere, fatti generalmente in un’epoca in cui la loro celebrità era già stabilita, confermano la regola precedente; essi ce li presentano ordinariamente vecchi e canuti, sopratutto i filosofi. Tuttavia dal punto di vista eudemonologico la cosa è perfettamente giustificata. Aver gloria e gioventù in una volta sarebbe troppo per un mortale; la nostra esistenza è così povera che i suoi beni devono essere ripartiti con più risparmio. La gioventù possede abbastanza ricchezze sue proprie; essa può tenersene paga. Si è nella vecchiezza, quando i piaceri e le gioie sono morte, come gli alberi durante la fredda stagione, che l’albero della gloria viene a germogliare molto a proposito, come verdura d’inverno; si può anche paragonare la gloria a quelle pere tardive che si sviluppano nell’estate, ma che non sono mangiate che d’inverno. Non havvi più bella consolazione per il vegliardo che di vedere tutta la forza de’ suoi giovani anni incorporarsi in opere che non invecchieranno come la sua gioventù. Esaminiamo ora più davvicino la strada che conduce alla gloria colle scienze, essendo queste maggiormente a nostra portata; a loro riguardo potremo stabilire la regola seguente. La superiorità intellettuale di cui fa testimonianza la gloria scientifica si manifesta sempre per una combinazione nuova di certi dati. Questi possono essere di specie assai differenti, ma la gloria annessa alla loro combinazione sarà tanto più grande e più estesa quanto più essi stessi saranno più generalmente conosciuti e più accessibili a tutti. Se questi dati sono, per esempio, cifre, linee curve, questioni speciali di fisica, di zoologia, di botanica o di anatomia, passi corrotti di antichi autori, iscrizioni quasi cancellate o di cui ci manca l’alfabeto, o punti oscuri della storia, in tutti questi casi la gloria che si acquisterà nel combinarli giudiziosamente non si estenderà più lontano della conoscenza stessa di tali dati e per conseguenza non oltrepasserà il cerchio d’un piccolo numero di uomini che d’ordinario vivono ritirati, e che sono gelosi della gloria nella loro speciale professione. Se invece i dati sono di tale specie che tutto il mondo conosce, per esempio sulle facoltà essenziali ed universali della mente o del cuore umano, oppure sulle forze naturali la cui azione succede costantemente sotto i nostri occhi, od anche sull’andamento, noto a tutti, della natura in generale, allora la gloria di averli messi maggiormente in luce con una combinazione nuova, importante ed evidente, si spargerà col tempo quasi da per tutto fra l’umanità civilizzata. Perocchè se i dati sono accessibili a tutti, lo sarà pure in generale la loro combinazione. Nondimeno la gloria starà sempre in rapporto colle difficoltà che saranno da superare per conquistarla. Infatti quanto più gli uomini, a cui i dati sono famigliari, saranno numerosi, tanto più sarà difficile combinare questi dati in modo nuovo e giusto ad un tempo, poichè una infinità di menti vi si saranno già provate ed avranno esaurito ogni possibile risultato. In cambio i dati inaccessibili al pubblico volgare, la conoscenza dei quali non si acquista che con lunghe e faticose ricerche, ammetteranno ancora ben di sovente una nuova combinazione; studiandoli con mente fredda e con sano criterio, si può con facilità aver la sorte di arrivare a cose inaspettate e tuttavia razionali. Ma la gloria così ottenuta avrà, presso a poco, per limite il cerchio stesso della conoscenza di questi dati. Perocchè la soluzione dei problemi di siffatta natura esige per verità molto lavoro e molto studio; d’altra parte i dati per i problemi della prima specie, con cui si può acquistare precisamente la gloria più alta e più vasta, sono da tutto il mondo conosciuti senza sforzo; ma se basta poca fatica per conoscerli, occorrerà tanto più talento e fors’anche il genio per combinarli. Ora non v’ha lavoro che, per valore proprio o per quello che gli si attribuisce, possa sostenere il confronto col talento o col genio. Da tutto ciò risulta che coloro i quali si sanno dotati di una ragione solida e di un raziocinio giusto, senza aver pertanto il sentimento di possedere un’intelligenza fuori dell’ordinario, non devono indietreggiare di fronte a lunghi studi ed a faticose ricerche; essi potranno con ciò levarsi sopra quegli uomini alla cui portata stanno i dati universalmente noti, e raggiungere quelle regioni discoste, che sono accessibili solamente all’attività del dotto. Imperocchè quivi il numero dei concorrenti è infinitamente più piccolo, ed una mente un po’ superiore troverà ben presto l’occasione di una combinazione nuova e razionale; il merito della sua scoperta potrà pure aver per base la difficoltà di giungere alla conoscenza dei dati. Ma la moltitudine sentirà solamente da lontano lo strepito degli applausi che questi lavori procureranno all’autore da parte de’ suoi confratelli di scienza, soli conoscitori nella materia. Seguitando fino alla fine la strada qui indicata, si può anche determinare il punto in cui i dati, per l’estrema difficoltà di acquistarli, bastano a sè stessi, senza bisogno di combinazione, per stabilire una gloria. Tali sono i viaggi in paesi molto lontani e poco visitati: così si diviene celebri per quello che si è veduto, non per quello che si è pensato. Questo sistema ha pure un grande vantaggio, il poter cioè comunicare agli altri più facilmente le cose vedute che non quelle pensate, mentre il pubblico stesso comprende le prime meglio delle seconde; si trova pure in tal modo un numero più grande di lettori. Perocchè, come disse già Asmus: «Dopo un lungo viaggio si hanno molte cose da raccontare». Ma ne risulta pure che quando si fa conoscenza personale cogli uomini celebri per siffatte gesta, si ricorda spesso l’osservazione di Orazio:

Coelum, non animum, mutant qui trans mare corrunt
(Cangiano cielo, ma non cangiano l’animo coloro che vanno al di là dei mari).
(Ep. I, 11, v. 27).

Su quanto concerne l’uomo dotato di alte facoltà, dirò che solamente chi può osare di darsi alla soluzione di quei grandi e difficili problemi che trattano di cose generali ed universali, farà bene da una parte di allargare quanto più sia possibile il proprio orizzonte, ma d’altra parte dovrà estenderlo egualmente in tutte le direzioni, senza abbandonarsi troppo addentro in qualcuna di quelle regioni speciali note solo a pochi; in altre parole, non andar troppo avanti nei dettagli speciali d’una sola scienza, e molto meno ancora far della micrologia in qualsivoglia ramo della scienza. Perchè non occorre che egli si dedichi a cose difficilmente accessibili per innalzarsi sopra la folla dei concorrenti; ciò che è alla portata di tutti gli fornirà precisamente materia a risultati nuovi, importanti e veri. Ma anzi per questo il suo merito potrà esser apprezzato da tutti coloro che conoscono i dati, vale a dire dalla maggior parte del genere umano. Ecco la ragione dell’immensa differenza tra la gloria serbata ai poeti ed ai filosofi e quella accessibile agli eruditi in fisica, chimica, anatomia, geologia, zoologia, filologia, storia ed altre scienze.

CAPITOLO V.
Parenesi e massime.

Qui meno che altrove ho la pretesa d’esser completo, che altrimenti dovrei ripetere le numerose ed in parte eccellenti regole per la vita date dai pensatori di tutte le epoche da Teognide e dal pseudo-Salomone fino a La Rochefoucault, e non potrei evitare di ripetere molte cose volgari, notissime, già ampiamente trattate. Ho pure rinunziato quasi interamente a qualunque ordine sistematico. Che il lettore se ne consoli, perocchè in materie siffatte un trattato completo e ordinato rigorosamente sarebbe riuscito senza dubbio noiosissimo. Ho messo giù quello che mi è venuto in mente alla bella prima, quello che mi parve degno d’esser comunicato, e quello che, per quanto me ne ricordava, non era ancora stato detto, od almeno non era stato detto così completamente, e sotto questa forma; non faccio dunque che spigolare nel vasto campo ove altri ha già mietuto. Tuttavia per mettere un po’ d’ordine nella grande varietà d’opinioni e di consigli relativi al mio soggetto, li classificherò in massime generali ed in massime concernenti la nostra condotta verso noi stessi da prima, poi verso gli altri e finalmente di faccia all’andamento delle cose ed alla sorte in questo mondo.

1. Massime generali.

1.° Considero regola suprema d’ogni saggezza nella vita la proposizione espressa da Aristotele nella Morale a Nicomaco (VII, 12): «ὁ φρονιμος το αλυπον διωκει, ου το ἡδυ,» ciò che si può tradurre: Il saggio cerca l’assenza del dolore, non il piacere. La verità di tale sentenza è basata sul fatto che ogni piacere ed ogni felicità sono negativi per natura, mentre è positivo il dolore. Ho svolta e provata questa tesi nella mia opera principale, vol I, § 58. Voglio nondimeno spiegarla ancora con un fatto d’osservazione giornaliera. Quando il nostro corpo tutto intero è sano ed intatto, salvo una piccola parte ferita o dolorosa, la coscienza cessa dal sentire la salute del tutto; l’attenzione si dirige interamente sul dolore della parte lesa, ed il piacere, determinato dal sentimento totale dell’esistenza, sparisce. Similmente quando tutti i nostri affari vanno a gonfie vele, salvo uno solo che riesce a male, si è proprio questo, fosse pure di minima importanza, che ci gira continuamente per il cervello, si è su questo che si portano sempre i nostri pensieri, e di rado su altre cose di maggior rilievo che vanno a seconda dei nostri desideri. In ambo i casi è lesa la volontà, la prima volta come si oggettiva nell’organismo, la seconda negli sforzi dell’uomo; noi vediamo nei due casi che il suo soddisfacimento è sempre negativo, e che per conseguenza non è provato direttamente dall’individuo intero; tutto al più arriverà alla coscienza per riflessione. Ciò che v’ha di positivo invece si è l’impedimento della volontà, il quale si manifesta pure direttamente. Ogni piacere consiste nel sopprimere tale impedimento, nel liberarsene, e non può esser quindi che di breve durata. Ecco dunque ov’è basata l’eccellente regola d’Aristotele or ora citata, d’aver cioè da dirigere la nostra attenzione non sulle gioie e sui divertimenti della vita, ma sui mezzi di sfuggire per quanto è possibile ai mali innumerevoli di cui è seminata. Se questa via non fosse la vera, l’aforismo di Voltaire: «La felicità non è che un sogno e il dolore è reale» sarebbe così falso come è giusto in realtà. Però quando si vuole far il bilancio della propria esistenza dal punto di vista eudemonologico bisogna stabilire le partite non sui piaceri gustati, ma sui mali a cui si potè sottrarsi. Inoltre l’eudemonologia, vale a dire un trattato sulla vita felice, deve cominciare dall’insegnarci che il suo nome stesso è un eufemismo, e che per «vita felice» bisogna intender solo una «vita meno infelice», in poche parole un’esistenza sopportabile. E infatti havvi la vita non perchè se ne goda, ma perchè la si subisca, perchè si soddisfi ai doveri che impone; ciò che indicano molto bene le espressioni: «degere vitam, vitam defungi» in latino; «si scampa così28» in italiano; «man muss suchen durchzukommen», «er wird schon durch die Welt kommen» in tedesco, ed altre simili. Sì! è una consolazione per la tarda età l’aver dietro di sè una vita laboriosa. L’uomo più felice è dunque colui che conduce un’esistenza senza dolori troppo forti sia nel morale, sia nel fisico, e non colui che ebbe per sua parte le gioie più vive ed i piaceri più grandi. Voler misurare su questi la felicità di un’esistenza si è ricorrere ad una scala falsa. Perocchè i piaceri sono e rimangono negativi: credere che essi rendano felici è una illusione che l’invidia tien viva e colla quale punisce sè stessa. I dolori invece sono sentiti positivamente, ed è la loro assenza che forma la scala della felicità nella vita. Se ad uno stato libero dal dolore viene ad aggiungersi ancora l’assenza della noia, allora si raggiunge sulla terra la felicità in ciò che v’ha di essenziale, perocchè il resto non è più che una chimera. Ne segue che non bisogna mai procurarsi piaceri a prezzo di dolori, anzi nemmeno a prezzo della loro sola minaccia, visto che sarebbe pagare cose negative e chimeriche con cose positive e reali. In cambio havvi vantaggio nel sacrificare i piaceri allo scopo di evitare dolori. Nell’uno e nell’altro caso è indifferente che i dolori seguano o precedano i piaceri. Non v’ha davvero maggior follia del voler trasformare questo teatro di miserie in un luogo di delizie, e dell’andar cercando gioie e piaceri in luogo di procurar di sfuggire alla maggior somma possibile di dolori. Quanta gente per altro non cade in tale follia! L’errore è infinitamente più piccolo presso colui che, con occhio troppo triste, considera questo mondo come una specie d’inferno e non si occupa se non di procurarsi una stanza a prova di fuoco. Il pazzo corre dietro ai piaceri della vita e non trova che disinganni; il saggio evita i mali. Se ad onta de’ suoi sforzi non raggiunge lo scopo, la colpa è del destino, non della sua follia. Ma per poco che vi riesca non avrà mai delusioni perchè i mali a cui sarà sfuggito sono sempre reali. Nel caso stesso in cui avesse fatto per evitarli un giro troppo grande, od avesse sacrificato inutilmente qualche piacere, egli in realtà nulla ha perduto perocchè i piaceri sono chimerici, e desolarsi per la perdita di essi sarebbe una meschinità o piuttosto una ridicolaggine. Disconoscendo tale verità in favore dell’ottimismo, la sorgente di molte calamità è aperta. Infatti, nei momenti in cui siamo liberi da dolori, inquiete brame fanno brillare a’ nostri occhi le chimere d’una felicità che non ha esistenza reale, e c’inducono ad andarne in cerca; con ciò ci procuriamo il dolore che è incontestabilmente reale. Allora rimpiangiamo quello stato franco da dolori che abbiamo perduto e che si trova ormai dietro di noi come un paradiso che abbiamo lasciato scappare, e vorremmo inutilmente che non fosse accaduto quanto noi stessi abbiamo fatto succedere. Pare così che un cattivo demonio sia costantemente occupato a toglierci coi miraggi ingannatori dei nostri desideri, da quello stato senza dolore, che è vera e suprema felicità. Il giovane s’immagina che quel mondo ch’egli non ha ancora veduto esista perchè lo si goda, che sia la sede d’una felicità positiva la quale sfugge solo a coloro che non hanno l’abilità di saperla afferrare. Lo fortificano nella sua credenza i romanzi e le poesie, e quell’ipocrisia che governa il mondo, sempre e dovunque, colle apparenze esterne. Ritornerò fra breve su tale argomento. D’ora innanzi la sua vita sarà una caccia alla felicità positiva, caccia condotta più o meno prudentemente; e questa felicità positiva è calcolata, ad un tal titolo, esser composta di piaceri positivi. In quanto ai pericoli a cui si rischia di esporsi, ebbene, che fare? bisogna bene adattarvisi! Questa caccia trascina in cerca di selvaggina che non esiste in alcun modo, e finisce d’ordinario col condurre ad una infelicità troppo reale e positiva. Dolori, sofferenze, malattie, perdite, passioni, affanni, povertà, disonore e mille altre pene, ecco sotto quali forme si presenta il risultato di essa. Il disinganno giunge sempre troppo tardi. Se invece si obbedisce alla regola da noi qui riportata, se si stabilisce il piano della propria vita in modo da evitare i dolori, vale a dire di allontanare il bisogno, le malattie ed ogni altro affanno, allora lo scopo è reale; si potrà così ottener qualche cosa, e tanto più facilmente perchè il piano sarà stato meno disturbato dalla ricerca di quella chimera che è la felicità positiva. Ciò si accorda con quello che Goethe, nelle affinità elettive, fa dire a Mittler il quale è sempre occupato della felicità degli altri: «Chi vuole liberarsi da un male sa sempre cosa vuole: invece chi cerca quello che non ha è cieco come colui che è affetto da cateratta». Queste parole ricordano il bell’adagio: «il meglio è nemico del bene» Da tutto ciò si può anche dedurre l’idea fondamentale del cinismo, come l’ho esposta nella mia grande opera, tomo II, capitolo 16°. Cosa è infatti che portava i cinici a respingere tutti i piaceri, se non il pensiero dei dolori che tosto o tardi li accompagnano? Evitare questi sembrava loro molto più importante che non procurarsi i primi. Profondamente penetrati e convinti della condizione negativa di ogni piacere e positiva di ogni dolore, essi dirigevano ogni loro sforzo allo scopo di sfuggire ai mali, e per ciò giudicavano necessario di respingere interamente ed intenzionalmente i piaceri che consideravano insidie tese per mettere l’uomo in balia del dolore. Certamente noi nasciamo tutti in Arcadia, come dice Schiller, vale a dire cominciamo la nostra vita pieni di aspirazioni alla felicità, al piacere, e coltiviamo la folle speranza di giungervi. Ma, regola generale, arriva ben presto il destino il quale ci afferra rozzamente e c’insegna che niente è nostro, che tutto è suo, nel senso che egli ha diritto incontestabile non solamente su quanto possediamo ed acquistiamo, sopra moglie e figli, ma anche sopra le nostre braccia e le nostre gambe, sopra i nostri occhi e le nostre orecchie, e perfino sopra quel naso che portiamo in mezzo alla faccia. In qualunque caso non passa gran tempo che l’esperienza verrà a farci comprendere che felicità e piacere sono una «fata morgana» la quale, visibile solo da lontano, sparisce quando la si avvicina, ma che in cambio pena e dolore hanno una realtà, e che si presentano immediatamente e per sè stessi senza prestarsi ad illusioni o ad aspettazioni lusinghiere. Se la lezione porta i suoi frutti, allora cessiamo dal correr dietro alla felicità ed al piacere, e ci mettiamo piuttosto a chiudere, per quanto è possibile, ogni accesso al dolore ed agli affanni. Conosciamo così che ciò che il mondo può offrirci di migliore si è un’esistenza senza pene, tranquilla, sopportabile e ad una tal vita limiteremo le nostre esigenze allo scopo di poterne godere più sicuramente. Perocchè per non diventare infelicissimi, il mezzo più certo si è di non domandare d’esser felicissimo. È quanto riconobbe Merck, l’amico di giovinezza di Goethe, quando scrisse: «Questa brutta pretesa alla felicità, sopra tutto nella misura in cui la sogniamo, rovina tutto in questo basso mondo. Chi può liberarsene non domandando che ciò che ha davanti a sè, potrà farsi strada nella mischia» (Corrispondenza di Merck). È dunque cosa prudente abbassare ad una misura assai modesta le proprie pretese ai piaceri, alle ricchezze, al grado, agli onori, ecc., perocchè le disgrazie più grandi sono attirate su di noi precisamente da essi, da questa lotta per la felicità, per lo splendore e per il piacere. Ma una tale condotta è già saggia ed accorta per ciò solo che è molto facile essere estremamente infelice, e che è invece, non difficile, ma affatto impossibile essere molto felice. Il cantore della saggezza ha detto con ragione: «Colui che ama un’aurea mediocrità, sta lontano, sagace, dal tetto frusto per sordidezza, sta lontano, prudente, dai palazzi che destano invidia. Più forte è scosso dai venti il pino gigante: e le alte torri cadono con più fragore: le folgori poi colpiscono le cime più elevate» (Orazio, Libro II, ode 10). Colui il quale essendosi imbevuto degli insegnamenti della mia filosofia, sa che la nostra esistenza è una cosa che dovrebbe meglio non essere e che la suprema saggezza consiste nel negarla, e nel francarsene, costui non fonderà mai grandi speranze sopra soggetto, nè situazione alcuna, non agognerà con passione ad una cosa qualunque in questo mondo, e non alzerà grandi lamenti in seguito a qualche delusione, ma conoscerà la verità di ciò che disse Platone (Rep. X, 604): «Nessuna cosa umana è degna di considerazione», e l’altra verità enunciata dal poeta persiano: «Hai tu perduto l’imperio del mondo? Non te ne affliggere; chè non è niente. Hai tu acquistato l’imperio del mondo? Non te ne rallegrare; chè non e niente. Dolore e felicità, tutto passa, passa nel mondo (nel tempo) e non è niente» (Anwari Soheili). (Si veda il motto del Gulistan di Saadi, trad. ted. di Graf.). Ciò che aumenta particolarmente la difficoltà di assimilare idee tanto saggie, si è quell’ipocrisia di cui ho parlato più sopra, e nessuna cosa sarebbe più utile che lo svelarla per tempo alla gioventù. La magnificenza è quasi sempre cosa di pura apparenza, come le decorazioni dei teatri; le manca l’essenza. Così e i vascelli ornati a festa, e i colpi di cannone, e le illuminazioni, e le musiche, e i gridi d’allegrezza, ecc., tutto ciò è l’insegna, la mostra, il geroglifico della gioia; ma il più delle volte la gioia non c’è: essa sola ha mancato d’intervenire alla festa. Laddove è presente in realtà, la gioia arriva e non si fa invitare, né annunciare, viene da sè senza cerimonie, introducendosi in silenzio, spesso per motivi i più insignificanti e i più futili, nelle occasioni più comuni, qualche volta anche in circostanze che sono tutt’altro che brillanti o gloriose. Come l’oro in Australia, essa si trova sparpagliata qua e là secondo il capriccio del caso, senza regola e senza legge, più di sovente in fina polvere, molto di raro in grandi masse. Ma pure, di tutto le manifestazioni di cui abbiamo or ora parlato, solo scopo si è il far credere agli altri che nella festa c’è la gioia, e solo intento il produrre l’illusione nel cervello altrui. Come della gioia, così della tristezza. Con quale andamento melanconico s’avanza questo lungo e lento convoglio! La fila delle vetture è interminabile. Ma guardate un po’ nell’interno: esse sono tutte vuote, e il defunto non è realmente condotto al cimitero che dai cocchieri della città. O immagine parlante dell’amicizia e della considerazione a questo mondo! Ecco quello che io chiamo falsità, vanità ed ipocrisia dell’umana condotta. Noi abbiamo anche un esempio nei ricevimenti solenni con numerosi invitati in abito da festa; questi sono l’insegna della nobile e dell’alta società: ma in luogo suo si avrà malessere, affettazione, riservatezza, noia: perocchè ove son molti convitati v’ha sempre della canaglia, fossero pure tutti i petti coperti da decorazioni. Infatti la vera buona società è, da per tutto e necessariamente, assai ristretta. In generale le feste, le solennità portano sempre con sè qualche cosa che dà un suono vuoto, o per dir meglio un suono falso, precisamente perchè contrastano colla miseria e colla povertà della nostra esistenza e perchè ogni confronto fa meglio spiccare la verità. Ma visto dal di fuori tutto ciò produce bell’effetto, e così è raggiunto lo scopo. Chamfort dice in modo graziosissimo: «La società, i circoli, i saloni, ciò che si chiama il mondo, sono una meschina commedia, un povero melodramma senza interesse che si sostiene un momento per i meccanismi, i costumi, e le decorazioni.» Le accademie e le cattedre di filosofia sono egualmente l’insegna, il simulacro esterno della saggezza; ma il più delle volte essa non è della festa, e, a cercarla, la si troverebbe in ben altri luoghi. Lo sbatacchiare delle campane, i vestimenti sacerdotali, il contegno pietoso, le smorfie da bacchettone, sono la mostra, la falsa apparenza della devozione, e così di seguito. Ed è per ciò che a questo mondo tutte le cose possono esser dette nocciuole vuote; la mandorla è rara per sè stessa, e più raramente ancora è posta nel suo guscio. Occorre cercarla in tutt’altra parte, e d’ordinario non la si trova che per caso.

2.° Quando si volesse valutare la condizione di un uomo dal punto di vista della sua felicità, bisognerebbe prender notizie non su ciò che lo diverte, ma su ciò che lo attrista, perocchè quanto più saranno insignificanti per sè stesse le cose che lo affliggono, tanto più l’uomo sarà felice; occorre un certo stato di benessere per divenir sensibile a bagattelle che nella sventura non si sentirebbero affatto.

3.° Bisogna guardarsi dallo stabilire il benessere della propria vita sopra una base larga coll’elevare alte pretese alla felicità: posto sopra un tale fondamento esso crolla più facilmente, perocchè in allora fa nascere senza fallo molte sventure. L’edificio della felicità si comporta dunque sotto tale rapporto alla rovescia degli altri che sono tanto più solidi quanto più la loro base è grande. Tenere le pretese il più basso possibile in proporzione colle proprie risorse d’ogni specie, ecco la via più sicura per evitare grandi guai. In generale è una follia delle più grandi e delle più diffuse il prendere, in qualunque maniera si sia, vaste disposizioni per la propria esistenza. Perocchè prima di tutto, per farlo, si conta sopra una durata della vita piena ed intera, a cui invece arrivano molto pochi. Inoltre quand’anche si vivesse tanto a lungo, l’esistenza sarebbe sempre troppo corta in relazione ai piani prestabiliti; la loro esecuzione reclama sempre più tempo che non si avesse supposto; essi sono talmente soggetti, come tutte le cose umane, alle vicende della sorte e ad ostacoli d’ogni natura, che si può ben di rado condurli a compimento. Finalmente anche allora che si è riusciti a conseguire tutto quello che si desiderava, si scorge che si è trascurato di tener conto delle modificazioni che il tempo produce in noi stessi; non si è riflettuto che, nè per creare nè per godere, le nostre facoltà non restano invariabili nell’intera vita. Ne risulta che lavoriamo sovente per acquistare cose che, una volta ottenute, non si trovano più adatte alla nostra taglia; succede pure che nei lavori preparatori di un’opera impieghiamo anni che nel frattempo ci tolgono le forze necessarie per arrivare a buon fine. Medesimamente le ricchezze acquistate a prezzo di lunghe fatiche e di numerosi pericoli non possono più esserci utili, e troviamo di aver lavorato per gli altri; ed avviene ancora che non siamo più in caso di occupare un posto ottenuto finalmente dopo avervi aspirato ed ambito per lunghi anni. Le cose sono giunte troppo tardi per noi, o, viceversa, siamo noi giunti troppo tardi per esse, sopratutto allorchè si tratta di opere o di produzioni; il gusto dell’epoca ha cangiato; si è maturata una nuova generazione che non prende alcun interesse a queste materie; oppure altri ci ha preceduto per strade più corte, e così di seguito. Quanto abbiamo esposto in questo terzo paragrafo era già stato compendiato da Orazio nei versi:

Quid aeternis minorem Consiliis animum fatigas?
(L. II, O. 11, v. 11 e 12).
(Perchè stanchi una mente debole con eterni progetti?)

Tale errore così comune è determinato dall’inevitabile illusione ottica degli occhi dello spirito, illusione che ci fa apparire la vita come senza fine, o come troppo corta secondo che la vediamo dall’ingresso o dal termine della nostra carriera. Essa però ha il suo buon lato: senza di lei produrremmo difficilmente qualche cosa di grande. Ma in generale ci succede nella vita ciò che succede al viaggiatore: a misura che egli avanza, gli oggetti prendono forme differenti da quelle che mostravano da lungi e si modificano per così dire di mano in mano che va loro vicino. Così avviene dei nostri desideri. Troviamo spesso ben altra cosa, qualche volta anche meglio che non cerchiamo; di sovente pure incontriamo quanto desideriamo per tutt’altra via di quella inutilmente percorsa fino allora. Certe volte laddove crediamo trovare un piacere, una gioia, una soddisfazione, in loro luogo ci si presenta un ammaestramento, una spiegazione, una cognizione, vale a dire un bene duraturo e reale che si offre a noi invece di un bene passeggero e fallace. Si è un tale pensiero che corre, come base fondamentale, a traverso tutto il Wilhelm Meister, romanzo intellettuale, superiore precisamente per ciò a tutti gli altri, anche a quelli di Walter Scott, che sono tutti solamente opere morali, ossia che non osservano la natura umana che dal lato della volontà! Nel Flauto magico, geroglifico grottesco, ma espressivo e molto significante, ci si presenta egualmente questo stesso pensiero fondamentale simbolizzato a grandi e larghi tratti come quelli delle decorazioni teatrali; il simbolo sarebbe anzi perfetto se nello scioglimento Tamino, invece d’essere spronato dal desío di posseder Tamina, non domandasse e non ottenesse che l’iniziazione nel tempio della Saggezza; in cambio Papageno, l’opposto necessario di Tamino, otterrebbe la sua Papagena. Gli uomini superiori e veramente nobili assimilano subito questo ammaestramento del destino e vi si adattano con sommessione e con riconoscenza: comprendono che a questo mondo si può bene trovare istruzione, ma non felicità; si abituano a cambiare le speranze colle cognizioni; ne vanno contenti e dicono alla fin fine col Petrarca

Altro diletto che ’mparar non provo.

Possono anche arrivare al punto di non dar seguito ai loro desideri ed alle loro aspirazioni che in apparenza per così dire, e per ischerzo, mentre in realtà e nella serietà del loro interno non attendono che all’istruzione; ciò che li adorna di una tinta pensosa, geniale e nobile. In questo senso si può dire che succede di noi come degli alchimisti, i quali mentre non cercavano che oro, hanno trovato la polvere da fuoco, la porcellana, le medicine e perfino molte leggi naturali.

2. Circa la nostra condotta verso noi stessi.

4.° Il manovale che aiuta a fabbricare un edifizio, non ne conosce il progetto, o non l’ha sempre sotto gli occhi; tale è pure la posizione dell’uomo mentre è occupato a dividere uno per uno i giorni e le ore della sua esistenza in rapporto all’insieme della sua vita ed al carattere fondamentale di essa. Quanto più questo carattere sarà nobile, considerevole, espressivo e individuale, tanto più sarà necessario e benefico per l’individuo il gettare di tempo in tempo uno sguardo sul piano prestabilito della propria vita. È vero che per ciò ei deve aver fatto già un primo passo col «conosci te stesso»: deve dunque sapere ciò che vuole realmente, principalmente e prima d’ogni altra cosa; deve conoscere quello che è essenziale alla sua felicità, e quello che viene solo in seconda o terza linea; deve rendersi conto sommariamente della sua vocazione, della parte che ha da rappresentare nel mondo, e de’ suoi rapporti colla gente. Se tutto ciò sarà importante ed elevato, allora l’aspetto del piano prestabilito della sua vita gli darà forza, lo sosterrà, lo innalzerà più che qualunque altra cosa; questo esame lo incoraggierà al lavoro e lo terrà lontano da quei sentieri che potrebbero fargli smarrire la dritta via. Solamente quando arriva sopra un’altura il viaggiatore abbraccia a colpo d’occhio e riconosce l’insieme del cammino percorso, colle sue svolte e co’ suoi giri; così pure non è che al termine d’un periodo della nostra esistenza, e qualche volta sul finir della vita, che conosciamo il vero nesso delle nostre azioni, dei nostri lavori, e delle nostre produzioni, il loro preciso legame, il loro concatenamento e il loro valore. Infatti fino a che siamo immersi nella nostra attività noi operiamo solo secondo le proprietà inconcusse del nostro carattere, sotto l’influenza dei motivi e nella misura delle nostre facoltà, vale a dire per assoluta necessità; noi non facciamo in un dato momento che quello che in quel momento ci sembra giusto e conveniente. Solamente in seguito ci sarà permesso d’apprezzare il risultato, e lo sguardo gettato sulle cose passate ci darà contezza del come e del perchè. Per questo quando compiamo le più grandi azioni, o quando diamo al mondo opere immortali, non abbiamo coscienza della loro vera natura: esse non ci sembrano che quello che v’ha di più appropriato al nostro scopo d’allora, e di meglio corrispondente alle nostre intenzioni; non riceviamo altra impressione se non quella d’aver fatto precisamente ciò che bisognava fare in quel momento; non è che più tardi che il nostro carattere e le nostre facoltà spiccano in piena luce da quell’insieme e dal suo concatenamento; per mezzo dei dettagli vediamo allora come abbiamo preso la sola vera fra tante strade false quasi per ispirazione e guidati dal nostro genio. Tutto quanto abbiamo detto or ora è vero e in teoria e in pratica, e si applica egualmente ai fatti inversi, vale a dire al male ed alla falsità.

5.° Un punto di molta importanza per la saggezza nella vita si è la proporzione con cui dobbiamo dividere la nostra attenzione tra il presente e l’avvenire affinchè l’uno non porti nocumento all’altro. V’hanno molte persone che vivono troppo nel presente: le frivole; altre troppo nell’avvenire: le timorose e le inquiete. Di rado si conserva la giusta misura. Quegli uomini che, mossi dai loro desideri o dalle loro speranze, vivono unicamente nell’avvenire, gli occhi sempre diretti in avanti, che corrono con impazienza incontro al futuro, perocchè, pensano, questo è per portar loro fra breve la vera felicità, mentre intanto lasciano passare il presente, che non curano, senza goderlo: costoro somigliano a quegli asini a cui in Italia si fa sollecitare il passo per mezzo d’un fascetto di fieno attaccato ad un bastone davanti la testa: essi vedono il fieno davanti e sempre vicino ed hanno ognora la speranza d’arrivarvi. Tali persone infatti s’ingannano da sè stesse per tutta la loro esistenza non vivendo perpetuamente che ad interim fino alla morte. Perciò invece di occuparci incessantemente ed esclusivamente di piani e di progetti per l’avvenire, o, viceversa, abbandonarci a rimpiangere il passato, dovremmo non dimenticar mai che il presente solo è reale e certo, e che l’avvenire, al contrario, si presenta quasi sempre ben diverso da quello che pensavamo, come pure fu del passato; ciò che in conclusione fa che avvenire e passato hanno molto minor importanza che non sembri. Perocchè la lontananza che impiccolisce gli oggetti per l’occhio, li ingrandisce per il pensiero. Il presente solo è vero ed effettivo; esso è il tempo realmente impiegato, e su di esso esclusivamente è fondata la nostra esistenza. Perciò deve meritar sempre agli occhi nostri benevole accoglienza; noi dovremmo gustare, con la piena coscienza del suo valore, ogni ora sopportabile e libera da affanni e da dolori attuali, vale a dire non turbarla col viso rattristato dalle speranze cadute per lo passato o dalle apprensioni per l’avvenire. Si può dare stoltezza più grande del respingere una buona ora presente o di guastarla malamente coll’inquietudine dell’avvenire o coi dispiaceri del passato? Diamo il tempo dovuto alle cure, se non al pentimento; ma poi, in quanto ai fatti compiuti, bisogna dirsi: «Abbandoniamo, benchè a malincuore, tutto ciò che è passato all’obblio; è necessario soffocar l’ira nel nostro seno.» E in quanto all’avvenire: «Tutto ciò sta sulle ginocchia degli dei». In cambio circa il presente è bene pensare come Seneca: Singulas dies, singulas vitas puta (Considera ciascun giorno come una vita separata), e rendersi questo solo tempo reale tanto gradevole quanto meglio è possibile. I soli mali futuri che devono con ragione preoccuparci sono quelli il cui arrivo ed il cui momento di arrivo sono certi. Ma v’ha ben poca gente che si trovi in questo caso, perocchè i mali sono o semplicemente possibili o tutt’al più verosimili, oppure sono certi, ma è incerto il tempo del loro arrivo. Ad allarmarsi per queste due specie di mali non si avrebbe un solo istante di riposo. In conseguenza, allo scopo di non perdere la tranquillità della nostra vita per mali la cui esistenza o la cui epoca sono ignote, conviene abituarci a riguardare gli uni come se non dovessero mai arrivare, e gli altri come se non dovessero di certo arrivare in un tempo vicino. Ma quanto più la paura ci lascia in riposo, tanto più siamo agitati da desideri, da voglie sfrenate e da strane pretese. La canzone, così nota, di Goethe: «Io ho collocato le mie brame nel nulla» significa, in fondo, che solo quando si sarà liberato da tutte le sue pretese e si sarà ridotto all’esistenza tale quale è realmente nuda e spoglia, l’uomo potrà acquistare quella calma di spirito che è la base dell’umana felicità, perocchè tale calma è indispensabile per godere del presente della vita, e dell’avvenire. A tal uopo dovremmo pure ricordarci che il giorno d’oggi non viene che una sola volta, e più mai. Ma invece noi c’immaginiamo che ritornerà domani: però domani è un altro giorno che anch’esso non viene che una volta. Dimentichiamo che ciascun giorno è una porzione integrante, dunque irreparabile, della vita, e lo consideriamo come contenuto nella vita, nello stesso modo che gl’individui sono contenuti nella nozione dell’insieme. Di più apprezzeremmo e gusteremmo molto meglio il presente se nei giorni di benessere e di salute conoscessimo a qual punto, durante la malattia o l’afflizione, il ricordo ci presenta come infinitamente invidiabile ogni ora libera da dolori o da privazioni; che questa ci appare quale un paradiso perduto, od un amico disconosciuto. Ma al contrario noi viviamo i nostri bei giorni senza prestar loro alcuna attenzione, e solamente quando arrivano i cattivi vorremmo richiamare gli altri. Lasciamo passare da canto, senza goderne e senza accordar loro un sorriso, mille ore serene e piacevoli, e più tardi nel tempo triste, portiamo verso di esse le nostre vane aspirazioni. In luogo di condurci così, dovremmo rendere omaggio a quelle attualità sopportabili, fossero pure le più comuni, che lasciamo fuggire con tanta indifferenza, che fors’anche respingiamo con impazienza; dovremmo ricordarci sempre che questo presente precipita ad ogni momento in quell’apoteosi del passato in cui ormai, risplendente della luce delle cose non periture, è conservato dalla memoria, per ripresentarsi agli occhi nostri come l’oggetto della nostra più ardente aspirazione allorquando, sopratutto nelle ore d’affanno, il ricordo viene ad alzare il velo dinanzi le cose che furono.

6.° Il limitarsi rende felici. Quanto più il nostro cerchio di visione, di azione e di contatto è ristretto, tanto più siamo felici; e più esso è vasto, più ci troviamo tormentati ed inquieti. Perocchè insieme ad esso aumentano e si moltiplicano le pene, i desideri e le apprensioni. Ed è per tale motivo che i ciechi non sono tanto infelici come potremmo crederlo a priori; è facile convincersene all’aspetto della calma dolce, quasi allegra, delle loro sembianze. Questa regola ci spiega anche in parte perchè la seconda metà della nostra vita sia più triste della prima. Infatti nel corso dell’esistenza, l’orizzonte delle nostre vedute e delle nostre relazioni va allargandosi. Nell’infanzia esso è limitato ai dintorni più prossimi ed alle relazioni più strette; nell’adolescenza si estende in modo considerevole; nell’età virile abbraccia tutto il corso della nostra vita ed arriva anche a relazioni lontanissime, perfino con Stati e con popoli diversi; nella vecchiezza comprende le generazioni future. Ogni limitazione invece, anche nelle cose dello spirito, giova alla nostra felicità. Perocchè quanto meno sarà eccitata la volontà, tanto meno vi saranno dolori, e noi sappiamo che il dolore è positivo e la felicità semplicemente negativa. Il limitare il cerchio d’azione toglie alla volontà le occasioni esterne d’eccitamento; il limitare lo spirito, le occasioni interne. Quest’ultimo ha solo l’inconveniente di aprir l’accesso alla noia che diviene sorgente indiretta d’innumerevoli patimenti perchè si ricorre a qualunque mezzo per scacciarla; si mette a prova infatti e riunioni, e divertimenti, e il giuoco, e il lusso, e la crapula, e mille altre cose; da ciò danni, rovine e disgrazie d’ogni specie. Difficilis in otio quies (è difficile la pace nell’ozio). In cambio, per dimostrare quanto il limitarsi esternamente giovi alla felicità umana, per quello, bene inteso, che può giovare una cosa qualunque, non abbiamo che da ricordarci come il solo genere di poesia che intende a dipingere le genti felici, l’idillio, le rappresenti sempre poste essenzialmente in una condizione ed in un ambiente dei più ristretti. Questo stesso sentimento produce pure il piacere che troviamo in ciò che si chiama quadri di genere. Per conseguenza avremo felicità nella maggior possibile semplicità delle nostre relazioni ed anche nella uniformità del genere di vita fino a che una tale uniformità non ci dia in braccio alla noia: a questa condizione sopporteremo più facilmente la vita ed il suo peso inseparabile; l’esistenza scorrerà, come un ruscello, senza tempeste e senza vortici.

7.° Quello che importa, in ultima analisi, per la nostra felicità o per la nostra infelicità si è ciò che riempie ed occupa la coscienza. Ogni lavoro puramente intellettuale apporterà in totalità alla mente capace di dedicarvisi risorse maggiori che non le apporterebbe la vita reale colle sue alternative costanti di buono e cattivo esito, colle sue scosse e co’ suoi tormenti. È vero d’altronde che ciò esige disposizioni di spirito non comuni. Conviene inoltre osservare che da una parte l’attività esterna della vita ci distrae e ci allontana dallo studio, e toglie allo spirito la tranquillità ed il raccoglimento all’uopo necessari, e che d’altra parte l’occupazione continua dello spirito ci rende più o meno incapaci di star in mezzo all’andamento ed al tumulto della vita reale; è dunque saggia cosa sospendere una tale occupazione quando una circostanza qualunque necessita un’attività pratica ed energica.

8.° Per vivere con prudenza perfetta e per trarre dalla propria esperienza tutti gl’insegnamenti ch’essa contiene, è necessario portarsi spesso indietro col pensiero e ricapitolare ciò che nella vita si è veduto, fatto, appreso e sentito nello stesso tempo; bisogna pure confrontare il proprio giudizio d’altre volte colle idee, progetti ed aspirazioni attuali, col loro risultato, e colla soddisfazione dataci da tale risultato. L’esperienza ci serve così da maestro speciale che viene a darci lezione privatamente. La si può anche considerare come il testo, costituendone il commento le cognizioni e il raziocinio. Molto raziocinio e copiose cognizioni somiglierebbero a quei libri le cui pagine presentano due linee di testo e quaranta di chiose. Molta esperienza accompagnata da poco raziocinio e da scarso sapere ricorda quelle edizioni di Deux-Ponts che non hanno annotazioni e che lasciano così molti passi del testo inintelligibili. Si è a tali precetti che si riferisce la massima di Pitagora, di passare in rivista cioè, la sera, prima di addormentarsi, quanto si ha fatto nella giornata. L’uomo che se ne va nel tumulto degli affari e dei piaceri senza mai rinvangare il suo passato, e che si contenta di aggomitolare la matassa della vita, perde ogni ragione chiara delle cose; il suo spirito diventa un caos, e ne’ suoi pensieri s’infiltra una certa confusione di cui fa testimonianza il suo modo di conversare sconnesso, a scatti, a frammenti, e, per così dire, sottilmente sminuzzato. Tale stato sarà messo tanto più in rilievo quanto più sarà grande l’agitazione esterna, la somma delle impressioni, e quanto più sarà piccola l’attività interna dello spirito. Qui osserviamo pure come dopo un certo periodo di tempo da che le relazioni e le circostanze che agirono su noi sono sparite, non possiamo più far ritornare e rivivere la disposizione e la sensazione prodotte già in noi; ma ciò che possiamo benissimo ricordarci si è le nostre manifestazioni in quell’occasione. Ora queste sono il risultato, l’espressione e la misura delle sensazioni e dello stato che esse produssero in noi. La memoria quindi, o la carta dovrebbero conservare con ogni cura le traccie delle epoche importanti della nostra vita. Perciò tener un giornale sarà cosa molto utile.

9.° Bastare a sè stesso, esser per sè stesso tutto in tutto, e poter dire: «Omnia mea mecum porto» (porto con me tutte le cose mie), ecco certamente la condizione più favorevole per la nostra felicità; perciò non si saprà mai ripeter abbastanza la massima di Aristotele: «La felicità è per coloro che bastano a se stessi» (Mor. ad Eud. 7, 2). (In fondo è lo stesso pensiero, presentato in modo graziosissimo, che esprime la sentenza di Chamfort messa per epigrafe a questo trattato: «La felicità non è cosa facile a conquistare: è difficile trovarla in noi, affatto impossibile poi trovarla altrove»). Perocchè da una parte non si può contare con sicurezza che sopra sè stessi; e d’altra parte le fatiche e gl’inconvenienti, i pericoli e gli affanni che la società porta seco, sono innumerevoli ed inevitabili. Non v’ha strada che più ci allontani dalla felicità della vita alla grande, della vita dei conviti e dei festini, di quella vita che gl’inglesi chiamano high life, perocchè cercando di trasformare la nostra miserabile esistenza in una successione continua di gioie, di piaceri e di divertimenti, non si può mancare d’incontrar il disinganno, senza tener conto delle menzogne reciproche di cui si fa scambio in quel mondo e che ne sono l’accompagnamento obbligato. Ed anzitutto qualunque società esige necessariamente un adattamento reciproco, un temperamento: quindi quanto più sarà numerosa, tanto più diverrà scipita. Non si può esser veramente sè stesso, se non quando si è solo; dunque chi non ama la solitudine non ama la libertà, perchè non si è liberi che essendo soli. Ogni società ha per compagna inseparabile la riservatezza e reclama sacrifizî che costano tanto più cari quanto più la propria individualità è spiccata. Per conseguenza ognuno fuggirà, sopporterà o cercherà la solitudine in proporzione esatta del valore del suo io. Perocchè è proprio qui che il povero sente tutta la sua povertà, ed una gran mente tutta la sua grandezza; in breve, ciascuno vi si pesa al suo giusto valore. Inoltre un uomo è tanto più essenzialmente e necessariamente isolato quanto più alto è il posto che occupa nel libro genealogico della natura. Allora per un tal uomo si è una vera gioia che l’isolamento fisico sia in rapporto col suo isolamento intellettuale: se ciò non può essere il frequente avvicinarglisi di persone eterogenee turba, gli diviene fors’anche funesto, perocchè gli toglie il suo io, e non ha niente da offrirgli in compenso. Di più mentre la natura ha messo la più grande dissomiglianza, nel morale come nell’intelletto, fra gli uomini, la società non ne tiene alcun conto, li fa tutti eguali, o piuttosto alla diversità naturale sostituisce distinzioni e gradi artificiali di condizione e di rango, che stanno sempre diametralmente in opposizione con quell’ordine scalare stabilito dalla natura. Coloro che la natura ha posto in basso, si trovano molto bene vantaggiati da un tale accomodamento sociale, ma il piccolo numero degli individui che stanno in alto non ci ha il suo tornaconto; perciò costoro si tolgono ordinariamente dalla società: d’onde risulta che non appena questa diventa numerosa vi predomina la volgarità. Ciò che agli animi grandi fa venir a noia la società si è l’uguaglianza dei diritti e delle pretese che ne deriva, di fronte alla disparità delle facoltà e delle produzioni (sociali) degli altri. La così detta buona società apprezza i meriti di qualsivoglia specie, salvo i meriti intellettuali; questi anzi non vi entrano che di contrabbando. Essa impone l’obbligo di dimostrare una pazienza senza limiti per ogni sciocchezza, per ogni follia, per ogni assurdità, per ogni stupidezza; i meriti personali invece devono mendicare il loro perdono o nascondersi, perchè la superiorità intellettuale, senza concorso della volontà, offende colla sua sola esistenza. Inoltre, questa pretesa buona società non ha solo l’inconveniente di metterci in contatto con gente che non possiamo approvare nè amare, ma di più non ci permette d’esser noi stessi, d’esser quali conviene alla nostra natura; essa ci obbliga piuttosto, allo scopo di metterci allo stesso diapason degli altri, a raggrinzarci per così dire, se non a difformarci addirittura. Discorsi sanamente spiritosi o motti arguti non convengono che ad una società di persone d’ingegno; nella società ordinaria essi sono cordialmente detestati, perocchè per piacere alle persone che la compongono bisogna essere assolutamente triviali e dappoco. In tali riunioni si deve, con penosa annegazione di sè stessi, abbandonare tre quarti della propria personalità per assomigliarsi agli altri. È vero che in cambio si guadagna tutti costoro, ma quanto più si ha di valore in sè tanto più si scorgerà che il guadagno non copre la perdita e che il contratto finisce a nostro danno, perocchè le persone generalmente sono insolvibili, vale a dire non hanno cosa alcuna nel loro magazzino che possa indennizzarci delle noie, delle fatiche e dei fastidi che esse procurano, e del sacrificio di sè che impongono; d’onde risulta che quasi tutta la società è di tale qualità che chi la baratta colla solitudine fa un affare eccellente. A ciò si aggiunge che la società, allo scopo di supplire alla superiorità vera, vale a dire all’intellettuale, che essa non vuol sopportare e che è rara, ha adottato senza motivo una superiorità falsa, convenzionale, fondata su leggi arbitrarie, una superiorità che si propaga per tradizione fra le classi alte, e che nello stesso tempo si cambia come una parola d’ordine: vogliam dire il bon ton «fashionableness». Tuttavia quando succede che siffatta specie di superiorità entra in collisione colla superiorità genuina, la meschinità di essa non tarda a mostrarsi. Inoltre «quand le bon ton arrive, le bon sens se ritire». In tesi generale non si può essere in perfetto unisono che con sè stessi; non si può esserlo coll’amico, non si può esserlo con la donna amata, perchè le differenze dell’individualità e dell’umore producono sempre una dissonanza, sia pur piccolissima. Così la pace del cuore vera e profonda, e la perfetta tranquillità dello spirito, beni supremi sulla terra dopo la salute, non si trovano che nella solitudine, e non saranno permanenti se non nell’isolamento assoluto. Allora, quando l’io è grande e ricco, si gusta la condizione più felice che sia possibile trovare in questo povero mondo. Sì! diciamolo apertamente: per quanto strettamente l’amicizia, l’amore e il matrimonio uniscano gli umani, non si vuol bene, interamente e di buona fede, che a sè stessi, o tutt’al più al proprio figlio. Meno si avrà bisogno, in seguito a condizioni oggettive e soggettive, di mettersi a contatto cogli uomini, meglio ci troveremo. La solitudine, l’isolamento permettono d’abbracciare d’un solo sguardo tutti i propri mali, od anche di non provarli in un colpo solo; la società invece è insidiosa; essa nasconde mali immensi, di sovente irreparabili, dietro un’apparenza di passatempi, di conversazioni, di divertimenti di società, e d’altre simili cose. Sarebbe per gli uomini uno studio importante l’imparar di buon’ora a sopportare la solitudine, questa sorgente di felicità e di quiete intellettuale. Da quanto abbiamo esposto deriva che ha una parte molto migliore colui che non conta che su sè stesso e che può in tutto esser tutto a sè stesso. Cicerone ha detto «Colui che basta a se stesso e che mette in sè solo tutte le cose sue non può non esser felicissimo» (Paradox. II). Inoltre più un uomo ha in sè, meno gli altri possono essergli qualche cosa. Si è un tal sentimento, di poter esser sufficiente a sè stesso, che impedisce all’uomo di vaglia e ricco all’interno, di fare alla vita comune quei grandi sacrifizî che essa esige, e molto meno ancora di ricercarla a prezzo d’una notevole annegazione di sè stesso. Si è il sentimento opposto che rende gli uomini ordinari così socievoli e così trattabili: infatti è loro più facile sopportar gli altri che sè stessi. Notiamo pure che ciò che ha un valore reale non è apprezzato nel mondo, e che ciò che è apprezzato non ha valore. Ne troviamo la prova e la conseguenza nella vita ritirata d’ogni persona di merito e di distinzione. Ne segue che sarà per l’uomo eminente far atto positivo di saggezza il limitare, se occorre, i bisogni, non fosse altro per poter conservare ed estendere la propria libertà, e il contentarsi del meno possibile per la propria persona quando il contatto cogli altri individui fosse inevitabile. Ciò che d’altra parte rende gli uomini sociabili si è che essi sono incapaci di sopportare la solitudine e di sopportare sè stessi quando sono soli. Ed è dal loro vuoto interno e dalla stanchezza di sè stessi che sono spinti a cercare la società, a correre paesi stranieri e ad intraprendere viaggi continuamente. Il loro spirito, mancando della forza necessaria per comunicarsi un movimento proprio, cerca di accrescersela col vino, e molti così finiscono col divenire ubbriaconi. A questo scopo essi hanno pure bisogno dell’eccitamento continuo che viene dal di fuori e specialmente di quello prodotto da individui della loro specie, che è il più energico fra tutti. In mancanza di tale irritazione esterna il loro spirito si accascia sotto il proprio peso e cade in grave letargia. Si potrebbe dire egualmente che ciascuno di essi non è che una piccola frazione dell’idea dell’umanità, e che ha quindi bisogno di essere addizionato con molti de’ suoi simili per costituire in certo modo una coscienza umana intera; invece l’uomo completo, l’uomo per eccellenza, non è una frazione, ma rappresenta una unità intera e di conseguenza basta a sè stesso. Si può, in questo senso, paragonare la società ordinaria a quell’orchestra russa composta esclusivamente di corni, nella quale ogni stromento non dà che una nota; non è che colla loro coincidenza precisa che si produce l’armonia musicale. Infatti lo spirito della maggior parte delle persone è monotono come quel corno che non produce che un suono solo: costoro sembrano in realtà non aver mai che un solo e medesimo soggetto nella mente, ed essere incapaci di contenerne un altro. Ciò spiega dunque in una volta come succeda che essi siano tanto nojosi e tanto sociabili, e perchè vadino ben volentieri in gregge: «The gregariousness of mankind». La monotonia della loro propria natura è insopportabile a ciascuno di essi: «Omnis stultitia laborat fastidio sui». (Qualunque stupidezza opprime colla nausea di sè stessa). Non è che uniti e colla loro riunione che essi sono qualche cosa precisamente come i sonatori di corno russo. L’uomo intelligente invece può esser paragonato ad un virtuoso che eseguisce da sè solo il suo concerto, oppure anche ad un pianoforte. Simile a questo, che è da per sè una piccola orchestra, egli è un piccolo mondo, e ciò che gli altri non sono che nell’azione dell’insieme, ei lo presenta nell’unità d’una sola coscienza. Come il pianoforte, ei non è una parte della sinfonia, ma è fatto per l’a solo e per la solitudine; quando deve prender parte al concerto cogli altri ciò non può essere che come voce principale con accompagnamento, ancora come il pianoforte, o per dare il tono nella musica vocale, sempre come il pianoforte. Chi ama andar di tempo in tempo nel mondo potrà cavare dalla comparazione precedente la regola che ciò che manca in qualità alle persone con cui si è in relazione deve esser supplito fino ad un certo punto dalla quantità. La società di un solo uomo intelligente potrà bastargli, ma se non trova che mercanzia di qualità ordinaria sarà buona cosa averne in abbondanza, perchè la varietà e l’azione combinate producano qualche effetto, in analogia coll’orchestra dei corni russi, già ricordata: e che il cielo gli accordi la pazienza di cui avrà bisogno! Egli è ancora a questo vuoto interno ed a questa nullità della gente che si deve attribuire il fatto che quando gli uomini di miglior stoffa si uniscono in vista di qualche scopo nobile ed ideale, il risultato sarà quasi sempre il seguente: si troverà qualche membro di quella plebe dell’umanità che, simile agl’insetti schifosi, pullula ed invade ogni cosa in ogni luogo, sempre pronta ad impadronirsi di tutto indistintamente per alleviare la propria noja, o qualche volta la propria miseria, — si troverà, dico, qualcuno che s’insinuerà nell’assemblea, o vi entrerà a forza di molestie, ed allora o distruggerà ben presto tutta l’opera, oppure la modificherà al punto che l’esito ne verrà presso a poco all’estremo opposto dello scopo prefisso. Si può ancora considerare la sociabilità presso gli uomini come un mezzo per scaldarsi reciprocamente lo spirito, analogo al modo con cui si riscaldano scambievolmente il corpo quando, nei grandi freddi, si ammucchiano e si serrano gli uni contro gli altri. Ma chi possede in sè molto calorico intellettuale non ha bisogno di tali accumulamenti. Si troverà nel 2° vol. di questa raccolta33, nel capitolo finale, un apologo immaginato da me su questo soggetto. Conseguenza di tutto ciò si è che la sociabilità di ciascuno è in ragione inversa del valore intellettuale; dire di qualcuno: «Egli è «molto insociabile» significa press’a poco: «Costui è un uomo dotato di facoltà eminenti». La solitudine offre all’uomo altolocato intellettualmente due vantaggi: il primo d’esser con sè, il secondo di non esser con gli altri. Si apprezzerà grandemente quest’ultimo riflettendo a tutto ciò che il commercio col mondo porta seco in fatto di riservatezza forzata, di tormenti, ed anche di pericoli. «Ogni nostro male deriva dal non poter esser soli» ha detto La Bruyère. La sociabilità appartiene ai caratteri pericolosi e perniciosi, perocchè ci mette in contatto con individui i quali in grande maggioranza sono moralmente cattivi ed intellettualmente limitati o pervertiti. L’uomo insociabile è colui che non ha bisogno di siffatta gente. Aver abbastanza in sè per poter fare a meno della società è già una grande felicità, per ciò stesso che quasi tutti i nostri mali derivano dal mondo, e perchè la tranquillità dello spirito, che dopo la salute forma l’elemento più essenziale del nostro benessere, vi è messa in pericolo e non può esistere senza lunghi periodi di solitudine. I filosofi cinici rinunziarono ai beni d’ogni specie per godere la felicità che procura la quiete intellettuale: rinunziare alla società allo scopo, di arrivare allo stesso risultato, si è scegliere il mezzo più saggio. Bernardin de Saint-Pierre dice con ragione ed in modo graziosissimo: «La dieta degli alimenti ci dà la salute del corpo, e quella degli uomini la tranquillità dell’anima». Perciò colui che si è assuefatto di buon’ora alla solitudine, e che vi ha preso gusto, possiede una miniera d’oro. Ma questo non è dato a tutti. Perocchè nella stessa guisa che la miseria, da prima, avvicina gli uomini, così, più tardi allontanato il bisogno, vi è la noja che li raccoglie. Senza questi due motivi, ciascheduno resterebbe probabilmente in disparte, non foss’altro perchè solo nell’isolamento l’ambiente che ci circonda corrisponde a quell’importanza esclusiva che ognuno possede a’ suoi occhi, ma che l’andazzo tumultuoso del mondo riduce a niente, visto che ad ogni passo riceve una dolorosa smentita. In questo senso la solitudine è anzi lo stato naturale a ciascuno; essa lo rimette, novello Adamo, nella condizione primitiva di felicità, nella condizione appropriata alla sua natura. Sì! ma Adamo non aveva padre nè madre! Ed è per questo, d’altra parte, che la solitudine non è naturale all’uomo, poichè al suo arrivo nel mondo ei non si trova solo, ma in mezzo a parenti, a fratelli, a sorelle, con altre parole in seno d’una vita in comune. Per conseguenza l’amore della solitudine non può esistere come inclinazione primitiva; esso deve nascere come risultato dell’esperienza e della riflessione, e prodursi sempre in rapporto collo sviluppo della forza intellettuale ed in proporzione col progredire degli anni: ne segue che alla fin fine l’istinto sociale d’ogni individuo sarà in rapporto inverso dell’età sua. Il bambino strilla dalla paura e si lamenta non appena è lasciato solo, fosse pure per qualche momento. Per i fanciulli il dover starsene soli è un severo castigo. I giovani si uniscono volentieri fra loro; non v’hanno che quelli dotati d’una natura più nobile e d’uno spirito più elevato che cercano già qualche volta la solitudine; nondimeno passar soli tutta la giornata è loro ancora difficile. Per l’uomo fatto la cosa è facile; ei può rimanere a lungo isolato, e tanto più a lungo quanto più progredisce nella vita. Al vecchio poi, unico sopravvivente delle generazioni sparite, morto da una parte alle gioje della vita, e dall’altra ormai al di sopra di esse, la solitudine è il vero suo elemento. Ma, in ogni individuo considerato separatamente, i progressi dell’inclinazione al ritiro ed all’isolamento saranno sempre in ragione diretta del valore intellettuale. Perocchè, come già dicemmo, non è questa un’inclinazione puramente naturale, provocata in modo diretto dalla necessità, è piuttosto solamente l’effetto dell’esperienza acquistata e meditata; vi si arriva soprattutto dopo essersi bene convinti della miserabile condizione morale ed intellettuale della maggior parte degli uomini, e ciò che v’ha di peggio in tale condizione si è che le imperfezioni morali dell’individuo cospirano colle imperfezioni intellettuali e si ajutano a vicenda; si producono allora i fenomeni più schifosi che rendono ripugnante, e fors’anco insopportabile, il commercio colla grande maggioranza degli uomini. Ecco perchè, sebbene vi siano tante brutte cose a questo mondo, la società è ancora più brutta: lo stesso Voltaire, francese sociabile, si spinse fino a dire: «La terra è coperta da gente tale che non meriterebbe nemmeno che le si rivolgesse la parola». Il tenero Petrarca, che ha così vivamente e con tanta costanza amato la solitudine, ce ne spiega egualmente il perchè:

Cercato ho sempre solitaria vita
(Le rive il sanno, e le campagne, e i boschi),
Per fuggir quest’ingegni storti e loschi
Che la strada del ciel hanno smarrita.

Ei ci presenta gli stessi motivi nel suo bel libro De vita solitaria, che sembra aver servito di modello a Zimmermann per la celebre opera Della solitudine. Chamfort, co’ suoi modi sarcastici, esprime precisamente questa origine secondaria e indiretta dell’insociabilità quando scrive: «Si dice qualche volta di un uomo che vive solo: Ei non ama la società. Spesso è la stessa cosa come se si dicesse d’un uomo che egli non ama il passeggiare perchè non va a spasso volentieri la sera nella foresta di Bondy». Saadi nel Gulistan parla nel medesimo senso: «Da questo momento, prendendo congedo dal mondo, noi abbiamo seguito la via dell’isolamento, perocchè la sicurezza sta nella solitudine». Angelo Silesius, anima dolce e cristiana, dice la stessa cosa nel suo linguaggio speciale e affatto mistico: «Erode è un nemico, Giuseppe è la ragione a cui Dio rivela in sogno (in ispirito) il pericolo. Il mondo è Betleme, l’Egitto la solitudine: fuggi, anima mia! fuggi, o tu muori di dolore». Egualmente Giordano Bruno: «Tanti uomini che in terra hanno voluto gustare vita celeste, dissero ad una voce: ecce elongevi fugiens et mansi in solitudine» (ecco, m’allontanai fuggendo, e rimasi nella solitudine). Saadi, il persiano, parlando di sé nel Gulistan dice anche: «Stanco degli amici a Damasco mi ritirai nel deserto vicino a Gerusalemme per cercare la società degli animali». In poche parole tutti coloro che Prometeo ha fabbricato colla migliore argilla si sono espressi nello stesso senso. Quali piaceri infatti possono provare questi esseri privilegiati nel commercio con creature colle quali non possono aver relazioni per stabilire una vita in comune se non per mezzo della parte più bassa e più vile della loro natura, vale a dire di tutto ciò che v’ha in essa di volgare, di triviale, d’ignobile? Tali individui ordinarî non potendosi levare all’altezza dei primi, non hanno altra risorsa, come non si prenderanno altro cómpito, se non quello di abbassarli al loro livello. Da questo punto di vista si è davvero un sentimento aristocratico quello che alimenta l’inclinazione all’isolamento ed alla solitudine. Tutti i cialtroni sono tanto sociali da far pietà: in cambio, a ciò solo si vede che un uomo è di qualità più nobile, quando non trova alcun piacere cogli altri, quando alla loro società preferisce ognor più la solitudine, acquistando insensibilmente coll’età la convinzione che salvo rare eccezioni non v’ha scelta nel mondo tra l’isolamento e la volgarità. Per quanto dura sembri, questa massima è stata espressa da Angelo Silesius stesso, ad onta di tutta la sua carità e tenerezza cristiana: «La solitudine è penosa: però non esser volgare, e tu potrai isolarti in qualunque luogo». Specialmente in quanto concerne gli spiriti eminenti, è ben naturale che questi veri educatori del genere umano provino anche tanta poca inclinazione a mettersi di frequente in rapporto cogli altri, quanta ne può sentire il pedagogo ad unirsi ai giochi rumorosi della schiera di fanciulli che lo contorna. Perocchè, nati per guidare gli altri uomini sull’Oceano dei loro errori verso la verità, per trarli dall’abisso della loro rozzezza e della loro volgarità, per innalzarli verso la luce della civilizzazione e del progresso, essi devono, è vero, vivere in mezzo a gente siffatta, ma senza però appartenerle realmente; si sentono quindi fino dalla giovinezza creature sensibilmente differenti; ma in questo riguardo la convinzione ben chiara non giunge loro che insensibilmente a misura che vanno avanti cogli anni; allora hanno cura di aggiungere la distanza fisica alla distanza intellettuale che li separa dal resto degli uomini, e vegliano perchè nessuno, a meno che non sia più o meno affrancato dalla volgarità generale, li accosti troppo da vicino. Da tutto ciò si deduce che l’amore della solitudine non apparisce direttamente ed allo stato d’istinto primitivo, ma che si sviluppa indirettamente e progressivamente specie negli spiriti eminenti, non senza dover vincere l’inclinazione naturale alla socialità, ed anche combattere all’occasione qualche suggerimento mefistofelico: «Cessa dal giocare col tuo cordoglio che, pari ad un avoltojo, ti rode la vita: la più vile compagnia ti fa sentire che sei uomo con gli uomini.» La solitudine è il retaggio delle menti superiori; qualche volta succederà loro che se ne rammarichino, ma la sceglieranno sempre come il minore dei mali. Col progresso dell’età nondimeno il sapere aude doventa in questo riguardo sempre più facile ed omogeneo; verso la sessantena l’inclinazione alla solitudine arriva ad essere affatto naturale, e quasi istintiva. Infatti tutto si unisce allora per favorirla. Le forze che spingono più gagliardamente alla socialità, cioè l’amor delle donne e l’istinto sessuale, non agiscono più a quel momento; anzi lo sparire del sesso fa nascere nel vecchio una certa capacità di bastare a sè stesso, che a poco a poco assorbe totalmente l’inclinazione alla società. Si è ormai ritornati in sè da mille illusioni e da mille stoltezze; d’ordinario la vita d’azione è cessata; non si ha più cosa alcuna da aspettare, nessun piano o progetto da concepire; la generazione a cui si appartiene realmente non esiste più; attorniati da una razza straniera si è di già oggettivamente ed essenzialmente isolati. Con tutto ciò il cammino del tempo si è accelerato, e lo si vorrebbe inoltre impiegare per l’intelletto. Perocchè a quell’ora, ammesso che la testa abbia conservato tutte le sue forze, gli studi d’ogni sorta sono resi più che mai facili ed interessanti dalla grande somma di esperienza e di conoscenze acquistate, dalla meditazione progressivamente più approfondita di qualunque pensiero, come pure dalla maggior attitudine all’esercizio di tutte le facoltà intellettuali. Si vede chiaro in molte cose che altra volta erano in certo modo avviluppate da densa nebbia, si ottiene eccellenti risultati, e si sente interamente la propria superiorità. In seguito alla lunga esperienza si ha cessato dall’aspettarsi gran cosa dagli uomini, poichè, tutto considerato, essi non guadagnano ad esser conosciuti più da vicino; si sa piuttosto che, eccettuata qualche rara probabilità favorevole, non s’incontreranno nella natura umana se non esemplari molto difettosi che è meglio non toccare. Non si è più esposti alle illusioni ordinarie, si vede a colpo d’occhio ciò che un uomo vale, e non si proverà che molto di rado la voglia di entrare in più intimi rapporti con lui. Infine, quando nella vita solitaria si riconosce un’amica d’infanzia, l’abitudine dell’isolamento e del commercio con sè stesso prende piede, e diventa una seconda natura. Perciò l’amor della solitudine, qualità che fino a quel punto bisognava conquistare con la lotta contro l’istinto della socialità; è ormai semplice e naturale; si sta perfettamente bene da soli come il pesce nell’acqua. Ogni uomo superiore, quindi, che ha un’individualità non somigliante all’altrui, e che per conseguenza occupa un posto a parte, si sentirà beato da vecchio in tale posizione interamente isolata, benchè abbia potuto trovarsene infastidito durante la sua gioventù. Certamente ciascuno non possederà la sua parte di questo privilegio reale dell’età se non nella misura delle sue forze intellettuali; si è dunque lo spirito eminente che lo acquisterà prima d’ogni altro, ma ad un grado minore tutti vi arriveranno. Non v’ha che le nature le più povere e le più volgari che saranno nella vecchia età così socievoli come per lo innanzi: esse stanno allora a carico di quella società a cui non sono più adatte; ma tutt’al più arriveranno a farsi tollerare, e non saranno mai cercate come altre volte. Si può ancora trovare un lato teleologico in questo rapporto inverso di cui or ora tenemmo parola, tra il numero degli anni e il grado di socialità. Quanto più l’uomo è giovane tanto più ha da imparare ancora in tutte le direzioni; ora la natura non gli ha riservato che quel mutuo insegnamento che ciascheduno riceve dalle relazioni co’ suoi simili, quell’insegnamento reciproco per cui la società umana potrebbe chiamarsi una grande casa d’educazione Bell-Lancasteriana, visto che i libri e le scuole sono istituzioni artificiose, ben lontane dal piano della natura. È molto utile all’uomo il frequentare l’istituto naturale di educazione tanto più assiduamente quanto più è giovane.

«Nihil est ab omni parte beatum»

non v’ha in questa vita beatitudine perfetta, dice Orazio, e «Nessun loto senza stelo» ripete un proverbio indiano; similmente la solitudine a lato di tanti vantaggi ha pure i suoi leggeri inconvenienti e i suoi piccoli fastidi, che però sono minimi riguardo a quelli della società, a tal punto che colui il quale ha un valore proprio, troverà sempre cosa più facile far senza degli uomini, piuttostochè mantenersi in relazione con essi. Fra gl’inconvenienti ve n’ha uno del quale non si può facilmente rendersi conto come degli altri; ed è il seguente: nello stesso modo che a forza di starsene continuamente in una camera il nostro corpo diventa così sensibile ad ogni impressione esterna che la più piccola corrente d’aria lo colpisce morbosamente, così il nostro umore si fa talmente sensibile nella solitudine e nell’isolamento prolungato che ci sentiamo inquieti, afflitti od offesi dai fatti più insignificanti, da una parola, fors’anco dalla semplice apparenza, mentre chi è costantemente in mezzo al tumulto del mondo non presta affatto attenzione a tali bagattelle. Potrebbe darsi che un uomo, specialmente in gioventù, e ad onta che la giusta avversione per i suoi simili l’abbia già fatto fuggire di sovente nell’isolamento, non sappia a lungo andare sopportarne il vuoto; io gli consiglio di abituarsi a portar seco nella società una parte della sua solitudine; apprenda così ad esser solo, fino ad un certo punto, anche fra la gente, per conseguenza non comunichi subito agli altri ciò che pensa, d’altra parte non annetta troppo valore a ciò che dice il mondo, e meglio ancora non si aspetti da esso gran cosa, sia dal lato morale sia dall’intellettuale, e quindi attenda a fortificare in sè questa indifferenza riguardo all’opinione altrui, mezzo sicurissimo per praticare costantemente una lodevole tolleranza. In siffatta guisa, benchè in mezzo agli uomini, ei non sarà interamente nella loro società, ed avrà riguardo ad essi un’attitudine più puramente oggettiva, ciò che lo proteggerà contro un contatto troppo intimo colla gente, e quindi contro ogni contaminazione, e meglio ancora contro ogni offesa. Esiste una descrizione drammatica degna di nota d’una tale società attorniata da barriere e da trinceramenti, nella commedia «El café, o sea la comedia nueva» di Moratin; la si troverà nel personaggio di Don Pedro, sopratutto nelle scene 2a e 3a del primo atto. In quest’ordine d’idee possiamo paragonare la società ad un fuoco innanzi a cui il saggio si riscalda senza però toccarlo come fa il pazzo il quale, dopo essersi scottato, fugge nella fredda solitudine e si lamenta perchè il fuoco brucia.

10° L’invidia è naturale all’uomo, e tuttavia costituisce in un tempo stesso un vizio ed un’infelicità. Dobbiamo dunque considerarla come un nemico della nostra felicità, e cercar di soffocarla come un cattivo demone. Seneca ce lo comanda con queste belle parole: «Le cose nostre ci dilettano senza confronto: non sarà mai felice quegli a cui darà angoscia il desio di maggior bene» (De ira, III, 30). Ed altrove: «Quando poni mente a quanta gente ti precede, pensa pure a quanta gente sta dietro di te» (Ep. 15); bisogna dunque considerare piuttosto coloro la cui condizione è peggiore della nostra che non quelli che ci pare stieno meglio di noi. Quando ci colpiscono disgrazie reali, la consolazione più efficace, quantunque derivata dalla stessa sorgente dell’invidia, sarà la vista di mali più grandi dei nostri, ed a lato di ciò il frequentare persone che si trovino nello stesso caso nostro, i nostri compagni di sventura. Ecco quanto sul lato attivo dell’invidia. Circa il lato passivo havvi da osservare che nessun odio è così implacabile come l’invidia; perciò invece d’esser incessantemente occupati ad eccitarla, faremmo assai meglio di rifiutarci, come molti altri, anche questo piacere, viste le sue funeste conseguenze. Si danno tre aristocrazie: la quella della nascita e del rango; 2a quella del danaro; 3° quella dello spirito. Quest’ultima è realmente la più nobile, e si fa anche conoscere per tale dato che gliene si lasci il tempo: lo stesso Federico il Grande non ha detto: «Le anime privilegiate stanno al medesimo livello dei sovrani»? Egli indirizzava queste parole al suo maresciallo di Corte, il quale si trovava offeso perchè Voltaire era chiamato a prender posto in una tavola riservata unicamente ai sovrani ed ai principi della famiglia, mentre i ministri ed i generali pranzavano a parte con lui. Ognuna di queste aristocrazie è attorniata da un’armata speciale d’invidiosi, segretamente stizziti contro ciascuno de’ suoi membri, ed occupati, quando credono non aver da temere, a fargli capire in tutti i modi: «Tu non sei niente più di noi». Ma tali sforzi tradiscono precisamente la loro convinzione del contrario. La linea di condotta che devono scegliere gl’invidiati consiste nel tenere a distanza tutti coloro che compongono tali bande, e nell’evitare qualunque contatto con essi in modo da restarne separati da un largo abisso; quando la cosa non è fattibile devono tollerare colla maggior calma possibile gli sforzi dell’invidia, la cui sorgente si troverà così esaurita. Questo è quanto vediamo succedere ogni giorno. In cambio, i membri di una delle aristocrazie nominate s’intenderanno ordinariamente molto bene e senza provar invidia colle persone che fanno parte d’ognuna delle altre due, e questo perchè ciascheduno mette nella bilancia il proprio merito come equivalente a quello degli altri.

11° È necessario meditare maturatamente ed a molte riprese un progetto avanti di metterlo in esecuzione, e, dopo averlo pesato scrupolosamente, bisogna pure calcolare la parte debole per l’insufficienza di ogni sapere umano; visti i limiti delle nostre cognizioni, possono sempre esservi circostanze che è stato impossibile scrutare o prevedere, e che potrebbero venir ad alterare il risultato di tutte le nostre speculazioni. Tale riflessione metterà sempre un peso nel piatto negativo della bilancia, e ci porterà negli affari importanti a non muover cosa senza necessità: «Quieta non movere.» Ma, una volta presa la decisione e messo mano all’opera, quando ogni cosa può seguire il suo corso, e quando noi non abbiamo più che da aspettare il risultato, non bisogna ormai tormentarsi con replicate considerazioni su ciò che è fatto, e con sempre nuove inquietudini sui possibili pericoli; è necessario invece scaricarsi completamente lo spirito da tale affare, chiudere affatto questo scompartimento del pensiero, e rimaner tranquilli nella convinzione d’aver tutto pesato maturamente a suo tempo. Ciò è quanto consiglia pure di fare il proverbio italiano: «Legala bene e poi lasciala andare». Se, ad onta di tutto, l’esito non corrisponde, si è perchè tutte le cose umane sono soggette alla sorte ed all’errore. Socrate, il più saggio degli uomini, aveva bisogno d’un demone tutelare per discernere il vero, od almeno per evitare il falso ne’ suoi affari personali; non è questa una prova che la ragione umana non vi basta? Perciò questa sentenza, attribuita ad un papa, che siamo noi stessi, almeno in parte, colpevoli delle disgrazie che ci colpiscono, non è vera, nè sempre, nè senza riserve, quantunque lo sia nella maggior parte dei casi. Si è un tal sentimento che sembra condurre gli uomini a nascondere per quanto è possibile i loro mali, ed a cercare, come meglio possono riuscirvi, di aggiustarsi un aspetto soddisfatto. Essi temono che la sventura sia attribuita alla colpa.

12.° In faccia d’un avvenimento funesto, già compito, che per conseguenza non si può più modificare, bisogna non abbandonarsi nemmeno all’idea che forse avrebbe potuto succedere altrimenti, e meno ancora riflettere a quanto avrebbe avuto la possibilità di stornarlo; perocchè si è questo precisamente che porta la gradazione del dolore fino al punto in cui diviene insopportabile, e fa dell’uomo un «ἑαυτοντιμο ρουμενος». Facciamo piuttosto come il re Davide, che assediava incessantemente Jéhova con preghiere e suppliche durante la malattia di suo figlio, e che, non appena questi fu morto, fece scoppiettare le dita e non vi pensò più oltre. Colui che non ha un carattere abbastanza leggero per condursi nello stesso modo, deve rifugiarsi sul terreno del fatalismo, e convincersi pienamente di quest’alta verità che tutto quello che succede, succede necessariamente, dunque è inevitabile. Tuttavia questa regola non ha valore che in un solo senso. Essa giova a consolarci ed a calmarci immediatamente in caso di sventura; ma quando, come avviene più di sovente, devesi attribuire la colpa, almeno in parte, alla nostra negligenza od alla nostra temerità, allora la meditazione ripetuta e dolorosa dei mezzi che avrebbero potuto prevenire il funesto avvenimento è una mortificazione salutare, propria a servirci di lezione e di ammendamento per l’avvenire. Sopratutto non bisogna cercar di scusare, colorire o impiccolire ai propri occhi i falli di cui si è colpevoli evidentemente; è necessario confessarseli e presentarseli in tutta la loro estensione, allo scopo di poter prendere la ferma decisione di evitarli in seguito. È vero però che così si viene a procurarsi il dolorosissimo sentimento della scontentezza di sè, ma «l’uomo impunito non s’istruisce.»

13.° In tutto ciò che concerne la nostra felicità o la nostra miseria bisogna imbrigliare la fantasia: quindi, anzitutto non fabbricare castelli in aria: essi ci costano troppo cari, perocchè ci è forza, subito dopo, demolirli con molti sospiri. Ma dobbiamo guardarci ben di più dal darci angoscia rappresentandoci vivacemente mali che sono solamente possibili. Che se essi poi fossero completamente immaginarî od anche possibili solo in una eventualità molto lontana, sapremmo immediatamente al nostro svegliarci da tal sogno, che tutto questo non era che illusione; in conseguenza ci sentiremmo assai più contenti della realtà che si trova esser migliore, e ne trarremmo forse avvertimento per accidenti lontani, quantunque possibili. Ma la nostra fantasia non gioca facilmente con simili immagini; essa non fabbrica mai per puro divertimento se non prospettive ridenti. La stoffa de’ suoi sogni foschi è fornita dai mali che, quantunque lontani, ci minacciano effettivamente in una certa misura; ecco gli oggetti che essa ingrandisce, ecco gli oggetti di cui avvicina la possibilità alla verità e che dipinge coi colori più terribili. Allo svegliarci, non possiamo scuotere un tal sogno come facciamo delle visioni ridenti, perchè queste sono smentite senza indugio dalla realtà, e non lasciano dietro di sè che una debole speme di realizzazione. In cambio, quando ci abbandonìano ad idee nere (blue devils), avviciniamo immagini che non si staccano da noi tanto facilmente, perocchè la possibilità dell’avvenimento, in generale, è vera, e noi non siamo sempre in istato di misurarne con esattezza il grado; essa allora si trasforma ben presto in probabilità ed eccoci così in preda all’inquietudine. Si è per questo che dobbiamo considerare ciò che interessa il nostro bene o la nostra infelicità coi soli occhi della ragione e del raziocinio; bisogna riflettere prima seccamente e freddamente, e poi non operare che su nozioni ed in abstracto. L’immaginazione non deve entrar in giuoco, perché non sa giudicare; essa non può che presentare agli occhi immagini che commuovono l’anima senza vero motivo, e spesso molto dolorosamente. Si è alla sera che questa regola dovrebbe essere più strettamente osservata. Perocchè se l’oscurità ci rende paurosi e ci fa veder da per tutto figure spaventevoli, l’indecisione delle idee, che le è analoga, produce lo stesso risultato; infatti l’incertezza genera la mancanza di sicurezza: perciò gli oggetti della nostra meditazione, quando riguardano i nostri interessi, prendono facilmente di sera un’apparenza minacciosa e diventano spauracchi; a quell’ora la fatica ha rivestito lo spirito ed il raziocinio d’oscurità soggettiva, l’intelletto è accasciato e «θορυβουμενος» (turbato), e non è capace d’un esame profondo. Questo succede più di sovente la notte, a letto; lo spirito essendo interamente allentato, il raziocinio non ha più la sua piena potenza d’azione, mentre la fantasia è ancora attiva. La notte allora copre ogni essere ed ogni cosa della sua tinta fosca. Quindi i nostri pensieri, nel momento d’addormentarci o se ci svegliamo durante la notte, ci fanno apparire gli oggetti sfigurati ed inverosimili come in sogno; li vedremo così tanto più neri e terribili quanto più riguardano davvicino circostanze personali. Al mattino tali spauracchi svaniscono, proprio come i sogni: è quanto significa il proverbio spagnuolo: Noche tinta, blanco ed dia (La notte è colorata, bianco il giorno). Ma di sera, non appena è acceso il lume, la ragione, del pari dell’occhio, vede meno chiaramente che nel giorno; perciò quell’ora non è favorevole a meditazioni su soggetti seri, e specialmente su soggetti spiacevoli. Si è il mattino favorevole a ciò, come in generale, senza eccezione, ad ogni lavoro: lavoro dell’intelletto o lavoro manuale. Perchè il mattino è la giovinezza del giorno: tutto è gaio, fresco e facile al mattino e noi ci sentiamo vigorosi in quell’ora, e possiamo disporre di tutte le nostre facoltà. Non bisogna abbreviarlo levandosi tardi, nè sprecarlo in occupazioni od in discorsi volgari; ma invece è necessario considerarlo come la quintessenza della vita e, per così dire, come qualche cosa di sacro. In cambio la sera è la vecchiezza del giorno: noi siamo abbattuti, ciarlieri e storditi. Ciascun giorno è una piccola vita, lo svegliarsi e l’alzarsi una piccola nascita, ogni fresco mattino una piccola giovinezza, e il coricarsi colla sua notte di sonno una piccola morte. Ma, generalmente parlando, lo stata di salute, il sonno, il cibo, la temperatura, il tempo, l’ambiente, e mille altre condizioni esterne influiscono considerevolmente sulla nostra disposizione, e questa, a sua volta, sui nostri pensieri. Ne viene che il nostro modo di considerar le cose, come pure l’attitudine a produrre qualche opera, sono fino ad un certo punto subordinate al tempo ed anche al luogo. Goethe ha detto: «Afferrate la buona disposizione perocchè essa viene di rado». Non è solo per le concezioni oggettive e per i pensieri originali che ci è necessario attendere se e quando piaccia loro di venir a noi, ma anche la meditazione profonda d’una faccenda personale non riesce mai nell’ora fissata precedentemente e nel momento in cui vogliamo dedicarvici; essa pure sceglie da sè il suo tempo, e lo fa quando una conveniente figliazione delle idee si sviluppa spontanea, e quando possiamo seguirla con intera efficacia. Per meglio tener in freno la fantasia, come noi lo raccomandiamo, occorre non permetterle di ricordare e di colorire vivamente i torti, i danni, le perdite, le offese, le umiliazioni, le vessazioni, ecc., subíte per lo passato, perocchè con questo agitiamo nuovamente l’indegnazione, la collera, e tante altre odiose passioni assopite da lungo tempo, passioni che tornano ad imbrattare l’anima nostra. Secondo un bel confronto del neoplatonico Proclo, come in ogni città a lato dei nobili e della gente civile s’incontra la plebaglia d’ogni specie (οχλος), così in qualunque uomo, fosse pure il più nobile ed il più eminente, si trova l’elemento basso e volgare della natura umana, anzi qualche volta si potrebbe dire della natura bestiale. Questa plebaglia non deve esser eccitata al tumulto; né bisogna permetterle di mostrarsi alla finestra, perchè la vista ne è molto brutta. Ora quelle produzioni della fantasia, di cui parlammo adesso, sono i demagoghi del popolaccio. Aggiungiamo che la più piccola contrarietà, provenga pure dagli uomini o dalle cose, se ci occuperemo costantemente a ruminarla ed a dipingerla sotto colori vistosi ed a grossa scala, può ingrandirsi fino a diventare un mostro che ci faccia perdere il senno. È necessario invece accogliere molto prosaicamente e molto freddamente tutto ciò che è dispiacevole allo scopo di affliggersene il meno possibile. Nella stessa guisa che gli oggetti piccoli tenuti troppo da presso all’occhio diminuiscono il campo della visione e nascondono il mondo, così gli uomini e le cose che ci contornano più da vicino, quand’anche fossero dappoco ed indifferenti al più alto grado, occuperanno spesso la nostra attenzione ed i nostri pensieri al di là d’ogni convenienza, e svieranno idee ed affari d’alta importanza. Conviene reagire contro una tale tendenza.

14.° Alla vista di beni che noi non possediamo, ci diciamo molto volentieri: «Ah! Se questa cosa fosse mia!» ed un tal pensiero ce ne rende sensibile la privazione. Invece dovremmo spesso domandarci: «Che succederebbe se questa cosa non mi appartenesse?» Con ciò intendo che dovremmo qualche volta sforzarci d’immaginare i beni che possediamo come ci apparirebbero dopo averli perduti; e parlo dei beni d’ogni specie: ricchezze, salute, amico, amante, sposa, figlio, cavallo e cane, perocchè il più di sovente si è la perdita delle cose che ce ne insegna il valore. Al contrario il metodo che raccomandiamo avrà per primo risultato di fare che il loro possesso ci renderà immediatamente più felice che per lo avanti, ed in secondo luogo c’indurrà a premunirci con tutti i mezzi contro la loro perdita; sicchè non rischieremo i nostri averi, non irriteremo gli amici, non esporremo alla tentazione la fedeltà della moglie, avremo la massima cura della salute dei figli, e così di seguito. Noi cerchiamo spesso di rallegrare la tinta smorta del presente con speculazioni sulla possibilità di buona fortuna, ed immaginiamo ogni sorta di speranze chimeriche ciascuna delle quali è piena di delusioni; perciò queste non mancano di arrivare non appena le speranze vengono a rompersi contro la dura realtà. Bisognerebbe piuttosto sceglier per tema delle nostre speculazioni la cattiva sorte; ciò che ci porterebbe a prendere disposizioni allo scopo di allontanarla, e ci procurerebbe talora gradite sorprese quando essa non si realizza. Non si è forse più allegri dopo sortiti da qualche angoscia? È anche salutare rappresentarci in mente certe grandi sventure che potrebbero eventualmente venire a colpirci; questo gioverà a farci sopportare più facilmente mali meno gravi quando in fatto siano su di noi, perocchè allora ci consoliamo ritornando col pensiero su quelle disgrazie ben più terribili che non si sono realizzate. Ma praticando questa regola bisogna aver cura di non trascurare la precedente.

15.° Gli avvenimenti e gli affari che ci risguardano si producono e si succedono isolatamente, senza ordine, e senza mutuo rapporto, in sorprendente contrasto gli uni cogli altri, e senza altro legame che quello di riferirsi a noi; ne risulta che i pensieri e le cure necessarie dovrebbero essere altrettanto nettamente distinte, al fine di corrispondere agli interessi che le hanno provocate. In conseguenza quando intraprendiamo una cosa, bisogna condurla a termine facendo astrazione da qualunque altro affare, allo scopo di compiere, gustare o subire ogni cosa a suo tempo senza cure moleste di tutto il resto; dobbiamo avere nei nostri pensieri, per così dire, degli scompartimenti per non aprirne che un solo mentre gli altri resteranno chiusi. Vi troveremo il vantaggio di non guastare ogni piccolo piacere attuale e di non perdere il riposo per la preoccupazione di qualche grande affanno; guadagneremo ancora perchè un pensiero non ne caccierà un altro, e perchè la cura d’un affare importante non ce ne farà dimenticare molti di piccoli, ecc. Ma sopratutto l’uomo capace di pensieri nobili ed elevati non deve lasciare che il suo spirito sia assorbito dagli affari personali e preoccupato da basse cure al punto che sia chiuso l’accesso alle più alte meditazioni, perocchè sarebbe veramente «propter vitam, vivendi perdere causas» (per la vita perdere le cause del vivere). È indubitato che per far eseguire al nostro spirito tutte queste manovre e contromanovre ci abbisogna, come in molte altre circostanze, esercitare una violenza su noi stessi; tuttavia dovremmo attingerne la forza nella riflessione che l’uomo subisce dal mondo esterno numerose e potenti tirannie alle quali nessuna esistenza può sottrarsi, ma che un piccolo sforzo esercitato su sè stessi ed applicato a tempo e luogo opportuno, può ovviare sovente ad una grande pressione esterna; allo stesso modo nel cerchio un piccolo taglio vicino al centro corrisponde ad un’apertura talvolta centupla alla periferia. Nessuna cosa ci sottrae alla tirannia del di fuori meglio della nostra soggezione a noi stessi: ecco il significato della sentenza di Seneca: «Se vuoi che le cose tutte sieno a te sottomesse, sottometti te stesso alla ragione» (Ep. 37). Inoltre una tale soggezione a noi stessi è sempre in nostro potere, e in un caso estremo, o quando essa posasse sovra il punto più sensibile, noi abbiamo la facoltà di rallentarla un poco, mentre la pressione esterna non ci risparmia mai, ed è per noi senza riguardi e senza pietà. Per ciò è cosa saggia prevenir questa con quella.

16.° Limitare i propri desideri, frenare le brame, domare la collera, ricordandoci incessantemente che ogni individuo non può conseguir mai se non una parte infinitamente piccola di ciò che è desiderabile, e che in cambio mali senza fine devono colpire tutti gli umani; in una parola «απεχειν και ανεχειν, abstinere et sustinere» (contenersi e sostenersi), ecco la regola senza l’osservanza della quale nè ricchezza nè potere potranno impedirci di sentire la nostra miserabile condizione. Orazio disse in proposito: «In ogni cosa leggi ed interroga i dotti; in tal modo cerca di condur vita felice, affinchè non ti agiti e non ti strazi la cupidigia sempre povera, oppure il timore e la speranza di cose invero mediocremente utili». (Ep. I, 18, 96-99).

17.° Ο βιος ἐν τη κινησει ἐστι, la vita sta nel movimento, ha detto con ragione Aristotele: come la nostra vita fisica consiste unicamente nel movimento, così la nostra vita interna, intellettuale, richiede un’occupazione costante, un’occupazione in qualunque cosa, sia per mezzo dell’azione, sia per mezzo del pensiero; ecco quanto prova quella manìa che ha la gente oziosa di mettersi a stamburare colle dita o col primo oggetto che cade loro sotto mano. L’agitazione infatti è l’essenza della nostra vita; una inazione completa diviene ben presto insopportabile perocchè genera la noia più orribile. E regolando tale istinto si può soddisfarlo metodicamente e con più frutto. L’attività è indispensabile per esser felici; è necessario che l’uomo agisca, che compia, se ciò gli è possibile, qualche lavoro, od almeno che impari qualche cosa; le sue forze domandano il loro impiego ed egli stesso non chiede che di vederle produrre un risultato qualsiasi. In questo rapporto la sua soddisfazione più grande consiste nel lavorare a qualche cosa, paniere o libro; ma ciò che gli apporta una felicità immediata si è il vedere, giorno per giorno, crescere l’opera propria sotto le mani facendosi grado a grado più perfetta. Una creazione artistica, uno scritto od anche un semplice lavoro manuale producono interamente questo effetto; bene inteso che quanto più la natura dell’opera è nobile tanto più il piacere è elevato. A questo riguardo i più felici sono gli uomini altamente dotati che si sentono capaci di produrre le opere più importanti, più grandiose e più fortemente ragionate. Ciò sparge su tutta la loro esistenza un interesse d’ordine superiore e le comunica un sapere che fa difetto negli altri uomini; ne viene che la vita di questi ultimi è insipida in confronto dell’altra. Infatti per le persone eminenti la vita ed il mondo, a lato dell’interesse comune, materiale, ne hanno un altro più elevato e formale, che è quello di contenere la stoffa delle loro opere; si è quindi a raccoglier questi materiali che esse attivamente si occupano durante il corso del viver loro, non appena la loro parte di miserie terrestri le lascia un momento in riposo. Il loro intelletto è anche, fino ad un certo punto, doppio: una parte giova per gli affari ordinarî (oggetti della volontà) e somiglia a quella comune a tutti; l’altra invece serve per la concezione puramente oggettiva delle cose. Questi uomini vivono così d’una vita doppia, spettatori ed attori in una volta, mentre gli altri non sono che attori. Bisogna tuttavia che ciascheduno si occupi in qualche cosa, nella misura delle sue facoltà. Si può constatare l’influenza perniciosa dell’assenza d’attività regolare, d’un lavoro qualsiasi, durante i lunghi viaggi di piacere, quando di tempo in tempo ci sentiamo infelici per la sola ragione che, privati di qualunque occupazione reale, ci troviamo, per così dire, strappati dal nostro elemento naturale. Faticare e lottare contro le resistenze è un bisogno per l’uomo, come per la talpa scavar buchi. L’immobilità che sarebbe prodotta dalla soddisfazione completa d’un godere continuo gli riescirebbe insopportabile. Vincere gli ostacoli costituisce il colmo del piacere nell’esistenza umana, sieno gli ostacoli di natura materiale come nell’azione e nell’esercizio, oppure si riferiscano allo spirito come nello studio e nelle ricerche: si è la lotta e la vittoria che rendono l’uomo felice. Se l’occasione gli manca, ei se la crea come può: secondo lo comporta la sua individualità andrà a caccia o giuocherà alla trottola, oppure, spinto dall’inclinazione inconscia della sua natura, susciterà contese, ordirà intrighi, macchinerà inganni o non importa quale altra disonestà, al solo scopo di mettere un termine allo stato d’immobilità che non può sopportare. «Difficilis in otio quies» (È difficile la calma nell’ozio).

18.° Non sono le immagini della fantasia, ma nozioni nettamente concette che bisogna prendere per guida nei propri lavori. Il contrario succede molto di frequente. Bene esaminando, si scorge che ciò che nelle nostre determinazioni viene in ultima istanza a render decisiva la sentenza, non sono ordinariamente le nozioni ed i giudici, ma lo è bensì un’immagine della fantasia che le rappresenta e le sostituisce. Non so più in quale romanzo di Voltaire o di Diderot la virtù appare sempre all’eroe, posto come Ercole adolescente al bivio della vita, sotto l’aspetto del suo vecchio ajo che moralizza tenendo la tabacchiera nella mano sinistra ed una presa di tabacco nella destra; il vizio invece colle sembianze della cameriera di sua madre. Si è particolarmente durante la giovinezza che lo scopo della nostra felicità si fissa sotto la forma di certe immagini che volteggiano davanti noi e che persistono spesso durante la metà, e qualche volta durante tutto il corso della vita. Sono esse veri folletti che ci tormentano, perchè appena raggiunte svaniscono e l’esperienza viene ad insegnarci che non mantengono affatto ciò che promettevano. Di questo genere sono le scene speciali della vita domestica, civile, sociale o rurale, le idee sull’abitazione e sulla nostra società, le decorazioni cavalleresche, le testimonianze di rispetto, ecc., ecc.; «chaque fou a sa marotte»36 (ogni pazzo ha la sua impresa); anche l’immagine dell’innamorata ne è una. È ben naturale che sia così, perocchè ciò che si vede, essendo l’immediato, agisce sulla nostra volontà più facilmente della nozione, il pensiero astratto, che non dà che il generale senza il particolare; ora è proprio quest’ultimo che contiene il reale: la nozione non può dunque agire sulla volontà se non mediatamente. E tuttavia non v’ha che la nozione che mantenga quanto promette: è quindi prova di coltura intellettuale porre in essa sola tutta la propria fede. Di tratto in tratto si farà certamente sentire il bisogno di dare una spiegazione o di fare una parafrasi col mezzo di qualche immagine, ma soltanto «cum grano salis.»

19.° La regola precedente fa parte di quest’altra massima più generale che bisogna sempre saper dominare l’impressione di tutto ciò che è presente e visibile. Questo in riguardo al semplice pensiero, alla conoscenza pura, è incomparabilmente più forte, non in virtù della materia e del valore, che sono spesso insignificanti, ma in virtù della forma, vale a dire della visibilità e dell’attualità diretta le quali penetrando nello spirito ne turbano il riposo o ne rendono incerte le risoluzioni. Infatti ciocchè è presente, ciocchè è visibile, potendo facilmente esser abbracciato d’uno sguardo, agisce sempre d’un colpo solo, e con tutta la sua potenza; invece i pensieri e le ragioni, dovendo esser meditate pezzo per pezzo, richiedono e tempo e tranquillità, e non possono essere ad ogni momento ed interamente presenti allo spirito. Si è per questo che una cosa gradevole a cui la riflessione ci ha fatto rinunziare ci alletta ancora colla sua vista; così pure una opinione di cui conosciamo l’assoluta incompetenza tuttavia ci offende; un oltraggio ci irrita benchè sappiamo che esso non merita se non disprezzo, nello stesso modo dieci ragioni contro l’esistenza d’un pericolo, sono vinte dalla falsa apparenza della sua comparsa, ecc. In tutte queste circostanze prevale la irragionevolezza originale del nostro essere. Le donne sono ben di frequente soggette a tali impressioni, e pochi uomini hanno una ragione abbastanza preponderante per non aver a soffrire dai loro effetti. Quando non possiamo dominarle interamente col solo pensiero, ciò che di meglio possiamo fare si è di neutralizzare un’impressione coll’impressione contraria: per esempio l’impressione di un’offesa con visite alle persone che ci stimano, l’impressione di un pericolo che ci minaccia colla vista reale dei mezzi proprî ad allontanarlo. Un italiano, di cui Leibnitz ci racconta la storia, (Saggi critici, L. I, c. II, § 11), riescì perfino a resistere ai dolori della tortura: a ciò, con ferma risoluzione presa prima, impose alla sua immaginazione di non perdere di vista un solo istante la figura della forca a cui lo avrebbe senza dubbio condannato qualunque sua confessione; sicchè ei gridava di tratto in tratto: «Ti vedo», parole che, come spiegò più tardi, si riferivano al patibolo. Per la stessa ragione quando tutti intorno a noi sono d’un’opinione differente della nostra e si conducono conseguentemente ad essa, è difficile non lasciarsi smuovere dalle nostre idee quand’anche si fosse convinti che gli altri sono nell’errore. Per un re fuggitivo, inseguito e che viaggia seriamente incognito, il cerimoniale di ossequio che il suo compagno e confidente osserverà quando sono a quattr’occhi deve essere un cordiale quasi indispensabile perchè lo sventurato non giunga a dubitare della sua stessa esistenza.

20.° Dopo aver fatto spiccare fino dal secondo capitolo l’alto valore della salute come condizione prima, ed importantissima fra tutte, della nostra felicità, voglio indicare alcune regole di condotta molto generali per conservarla e fortificarla. Per farsi robusti è necessario, finchè si è in buona salute, sottoporre il corpo nel suo insieme, come pure in ciascuna delle sue parti, a sforzi ed a fatiche, e abituarsi a resistere a tutto quello che può male impressionarlo, per quanto bruscamente ciò possa succedere. Non appena, invece, si manifesta uno stato morboso sia del tutto, sia d’una parte, si dovrà ricorrere immediatamente al procedimento contrario, vale a dire risparmiare e curare in ogni maniera il corpo o la parte malata: perocchè chi è sofferente o snervato non è suscettibile di esser aspramente invigorito. I muscoli si fortificano; al contrario i nervi s’indeboliscono per un forte uso. Conviene dunque esercitare i primi con tutti gli sforzi convenienti e risparmiare invece qualunque sforzo ai secondi; in conseguenza difendiamo gli occhi dalla luce troppo viva specialmente quando è riflessa, dalla fatica della semioscurità e del guardare a lungo oggetti troppo piccoli; preserviamo egualmente le orecchie dagli strepiti troppo forti, ma soprattutto evitiamo al cervello qualunque applicazione forzata, sostenuta troppo a lungo od intempestiva; lo si lasci quindi riposare durante la digestione perocchè allora quella stessa forza vitale che, nella testa, forma i pensieri, lavora con tutti i suoi sforzi nello stomaco e negli intestini a preparare il chimo ed il chilo; esso deve egualmente riposare durante e dopo un lavoro muscolare considerevole. Perocchè per i nervi motori come per i nervi sensitivi le cose procedono nello stesso modo, e, come il dolore provato in un membro leso ha la vera sua sede nel cervello, così non sono le braccia e le gambe che faticano e camminano, ma il cervello, cioè quella parte di esso che, per mezzo della midolla allungata e della midolla spinale, eccita i nervi di questi membri e li fa muovere. Perciò la fatica che proviamo alle gambe od alle braccia ha la sua sede reale nel cervello; ed è per questo che le membra il cui movimento è sottomesso alla volontà, ossia ha impulso dal cervello, sono i soli che si stancano, mentre quelli il cui lavoro è involontario, come per esempio, il cuore, sono instancabili. Evidentemente adunque sarà nuocere al cervello l’esiger da esso un’attività muscolare energica e una grande tensione dello spirito, sia simultaneamente, sia soltanto dopo un intervallo di tempo troppo corto. Ciò non è per nulla in contraddizione col fatto che al termine d’una passeggiata od in generale dopo un breve cammino si prova un aumento nell’attività dello spirito, perocchè in questo caso non v’ha per anco fatica delle parti respettive del cervello, e d’altra parte una leggera attività muscolare, accelerando la respirazione, favorisce il salire del sangue arterioso, per di più meglio ossigenato, al cervello. Ma bisogna sopratutto dare ad esso la piena misura del sonno necessario al suo ristoro, perchè il sonno è per la macchina umana ciò che il caricamento della molla è per l’oriuolo. (Si veda Il mondo come volontà e come fenomeno II, 217. — 3a ed. II, 240). Tale misura dovrà esser tanto più grande quanto più il cervello sarà sviluppato ed attivo; però oltrepassarla sarebbe semplicemente uno sprecare il tempo, perocchè allora il sonno perde in intensità ciò che guadagna in estensione. (Si veda Il mondo come volontà e come fenomeno II, 247. — 3a ed. II, 275).37 In generale persuadiamoci bene del fatto che il nostro pensare non è altro che la funzione organica del cervello, e che quindi esso si conduce, in quanto riguarda la fatica e il riposo, in modo analogo a quello di qualunque altra attività organica. Uno sforzo eccessivo stanca il cervello come stanca gli occhi. Si è detto con ragione: Il cervello pensa come lo stomaco digerisce. L’idea di un’anima immateriale, semplice, essenzialmente e costantemente pensante, quindi instancabile, che sarebbe come allogata a pigione nel cervello, e che non avrebbe bisogno di cosa alcuna al mondo, una tale idea ha certamente spinto più di qualcheduno ad una condotta insensata, condotta che ha rintuzzato le sue forze intellettuali; Federico il Grande, per esempio, non ha tentato una volta di disavvezzarsi totalmente dal sonno? I professori di filosofia dovrebbero bene non incoraggiare simili illusioni, dannose anche in pratica, col loro sistema ortodosso di filosofia da connocchia (Katechismusgerechtseynwollende Rocken-Philosophie). Bisogna apprendere a considerare le forze intellettuali quali funzioni fisiologiche allo scopo di saperle usare, risparmiare od affaticare a proposito; si deve ricordarsi che ogni dolore, ogni disagio, ogni disordine in una parte qualunque del corpo, impressiona lo spirito. Per convincersi pienamente di tale verità bisogna leggere: Cabanis, I rapporti del fisico e del morale nell’uomo. Si è per aver trascurato di seguire questo consiglio che molte menti sublimi e molti grandi scienziati, sono caduti da vecchi nell’imbecillità, nell’infanzia e insino nella follia. Se, per esempio, celebri poeti inglesi del nostro secolo, quali Walter Scott, Wordsworth, Southey, e vari altri, giunti a tarda età, e pur anche fino dalla sessantina, sono divenuti intellettualmente ottusi ed inetti, e talvolta imbecilli, senza dubbio bisogna attribuirlo al fatto che sedotti da stipendi elevati, hanno tutti esercitato la letteratura come un mestiere scrivendo per del danaro. Un tal mestiere conduce ad una fatica contro natura: chiunque sottomette il proprio Pegaso al giogo e spinge avanti la Musa colla frusta dovrà espiarne la colpa nella stessa maniera di colui che ha reso un culto forzato a Venere. Io credo che lo stesso Kant, in età avanzata, già divenuto celebre, si sia dato ad un lavoro eccessivo ed abbia provocato così quella seconda infanzia in cui passò i suoi ultimi quattro anni di vita. Ogni mese dell’anno ha un’influenza speciale e diretta, vale a dire indipendente dalle condizioni meteorologiche, sulla nostra salute, sullo stato generale del nostro corpo, ed insino sullo stato del nostro spirito.

3. Circa la nostra condotta verso gli altri.

21.° Per mettersi fra la gente è utile portar seco una buona provvista di circospezione e d’indulgenza; la prima ci garantirà dai danni e dalle perdite, l’altra dalle contese e dagli alterchi. Chi è chiamato a vivere fra gli uomini non deve respingere in modo assoluto alcuna individualità dal momento che essa è già determinata e data dalla natura, fosse pure l’individualità la più malvagia, la più miserabile o la più ridicola. Ei deve piuttosto accettarla come una immutabilità che, in virtù d’un principio eterno e metafisico, deve essere quale è; e nel peggior dei casi dirà a sè stesso: «Bisogna bene che vi sia pure qualcuno di questa specie.» Che se prendesse la cosa altrimenti, commetterebbe un’ingiustizia e provocherebbe l’altro ad una lotta di vita e morte. Perocchè non v’ha uomo che possa modificare la propria individualità, vale a dire il carattere morale, le facoltà intellettuali, il temperamento, la fisonomia, ecc. Se dunque condanniamo senza eccezione il suo essere, non gli resterà che a combattere in noi un nemico mortale dal momento che noi non vogliamo riconoscergli il diritto di esistere se non alla condizione di diventare altra cosa da ciò che è immutabilmente. Ed è per questo che, quando si vuol stare fra gli uomini, bisogna lasciar vivere ciascheduno ed accettarlo coll’individualità, qualunque essa sia, che gli è toccata in sorte, occupandosi unicamente di utilizzarla in quanto la sua qualità e la sua organizzazione lo permettono, ma senza sperare di modificarla e senza condannarla puramente e semplicemente così come è. Ecco il vero significato del detto: «Vivere e lasciar vivere,» Tuttavia il cómpito non è così facile come è giusto; si chiami felice colui al quale è dato di poter evitare per sempre certe individualità. Intanto, per imparar a sopportare gli uomini, è buona cosa esercitare la pazienza sugli oggetti inanimati che, in virtù d’una necessità meccanica o di qualunque altra necessità fisica, contrariano ostinatamente la nostra azione; a ciò fare abbiamo occasione ogni giorno. Si apprende poi a trasportare sugli uomini la pazienza così acquistata, e si finisce coll’avvezzarsi all’idea che anch’essi, tutte le volte che ci sono di ostacolo, lo sono per forza maggiore, in virtù d’una necessità naturale così rigorosa come quella per cui agiscono le cose inanimate: che per conseguenza è cosa tanto insensata sdegnarsi della loro condotta quanto stizzirsi contro la pietra che viene a rotolare sui nostri passi. Riguardo molte persone sarà più saggio dirsi: «Non le cambierei, dunque voglio utilizzarle».

22.° È sorprendente il vedere a qual punto si manifesti nella conversazione l’omogeneità o l’eterogeneità di spirito e di carattere fra gli uomini; esse divengono sensibili alla più piccola occasione. Tra due persone, di natura essenzialmente diversa, che discorreranno sopra soggetti i più indifferenti, i più strani, ogni frase dell’una dispiacerà più o meno all’altra, e forse un solo detto la farà montare in collera. Quando esse invece si rassomiglino, sentono immediatamente ed in ogni cosa un certo accordo che, quando l’omogeneità è molto spiccata, si fonde in un’armonia perfetta, e può giungere insino all’unissono. Con ciò si spiega in primo luogo perchè gl’individui molto triviali sono tanto sociabili e trovano così facilmente dappertutto quell’eccellente compagnia che chiamano «buona e brava gente amabilissima». Succede precisamente il contrario agli uomini che non sono volgari, ed essi saranno tanto meno sociabili quanto più sono eminenti, talmente che qualche volta nel loro isolamento potranno provare un vero piacere nello scoprire presso un’altra persona una fibra qualunque, fosse pur piccolissima, della loro stessa natura. Perocchè ogni uomo non può essere per un altro se non ciò che questi stesso è per lui. Come l’aquila, gli spiriti realmente superiori vagano per le altezze, solitarî. Ciò spiega, in secondo luogo, come gli uomini che hanno le stesse inclinazioni si trovino così presto riuniti assieme, come si attirino magneticamente: le anime sorelle si salutano da lontano. Si potrà osservar questo più di frequente presso gl’individui di sentimenti bassi o di scarsa intelligenza; ma è unicamente perchè costoro si chiamano legione, mentre gli animi buoni e nobili sono e si chiamano esseri d’alta rarità. Sicchè succederà, per esempio, che in qualche vasta associazione fondata in vista di risultati effettivi, due bricconi matricolati si riconosceranno scambievolmente tanto presto come se portassero una coccarda, e si avvicineranno subito per immaginare qualche abuso o qualche tradimento. Medesimamente supponiamo, per impossibile38, una società numerosa composta affatto da uomini intelligenti e di spirito, ma della quale facessero parte pure due imbecilli; questi ultimi si sentirebbero attratti simpaticamente l’uno verso l’altro, e ben presto ciascuno di loro sarebbe contento nel suo cuore d’aver finalmente trovato almeno una persona ragionevole. È in verità degno di nota il vedere coi propri occhi come due esseri, principalmente fra coloro che stanno ad un basso livello dal lato morale ed intellettuale, si conoscono a prima vista, tendono ardentemente ad avvicinarsi, si salutano con amore e con gioia, e corrono uno incontro all’altro siccome vecchie conoscenze; tutto questo è tanto maraviglioso che si è tentati d’ammettere, secondo la dottrina buddistica della metempsicosi, che costoro si erano già legati d’amicizia in una vita anteriore. V’ha però un fatto che, anche nel caso della massima armonia, mantiene gli uomini lontani gli uni dagli altri e che giunge fino a creare tra loro una dissonanza transitoria: sarebbe esso la differenza della disposizione del momento, disposizione che è quasi sempre diversa per ogni persona secondo la sua situazione momentanea, l’occupazione, l’ambiente, lo stato del corpo, il corso attuale dei pensieri, ecc. Ecco quanto produce dissonanze fra individualità che pure vanno d’accordo magnificamente bene. Sforzarsi continuamente a correggere ciò che fa nascere questi dissensi ed a stabilire l’eguaglianza della temperatura ambiente, sarebbe l’effetto di una suprema coltura intellettuale. Si avrà la misura di ciò che può produrre per la società l’eguaglianza dei sentimenti dal fatto che i membri d’una riunione, anche molto numerosa, saranno portati a comunicarsi reciprocamente lo loro idee, a prender parte sinceramente all’interesse ed al sentimento generale, non appena qualche causa esterna, un pericolo, una speranza, una notizia, la vista d’una cosa straordinaria, uno spettacolo, un trattenimento musicale, o non importa quale altra cosa, viene ad impressionarli tutti nel medesimo istante e nella stessa maniera. Perocchè questi motivi soggiogano qualunque interesse particolare e creano in cotal guisa l’unità perfetta di disposizione. In mancanza d’una tale influenza oggettiva si ricorre d’ordinario a qualche espediente soggettivo, ed allora si è la bottiglia che viene chiamata abitualmente a procurare una disposizione comune alla compagnia. Il tè ed il caffè sono del pari impiegati a tale effetto. Ma quello stesso disaccordo che la diversità d’umore introduce così facilmente in ogni società, porge anche la spiegazione parziale del fatto che ciascuno apparisce come idealizzato, qualche volta anzi trasfigurato nel ricordo, quando questo non è più sotto l’impero dell’influenza momentaneamente perturbatrice di cui tenemmo parola, o di qualunque altra consimile. La memoria agisce nello stesso modo della lente convergente nella camera oscura: essa riduce tutte le dimensioni, e produce così un’immagine molto più bella dell’originale. Ogni assenza ci procura parzialmente il vantaggio d’esser veduti sotto un tale aspetto. Perocchè sebbene il ricordo idealizzatore richieda un tempo considerevole, nondimeno il suo lavoro comincia immediatamente. Per questo sarà buona e saggia cosa non mostrarsi ai propri conoscenti ed amici che a lunghi intervalli; si osserverà, nel rivedersi, che il ricordo ha già lavorato.

23.° Nessuno può vedere al di là di sè stesso. Voglio dire con ciò che non si può scorgere in altri più di quello che si è in sè stessi, perocchè ciascuno capisce e comprende un altro solamente nella misura della sua propria intelligenza. Se questa è della specie più bassa, tutti i doni intellettuali più eminenti non lo impressioneranno affatto, ed egli non vedrà nell’uomo così altamente dotato se non ciò che v’ha di più basso nell’individualità, cioè tutte le debolezze e tutti i difetti di temperamento e di carattere. Ecco di che il grand’uomo sarà composto agli occhi suoi. Le alte facoltà intellettuali dell’uno esistono così poco per l’altro come i colori per i ciechi. E ciò viene perchè qualunque genio resta invisibile per chi ne è privo; e perchè qualunque valutazione rappresenta il prodotto del valore dello stimato per la sfera d’apprezzamento dello stimatore. Ne segue che quando si discorre con qualcuno si va a mettersi sempre al suo livello, poichè tutto ciò che si ha al di sopra sparisce, e di più il sacrifizio di sè stesso che esige un tale aggiustamento rimane perfettamente disconosciuto. Se dunque si rifletterà quanto la maggior parte degli uomini abbia sentimenti e facoltà di bassa lega, in una parola quanto essi sieno triviali, si vedrà che è cosa impossibile parlare con loro senza diventare a sua volta triviale durante questo intervallo (in analogia colla distribuzione dell’elettricità); si comprenderà allora il significato effettivo e la verità dell’espressione tedesca «sich gemein machen» (rendersi famigliare), e si cercherà di evitare qualunque compagnia colla quale non si possa comunicare se non mediante la partie honteuse (la parte più brutta) della propria natura. Si capirà egualmente che in presenza di imbecilli o di pazzi non v’ha che una sola maniera di mostrare che si è forniti di ragione: cioè non parlare con essi. Ma è pur vero che allora, in società, più di qualcheduno potrebbe trovarsi nella situazione di un ballerino che entrasse in un ballo ove non ci fossero che degli attrappiti: con chi danzerebbe egli?

24.° Io accordo tutta la mia stima, come ad un eletto fra cento individui, a colui che essendo disoccupato, perchè aspetta, non si mette immediatamente a dar colpi od a battere il tempo con tutto ciò che gli viene in mano, bastone, coltello, forchetta od altro oggetto qualunque. È probabile che quest’uomo pensi a qualche cosa. Si conosce alla cèra della maggior parte degli uomini che presso di essi la vista surroga interamente il pensiero; costoro cercano di accertarsi della loro esistenza facendo strepito, a meno che non abbiano in bocca un sigaro, ciò che rende loro lo stesso servizio. Si è per la medesima ragione che essi stanno costantemente cogli occhi e colle orecchie tese per attendere a tutto quello che succede loro d’intorno.

25.° La Rochefoucauld ha molto giustamente osservato che è difficile nello stesso tempo stimare ed amare assai un uomo. Avremo dunque la scelta di brigare l’amore o la stima della gente. L’amore è sempre interessato, benchè a titoli diversi. Di più le condizioni con cui lo si acquista non sono sempre tali da rendercene fieri. E prima di tutto ci faremo amare nella misura a cui abbasseremo le nostre pretese di trovare spirito e cuore presso gli altri, ma ciò seriamente, senza finzioni, e non in virtù di quell’indulgenza che ha la sorgente nel disprezzo. Per completare le premesse che ajuteranno a tirar la conclusione, ricordiamo anche la sentenza così vera di Helvetius: «Il grado di spirito necessario per piacerci è una misura assai precisa del grado di spirito che abbiamo noi stessi». Succede tutto il contrario quando si tratta della stima degli uomini: non la si può ottenere che loro malgrado, quasi strappandola; essi la tengono anche il più delle volte nascosta. Ed è per tale ragione che questa ci procura una soddisfazione interna molto più grande; essa è in proporzione col nostro valore, ciò che non è vero direttamente dell’amore della gente, perocchè l’amore è soggettivo, mentre è oggettiva la stima. Ma il primo ci è di certo più utile.

26.° Gli uomini, nella maggior parte, sono talmente personali che, in sostanza, nessuna cosa ha interesse agli occhi loro se non essi stessi, e ciò affatto esclusivamente. Ne risulta che, qualunque sia l’argomento di cui si parla, essi pensano tosto a sè stessi, e che tutto quello che, per azzardo e pur lontanamente, si riferisce a cosa che li riguardi, attira e si cattiva tanto completamente la loro attenzione che essi non hanno più la libertà di capire la parte oggettiva del discorso; medesimamente non v’hanno per loro ragioni valevoli dal momento che queste contrariano il loro interesse o la loro vanità. Perciò sono costoro così facilmente distratti, così facilmente feriti, offesi ed afflitti che, quando pure si parlasse con essi dal punto di vista soggettivo, non importa su cosa, non si saprà mai guardarsi abbastanza da tutto ciò che potrebbe nel discorso aver un rapporto possibile, forse ingrato, col prezioso e delicato io che si ha davanti; niente fuori di questo io, li interessa, e mentre non hanno sensi nè sentimento per quanto v’ha di vero e di notevole, o di bello, di fine, di spiritoso nelle parole altrui, possedono la più squisita sensibilità per tutto ciò che, pur da lontano ed in modo indiretto, può toccare la loro meschina vanità o riferirsi svantaggiosamente, in qualsivoglia modo, al loro inapprezzabile io. Somigliano davvero, nella loro suscettibilità, a quei botoli sulle cui zampe è così facile camminare per inavvertenza e di cui bisogna poi sopportare il guaire, od anche ad un malato coperto di piaghe e di lividure che si deve con ogni cura evitar di toccare. Ve n’ha di quelli presso i quali la cosa arriva ad un tal punto che sentono precisamente come un’offesa lo spirito ed il senno che si mostra o che non si nasconde abbastanza nel parlar con loro; non lo danno a vedere, è vero, al momento, ma in seguito colui che non ha abbastanza esperienza rifletterà e si lambiccherà inutilmente il cervello per sapere con che si abbia potuto attirare il rancore e l’odio loro. Però è altrettanto facile carezzarli e guadagnarseli. La loro sentenza quindi è d’ordinario comperata: essa non è che un decreto in favore del loro partito o della loro classe, e non un giudizio oggettivo ed imparziale. Ciò viene perchè presso di essi la volontà sorpassa di molto l’intelligenza, e perchè il loro debole intelletto è affatto sommesso al servigio della volontà da cui non può francarsi un solo istante. Tale miserabile soggettività degli uomini che li fa riferire tutto a sè stessi, e ritornare immediatamente e in dritta linea da qualunque punto di partenza alla loro persona, è provata sovrabbondantemente dall’astrologia, che rapporta il cammino dei grandi corpi dell’universo al vilissimo io e che trova una certa relazione tra le comete in cielo e le contese e le miserie sulla terra. Ma così fu sempre, anche nei tempi più antichi (si veda per esempio Stobeo, Egloghe, L. I, c. 22, 9, pag. 478).

27.° Non bisogna disperare ad ogni assurdità che si dice in pubblico o in società, che si stampa nei libri e che è bene accolta od almeno che non è confutata; e nemmeno bisogna credere che essa rimarrà accettata per sempre. Si sappia, a propria consolazione, che più tardi e insensibilmente la cosa sarà ruminata, lucidata, meditata, pesata, discussa, e il più delle volte finalmente giudicata, di modo che, dopo uno spazio di tempo variabile in ragione della difficoltà della materia, la gente quasi tutta finirà col capire ciò che una mente chiara aveva scorto a prima vista. È certo che nell’intervallo bisogna pazientare. Perocchè l’uomo di senno fra persone che sono nell’errore somiglia a colui che avesse l’orologio perfettamente giusto in una città in cui tutti gli orologi fossero mal regolati. Ei solo conosce l’ora precisa, ma che giova? Tutti prenderanno sempre norma dai pubblici quadranti che indicano un’ora falsa: tutti, anche colui che sapesse per caso come solamente l’orologio del primo segni l’ora vera.

28.° Gli uomini somigliano ai fanciulli che prendono brutte maniere quando sono viziati; non si deve quindi esser troppo indulgenti o troppo amabili verso alcuno. Come ordinariamente non si perderà un amico per avergli rifiutato un prestito, ma piuttosto per averglielo accordato, così non lo si perderà per un atteggiamento altero e per un po’ di negligenza, ma piuttosto per un eccesso d’amabilità e di cortesia: con ciò ei diviene arrogante, insopportabile, e la rottura non tarda a predarsi. È sopratutto l’idea che si ha bisogno di loro che gli uomini non possono assolutamente sopportare; essa è sempre seguita inevitabilmente da arroganza e da presunzione. Presso alcuni tale idea nasce già per questo solo che una persona è in relazione e discorre di sovente e famigliarmente con loro: s’immaginano tosto che bisogna mostrarsi condiscendenti, e cercheranno di estendere i limiti della gentilezza. Per questo havvi così scarsa gente da poter frequentare con un po’ d’intimità; sopratutto poi si deve guardarsi da qualunque domestichezza con esseri di basso grado. Che se per disgrazia un individuo di questa specie s’immagina che io abbia bisogno di lui assai più che egli non ne abbia di me, proverà immediatamente un sentimento quale se io gli avessi rubato qualche cosa: allora cercherà di vendicarsi e di riacquistare la sua proprietà. Non aver mai ed in alcun modo bisogno degli altri e farlo veder loro, ecco assolutamente la sola maniera di mantenere la propria superiorità nelle relazioni. Per conseguenza è cosa saggia far sentire a tutti, uomini e donne, che si può benissimo star senza di loro; ciò fortifica l’amicizia: è anche utile di lasciar qualche volta introdursi un granellino di disdegno nel nostro atteggiamento verso la maggior parte degli amici; essi non faranno che valutare a più alto prezzo la nostra amicizia. «Chi non istima vien stimato» dice finemente un proverbio italiano. Ma se qualcuno avesse realmente un gran valore ai nostri occhi bisognerebbe dissimularglielo come un delitto. Ciò che davvero non è proprio piacevole, ma in cambio è verissimo. A mala pena i cani sopportano una grande benevolenza; ben altrimenti gli uomini.

29.° Le persone della specie più nobile e dotate delle più alte facoltà tradiscono, specialmente in gioventù, una mancanza sorprendente di conoscenza degli uomini e di saper fare; si lasciano anche facilmente ingannare o traviare, mentre esseri inferiori sanno molto meglio e molto più prontamente vivere nel mondo; ciò succede perchè, in mancanza d’esperienza, si deve giudicare a priori e perchè in generale nessuna esperienza vale l’a priori. Alla gente di calibro ordinario questo a priori è fornito dal loro stesso io, mentre non lo è a coloro che hanno una nobile e degna natura, perocchè è precisamente in questo che costoro differiscono dagli altri. Valutando quindi i pensieri e gli atti degli uomini ordinari secondo i loro proprî, il conto non torna. Ma anche quando un tal uomo avrà finalmente imparato a posteriori, vale a dire dalle lezioni altrui e dalla propria esperienza, ciò che deve aspettarsi dagli uomini; anche quando avrà compreso che i cinque sesti di essi, tanto dal lato morale quanto dal lato intellettuale, sono fatti in modo che chi non è forzato dalle circostanze ad entrar in relazione con loro, farà cosa molto buona evitandoli fin da bel principio e tenendosi per quanto è possibile lontano dal loro contatto, anche allora quest’uomo non potrà, ad onta di tutto, avere una conoscenza sufficiente della loro piccolezza e della loro meschinità; egli avrà per tutta la vita da estendere e da completare questa nozione, ma fino allora farà pur sempre calcoli falsi a suo svantaggio. Inoltre, benchè imbevuto degli insegnamenti ricevuti, gli succederà qualche volta ancora, trovandosi in una società di persone che non conosce, di sentirsi meravigliato nello scorgere che tutti paiono ragionevoli, leali, sinceri, onesti e virtuosi, e fors’anco intelligenti e spiritosi. Ma che ciò non lo tragga dalla buona strada, perchè deriva semplicemente dal fatto che la natura non procede come i cattivi poeti i quali, quando devono presentare un briccone od un pazzo, lo fanno così goffamente e con un’intenzione così accentuata che si vede spuntare, per così dire, dietro ognuno di questi personaggi l’autore a sconfessarne costantemente il carattere e i discorsi, ed a gridar forte in modo d’avvertimento: «costui è una canaglia, quest’altro è un matto; non prestate fede a quello che dicono». La natura invece agisce alla maniera di Shakespeare e di Goethe: nelle opere di costoro, ogni personaggio, fosse pure il diavolo stesso, per tutto il tempo in cui sta sulla scena, parla come ragione vuole che parli; esso è concepito in modo così oggettivamente reale che ci attrae e ci costringe a prender parte a’ suoi interessi; simile alle creazioni della natura, è lo sviluppo di un principio interno in virtù del quale i suoi discorsi e i suoi atti appariscono come naturali e per conseguenza necessari. Colui che crede che nel mondo i diavoli non vadano mai senza corna e i pazzi senza sonagli sarà sempre loro preda o loro zimbello. Aggiungiamo ancora a tutto questo che nelle loro relazioni, gli umani fanno come la luna ed i gobbi, non ci mostrano, cioè, che una sola faccia; essi hanno un talento innato per trasformare con abile mimica il viso in una maschera che rappresenta molto esattamente ciò che dovrebbero essere in realtà; questa maschera tagliata esclusivamente sulla misura della loro individualità, si adatta e conviene così perfettamente bene ad essi che l’illusione è completa. Ciascuno se l’applica ogni qual volta gli possa giovare per insinuarsi con arti lusinghiere. Non bisogna fidarsi di essa più che d’una maschera di tela cerata ricordando quell’eccellente proverbio italiano: «Non è sì tristo cane che non meni la coda». Guardiamoci bene, in ogni caso, dal formarci un’opinione molto favorevole di un uomo appena fattane la conoscenza; saremmo d’ordinario disingannati a nostra confusione e forse pure a nostro danno. Ancora una osservazione degna di nota: si è precisamente nelle piccole cose, nelle quali non pensa a badare al proprio contegno, che l’uomo svela il suo carattere; si è nelle azioni insignificanti, qualche volta nelle semplici maniere, che si può facilmente osservare quell’egoismo illimitato, senza riguardo per alcuno, che non si smentirà mai in seguito nelle cose grandi, ma che solamente sarà dissimulato. Che occasioni simili non sieno perdute per noi! Quando un individuo si conduce senza discrezione alcuna nei piccoli incidenti giornalieri, nei piccoli affari della vita, ai quali si applica il motto: «De minimis lex non curat» (La legge non si occupa di piccolezze), quando ei non cerca nelle occasioni che il suo interesse o i suoi comodi a danno degli altri, o si appropria ciò che deve servire a tutti, ecc., questo individuo, siatene pur certi, non ha in cuore il sentimento del giusto; ei sarà un furfante anche nelle grandi circostanze ogni qual volta la legge o la forza non gli legheranno le braccia; non permettete a quest’uomo di passare la soglia di casa vostra. Sì, lo affermo, colui che viola senza scrupolo le regole del suo club, violerà egualmente le leggi dello Stato non appena potrà farlo senza pericolo. Quando un uomo col quale siamo in rapporti più o meno stretti ci fa qualche cosa che ci dispiace o ci sdegna, noi non abbiamo che da chiederci se egli ha o se non ha agli occhi nostri abbastanza valore perchè accettiamo da parte sua una seconda volta ed a riprese sempre più frequenti un trattamento simile, e fors’anco più accentuato (perdonare o dimenticare significano gettare dalla finestra l’esperienza acquistata a caro prezzo). Nel caso affermativo, tutto è detto; perocchè semplicemente parlare non servirebbe a nulla: bisogna allora lasciar passare la cosa con o senza ammonizione; ma dobbiamo ricordarci che in tal modo ce ne attireremo benevolmente la ripetizione. Nella seconda alternativa è necessario, immediatamente e per sempre, rompere ogni relazione col caro amico, o, se si tratta d’un servo, congedarlo. Imperciocchè ei farà, rinnovandosi il caso, inevitabilmente ed esattamente la stessa cosa, o qualche cosa affatto analoga, quand’anche al momento ci giurasse ben altamente e sinceramente il contrario. Si può tutto dimenticare, tutto, eccetto sè stessi, eccetto il proprio essere. Infatti il carattere è assolutamente incorreggibile, perché tutte le azioni umane partono da un principio intimo, in virtù del quale un uomo deve sempre agire nella stessa guisa trovandosi nelle stesse circostanze, e non può condursi altrimenti. Leggete la mia memoria, premiata, sulla pretesa libertà della volontà e cacciate ogni illusione. Riconciliarsi con un amico col quale si aveva rotta l’amicizia è dunque una debolezza che si dovrà espiare quando, alla prima occasione, questi ricomincierà a fare precisamente ciò che aveva determinato la rottura, e lo farà per di più con maggior sicurezza, perchè ha la coscienza secreta di esserci indispensabile. Tutto questo si applica egualmente ai domestici congedati che riprendiamo al nostro servizio. Dobbiamo ancor meno, e per gli stessi motivi, aspettarci di veder che un uomo si comporti nello stesso modo della volta precedente quando le circostanze sono cangiate. Chè invece la disposizione e la condotta degli uomini cangiano altrettanto presto quanto il loro interesse: le intenzioni che li muovono tirano le loro lettere di cambio a vista così corta che bisognerebbe veder corto ben di più per non lasciarle protestare. Supponiamo ora che volessimo sapere come si condurrà una persona in una situazione in cui abbiamo intenzione di metterla; per ciò non bisognerà contare sulle sue promesse e sulle sue asserzioni. Perocchè anche ammettendo che ne parli sinceramente, essa parla pur sempre di una cosa che ignora. Si è dunque dall’apprezzamento delle circostanze in cui sarà per trovarsi, e del conflitto di queste col suo carattere, che noi potremo renderci conto del suo agire futuro. In tesi generale per acquistare la comprensione netta, profonda e così necessaria della vera e triste condizione degli uomini, è eminentemente istruttivo l’impiegare, qual commentario della condotta e dei raggiri loro sul terreno della vita pratica, la condotta ed i raggiri loro nel dominio della letteratura e viceversa. Ciò è molto utile per non cadere in errore su sè stessi, nè su loro. Ma nel corso di tale studio qualunque tratto di grande infamia o stoltezza che potessimo incontrare sia nella vita, sia in letteratura, non dovrà prestarci soggetto per affliggerci o per metterci in collera; esso dovrà servire unicamente alla nostra istruzione offrendoci un lato complementare del carattere della specie umana, che sarà buona cosa non dimenticare. In tal maniera osserveremo la faccenda come il mineralogista esamina un saggio bene caratterizzato d’un minerale cadutogli sotto la mano. V’ha delle eccezioni, ve n’ha pure di incomprensibilmente grandi, e le differenze tra le individualità sono immense; ma, preso in massa, lo si è detto da lungo tempo, il mondo è cattivo; i selvaggi si mangiano tra loro, e i popoli civili s’ingannano a vicenda, e questo si chiama l’andamento delle umane cose. Gli Stati, coi loro ingegnosi meccanismi diretti contro il di fuori e il di dentro, e coi loro mezzi di coazione, cosa sono dunque se non misure stabilite per mettere un limite alla illimitata perversità degli uomini? Non vediamo forse in ogni storia, ciascun re, non appena è solidamente assiso sul trono e non appena il suo paese gode di qualche prosperità, profittarne per piombare colla sua armata, come una banda di briganti, sugli Stati vicini? Tutte le guerre non sono forse in sostanza atti di brigantaggio? Nella remota antichità e così pure durante una parte del medio evo, i vinti diventavano schiavi dei vincitori, ciò che, alla fin fine, vuol dire che quelli dovevano lavorare per questi; ma coloro che pagano contribuzioni di guerra devono fare altrettanto, ossia dare il prodotto del lavoro già fatto: In tutte le guerre non si tratta che di rubare, scrisse Voltaire, e che i Tedeschi se lo tengano per detto.

30.° Nessun carattere è tale che si possa abbandonarlo a sè stesso e lasciarlo andare liberamente; esso ha bisogno di esser guidato con nozioni e massime. Che se, spingendo la cosa all’estremo, si volesse fare del carattere non il risultato della natura innata, ma unicamente il prodotto d’una deliberazione ragionata, per conseguenza un carattere del tutto acquisito ed artificiale, si vedrebbe tosto verificarsi la sentenza latina:

Naturam expelles furca, tamen usque recurret.
(Caccia a forza la natura, nullameno essa ritornerà sempre di volo).

Infatti si potrà molto bene vedere od anche scoprire e formulare perfettamente una regola di condotta verso gli altri, e nondimeno nella vita reale si peccherà fin dal bel principio contro di essa. Tuttavia non si deve per ciò perdere coraggio e credere che sia impossibile il dirigere la propria condotta nella vita sociale secondo regole e massime astratte, e che quindi valga meglio lasciarsi andare alla buona. Perocchè di queste succede come di tutte le istruzioni e direzioni pratiche; comprendere la regola è una cosa, e saperla applicare un’altra. La prima si acquista ad un tratto per mezzo dell’intelligenza, la seconda a poco a poco per mezzo dell’esercizio. All’allievo si son fatti vedere i tasti dell’istromento, le parate e i colpi di fioretto; ma in pratica egli s’inganna immediatamente malgrado la più buona volontà e s’immagina allora che ricordarsi queste lezioni nella rapidità della lettura musicale o nell’ardore d’un assalto sia cosa quasi impossibile. E tuttavia un po’ per volta, a forza d’inciampare, di cadere e di rialzarsi, l’esercizio finisce coll’insegnargliele; lo stesso succede per le regole della grammatica quando si apprende a leggere ed a scrivere in latino. Non è altrimenti che un mascalzone diviene cortigiano; una testa calda, un personaggio eminente; l’uomo aperto, abbottonato; il nobile, sarcastico. Tuttavia questa educazione di sè, ottenuta siffattamente con lunga abitudine, agirà sempre come uno sforzo venuto dal di fuori, cui la natura non cesserà mai dall’opporsi, e ad onta del quale finirà qualche volta coll’irrompere da un varco inaspettato. Perocchè qualunque condotta che abbia per motore massime astratte si riferisce ad una condotta decisa dalla inclinazione primitiva ed innata, come un meccanismo alla mano dell’uomo: per esempio un orologio, ove la forma e il movimento sono imposti ad una materia che è estranea ad essi, si riferisce ad un organismo vivente in cui forma e materia si compenetrano scambievolmente e non formano che una cosa sola. Tale rapporto tra il carattere acquisito e il carattere naturale conferma il pensiero espresso dall’imperatore Napoleone: «Tutto ciò che non è naturale è imperfetto.» Questo è vero in tutto e per tutti, sia nel fisico che nel morale; e la sola eccezione che io ricordi alla regola si è la venturina naturale che non vale l’artificiale. Guardiamoci quindi da qualunque affettazione. Essa provoca sempre il disprezzo: prima di tutto è un inganno e come tale una vigliaccheria, perchè si fonda sulla paura; e in secondo luogo implica condanna di sè stesso per mezzo di sè stesso, imperocchè si vuol parere ciò che non si è, e si crede questo esser migliore di ciò che si è. Il fatto d’affettare una qualità, di vantarsene, è confessare di non possederla. Quanta gente si gloria, di coraggio o di dottrina, d’intelligenza o di spirito, di successi colle donne o di ricchezze o di nobiltà o d’altro, e si potrà invece concludere che è precisamente su tale capitolo che manca loro qualche cosa! Perocchè colui che possede realmente e completamente una qualità non si pensa di farne mostra e di affettarla; egli è perfettamente tranquillo su tale rapporto. È questo che vuol dire il proverbio spagnuolo: «Herradura que chacolotea clavo le falta» (A ferratura crocchiante manca un chiodo). Non si deve certo, l’abbiamo già detto, abbandonare affatto le redini e mostrarsi interamente quali si è; perchè la parte cattiva e bestiale della nostra natura è considerevole ed ha bisogno d’esser velata; ma ciò non legittima che l’atto negativo, la dissimulazione, e niente affattissimo il positivo, la simulazione. Bisogna pure sapere che si scopre l’affettazione in un individuo prima ancora di capir chiaro ciò ch’egli voglia precisamente affettare. Infine la cosa non può durare a lungo, e la maschera un giorno finirà col cadere: «Nessuno può portare per lungo tempo la maschera; le cose finte ben presto ritornano alla propria natura» (Seneca, De clementia, L. I, c. 1).

31.° Nella stessa guisa che si porta il peso del proprio corpo senza avvertirlo mentre si sentirebbe il peso di qualunque oggetto estraneo che si volesse muovere, così non si scorgono che i difetti e i vizî degli altri e non i proprî. In cambio però ciascuno possede in altrui uno specchio nel quale può vedere distintamente i suoi proprî vizî, i suoi difetti, e le sue maniere grossolane e antipatiche. Ma d’ordinario si fa come il cane che abbaja contro lo specchio perchè non sa esser sè stesso ch’ei vede e s’immagina invece d’aver davanti un altro cane. Chi critica gli altri lavora alla correzione di sè medesimo. Coloro dunque che hanno una tendenza abituale a sottoporre tacitamente nel loro fòro interno ad una critica attenta e severa le maniere degli uomini, ed in generale tutto ciò che questi fanno o non fanno, costoro intendono a correggere ed a perfezionare sè stessi: perocchè avranno abbastanza equità od almeno abbastanza orgoglio e vanità per evitare ciò che hanno tante volte e così rigorosamente biasimato in altrui. L’opposto succede per i tolleranti, cioè: «Hanc veniam damus petimusque vicissim.» (Concediamo il perdono e lo chiediamo a nostra volta). Il vangelo moralizza mirabilmente bene su coloro che scorgono la pagliuzza nell’occhio del vicino, e che non vedono la trave nel proprio; ma la natura dell’occhio non gli permette di guardare che al di fuori ed esso non può quindi veder sè medesimo; per questo, notare e biasimare i difetti degli altri è un mezzo opportunissimo per farci sentire i nostri. Ci occorre uno specchio per correggerci. Questa regola è buona ugualmente quando si tratta dello stile e del modo di scrivere; chi in tali materie ammira qualunque nuova pazzia, anzichè biasimarla, finirà col farsene imitatore. Perciò in Germania siffatto genere di follia si diffonde tanto presto. I Tedeschi sono tolleranti: lo si scorge benissimo. Hanc veniam damus petimusque vicissim, ecco la loro impresa.

32.° L’uomo di specie nobile, in gioventù, crede che le relazioni essenziali e decisive, che creano veri legami tra gli uomini, sieno quelle di natura ideale, vale a dire quelle fondate sulla conformità del carattere, della piega dello spirito, del gusto, dell’intelligenza, ecc.; ma si avvede più tardi che sono invece le reali, cioè quelle che sono stabilite su qualche interesse materiale. Sono esse che formano la base di tutti i rapporti, e la maggioranza degli uomini ignora che ve ne sieno d’altra specie. Per conseguenza ciascuno è scelto in ragione del suo ufficio, della sua professione, del suo paese o della sua famiglia, in generale dunque secondo la posizione e la parte attribuitagli dalla convenzione; si è con tale concetto che viene scompartita e classificata, come articoli di fabbrica, la gente. Invece ciò che un individuo è in sè e per sè, come uomo, in virtù delle qualità sue, non è preso in considerazione se non a piacimento, per eccezione; ciascuno mette queste cose da un lato non appena gli convien meglio, e le dimentica. Quanto più un uomo avrà un valore personale, tanto meno potrà convenirgli una tale classificazione; cercherà quindi di sottrarvisi. Osserviamo tuttavia che tale maniera di trattare è fondata sul fatto che nel mondo, in cui regnano la miseria e l’indigenza, i mezzi che servono a tenerle lontane sono la cosa essenziale e necessariamente predominante.

33.° Come la carta monetata circola sul mercato in luogo del danaro, così invece della stima e dell’amicizia genuine sono la loro dimostrazione esterna ed il loro atteggiamento imitati quanto più naturalmente è possibile, che hanno corso nel mondo. Si potrebbe, è vero, domandarsi se havvi proprio gente che meriti stima ed amicizia. Checchè ne sia ho più fiducia in un bravo cane quando dimena la coda che in tutte queste dimostrazioni e cerimonie. La vera, la sincera amicizia presuppone che, fra amici, l’uno prenda una parte vivissima, puramente oggettiva ed affatto disinteressata, alla felicità ed alle disgrazie dell’altro, e tale associazione suppone a sua volta un reale identificarsi con l’amico. L’egoismo della natura umana è talmente opposto a questo sentimento che l’amicizia vera fa parte di quelle cose circa le quali s’ignora, come per il gran serpente di mare, se appartengano al regno delle favole o se esistano in qualche luogo. Tuttavia si danno qualche volta fra gli uomini certe relazioni le quali, benchè fondate in essenza su motivi segretamente egoistici di molteplice natura, sono condite nullameno d’un grano di amicizia genuina e sincera, ciò che basta a dar loro una tale impronta di nobiltà che possono, in questo mondo delle imperfezioni, portare con qualche diritto il nome d’amicizia. Tali relazioni si levano altamente sopra gli avvicinamenti d’ogni giorno; questi sono di tale natura che noi non rivolgeremmo più mai la parola alla maggior parte delle nostre buone conoscenze se intendessimo ciò che esse dicono di noi in nostra assenza. A lato dei casi nei quali si ha bisogno di serî soccorsi e di sacrifizî considerevoli, la migliore occasione per mettere alla prova la sincerità d’un amico si è il momento in cui gli annunciate una disgrazia che vi ha improvvisamente colpito. Vedrete allora dipingersi sul suo viso un’afflizione vera, profonda e schietta, od al contrario colla sua calma imperturbabile, con uno sberleffo d’un istante confermerà la massima di La Rochefoucauld: «Nelle sventure dei nostri migliori amici troviamo sempre qualche cosa che non ci dispiace.» Coloro che sono detti abitualmente amici possono appena, in tali occasioni, reprimere il piccolo fremito, il leggero sorriso di soddisfazione. V’hanno poche cose che mettano la gente così indubitatamente di buon umore come il racconto di qualche calamità che ci ha colpito recentemente od anche la confessione sincera che si fa loro di qualche debolezza personale. È cosa invero caratteristica. La lontananza e la lunga assenza portano danno a qualunque amicizia, sebbene non lo si confessi volentieri. Le persone che non vediamo più, fossero pure nostri carissimi amici, insensibilmente col passar del tempo svaniscono fino allo stato di nozioni astratte, ciò che fa che il nostro interesse per loro diventi sempre più un semplice affare di ragionamento, anzi di tradizione; il sentimento vivo e profondo resta serbato per coloro che abbiamo davanti gli occhi, quand’anche non fossero che gli animali prediletti. Siffattamente la natura umana è guidata dai sensi. Qui ancora Goethe ha ragione di dire: Il presente è una divinità grandissima (Tasso, atto IV, scena IV). Gli amici di casa sono d’ordinario ben chiamati con questo nome, perchè sono più attaccati alla casa che al padrone di essa; costoro somigliano ai gatti piuttosto che ai cani. Gli amici si dicono sinceri: solamente i nemici sono sinceri; perciò si dovrebbe, per imparare a conoscere sè stesso, approfittarsi del loro biasimo come d’una medicina amara. Sono rari gli amici nel bisogno? Al contrario! Appena si è fatto amicizia con un uomo, ecco che questi è tosto in bisogno e che vi chiede a prestito denaro.

34.° Come bisogna esser novizî per credere che il far mostra di spirito e di senno sia un mezzo per riescire ben visti in società! Chè, ben al contrario, ciò suscita presso la maggior parte della gente un sentimento di odio e di rancore tanto più amaro in quanto che chi lo prova non è autorizzato a dichiararne il motivo; anzi lo dissimula pure a sè stesso. Ecco dettagliatamente come succede la faccenda: fra due interlocutori non appena uno osserva e sente una grande superiorità nell’altro, ne conchiude tacitamente e senza averne la coscienza ben chiara che costui pure osserva e sente nel medesimo grado l’inferiorità e lo spirito limitato di chi gli sta davanti. Tale contrasto eccita al più alto grado il suo odio, il suo rancore, la sua rabbia. Perciò Graciano dice con ragione: «Il solo mezzo che valga per rimaner tranquilli si è il vestire la pelle del più semplice fra gli animali». Mettere in luce spirito e senno è un modo indiretto di rimproverare agli altri l’incapacità e la stupidezza. Una natura volgare s’irrita all’aspetto della natura opposta; motore secreto dello stizzirsi è l’invidia. Perocchè soddisfare alla propria vanità è, come lo si può scorgere ogni momento, un piacere che presso gli uomini passa avanti ogni altro, ma che però non è possibile se non in virtù d’un confronto fra sè stessi e gli altri. E non si danno meriti di cui gli uomini sieno più fieri che di quelli dell’intelligenza, visto che su di essi è fondata la loro superiorità riguardo gli animali. È dunque una grandissima temerità il mostrar loro una spiccata superiorità intellettuale, sopratutto davanti testimoni. Ciò provoca la loro vendetta, e d’ordinario essi cercheranno d’esercitarla colle ingiurie, perocchè passano così dal dominio dell’intelligenza a quello della volontà nel quale siamo tutti eguali. Se dunque la posizione e le ricchezze possono sempre contare in società sulla considerazione, le qualità intellettuali non devono aspettarsela; ciò che può loro toccare di meglio si è che non si faccia loro attenzione; che altrimenti saranno considerate come una specie d’impertinenza o come un bene che è stato acquistato per vie illecite e di cui il proprietario ha l’audacia di gloriarsi; per questo ciascuno si propone tacitamente di infliggergli in appresso qualche umiliazione su tale proposito, e allo scopo non attende che l’occasione favorevole. Appena con umilissimo atteggiamento si riescirà a strappare, come una elemosina, il perdono della propria superiorità intellettuale. Dice Saadi nel Gulistan: «Sappiate che si trova presso l’uomo irragionevole cento volte più d’avversione per il ragionevole di quello che questi non ne provi per il primo.» L’inferiorità intellettuale invece equivale ad un vero titolo di raccomandazione. Perocchè il sentimento benefico della superiorità è per lo spirito ciò che il calore è per il corpo; ciascuno s’avvicina all’individuo che gli procura tale sensazione per lo stesso istinto che lo spinge ad avvicinarsi alla stufa o ad andarsi a mettere sotto i raggi del sole. Ora a ciò non v’ha che l’individuo assolutamente inferiore, nelle facoltà intellettuali per gli uomini, in bellezza per le donne. Conviene confessare che per lasciar scorgere, in presenza di certa gente, una inferiorità non simulata bisogna possederne una buona dose. In cambio vedete con quale amabile cordialità una ragazza mediocremente bella va incontro ad una essenzialmente brutta. Il sesso maschile non annette grande valore ai vantaggi fisici, benchè si preferisca meglio trovarsi a lato d’una persona più piccola piuttosto che di una più grande di sè stessi. Per conseguenza fra gli uomini sono gli sciocchi e gl’ignoranti che riescono graditi e cercati dovunque, fra le donne le brutte; si fa loro immediatamente la riputazione d’aver un cuore eccellente, visto che ciascheduno ha bisogno d’un pretesto per giustificare le proprie simpatie agli occhi di sè stesso e degli altri. Per la medesima ragione qualunque superiorità di spirito ha la proprietà d’isolare: la si fugge, la si odia e per aver un pretesto a ciò si prestano a chi la possede difetti d’ogni sorta. La bellezza produce esattamente lo stesso effetto tra le donne; le ragazze, quando sono molto belle, non trovano amiche e nemmeno compagne. Che esse non s’immaginino di cercare in qualche parte un posto di damigella di compagnia; non appena si presenteranno, il viso della dama presso la quale sperano entrare si farà scuro; perocchè, sia per suo conto, sia per le sue figlie, essa non ha affatto bisogno del risalto d’una bella figura. Avviene invece ben altrimenti quando si tratta dei vantaggi del grado, perchè questi non agiscono, come i meriti personali, per effetto del contrasto e del rilievo, ma per riverbero, come i colori circonvicini quando si riflettono sul viso.

35.° La pigrizia, l’egoismo e la vanità hanno molto spesso la parte più grande nella confidenza che noi concediamo ad altri: la pigrizia, quando per non esaminare, curare, operare da noi stessi, preferiamo confidarci ad un’altra persona; l’egoismo, quando il bisogno di parlare degli affari nostri ci porta a fare qualche confidenza ad alcuno; la vanità quando questi affari sono tali da rendercene gloriosi. Ma ad onta di ciò non pretendiamo meno che si apprezzi la nostra confidenza. Noi al contrario non dovremmo mai essere irritati per la diffidenza, perchè essa racchiude un complimento all’indirizzo della probità ed è la confessione sincera della sua estrema scarsezza la quale fa sì che essa appartenga a quelle cose di cui si mette in dubbio l’esistenza.

36.° Ho presentato nella mia Morale, p. 201 (2a ed. 198). una delle basi della compitezza, virtù cardinale presso i Chinesi; l’altra è la seguente. La compitezza è stabilita sopra una convenzione tacita di non osservare gli uni presso gli altri la miseria morale ed intellettuale della condizione umana e di non rinfacciarsela reciprocamente; d’onde risulta che essa appare meno facilmente con vantaggio d’ambo le parti. Compitezza è prudenza; scortesia dunque è balordaggine; farsi dei nemici senza necessità e senza motivo colla rozzezza è follia: la stessa cosa come se si dasse fuoco alla propria casa. Perocchè la cortesia è, come i gettoni, moneta notoriamente falsa: risparmiarla è prova di demenza, usarne con liberalità, di senno. Tutte le nazioni terminano le lettere colla formola: «Votre très-humble serviteur, Your most obedient servant, Suo devotissimo servo»; solo i Tedeschi sopprimono il «Diener» (servo), perchè non è vero, dicono. Chi invece spinge la compitezza fino al sacrifizio d’interessi reali, somiglia all’uomo che desse monete d’oro per gettoni. Nella stessa guisa che la cera dura e fragile per sua natura, diviene per mezzo d’un po’ di calore così malleabile da prendere quella forma qualunque che piacerà darle, così pure si può, con un granellino di cortesia e di amabilità, render pieghevoli e compiacenti perfino uomini burberi ed ostili. La compitezza è dunque per l’uomo ciò che il calore è per la cera. Però davvero è questo un grave compito, nel senso che c’impone testimonianze di stima per tutti, quando la maggior parte della gente non ne merita punto; esige inoltre che abbiamo da fingere il più vivo interesse, quando dovremmo invece starcene beati di non sentirne affatto. Mettere insieme la politezza e la dignità è un colpo da maestro. Le offese, consistendo sempre alla fin fine in manifestazioni di mancanza di considerazione, non ci metterebbero così facilmente fuori di noi se, da una parte, non nutrissimo una opinione molto esagerata del nostro alto valore e della nostra dignità, ciò che è proprio d’un orgoglio smisurato, e se, d’altra parte, ci rendessimo conto di quello che ordinariamente ognuno, in fondo al cuore, crede e pensa riguardo gli altri. Quale stonante contrasto pertanto tra la suscettibilità della maggior parte degli uomini per la più leggera allusione critica diretta contro di loro, e ciò che i medesimi dovrebbero udire se potessero sorprendere quanto dicono di essi le loro conoscenze! Faremmo ottima cosa ricordandoci sempre che la compitezza non è che una maschera beffarda; in tal modo non ci metteremmo a strillare come pavoni ogni volta che la maschera si sposta un po’, o che viene smessa per un momento. Quando un individuo diventa apertamente villano è la stessa cosa come se si spogliasse delle sue vesti e si mostrasse in puris naturalibus. Certamente apparirebbe molto brutto, come la maggior parte della gente in tale stato.

37.° Non bisogna modellarsi sopra un altro per quello che si vuol fare o non fare, perchè le situazioni, le circostanze, le relazioni non sono mai le stesse e perchè anche la differenza di carattere dà tutt’altra tinta all’azione; per questo «duo cum faciunt idem, non est idem» (quando due persone fanno la stessa cosa, questa tuttavia non risulta la stessa). Occorre, dopo matura riflessione, dopo seria meditazione, agire conformemente al proprio carattere. L’originalità è dunque indispensabile anche nella vita pratica; senza di essa ciò che si fa non s’accorda con ciò che si è.

38.° Non combattete l’opinione altrui; pensate che se si volesse correggere la gente di tutte le assurdità a cui crede non si avrebbe finito quand’anche si vivesse gli anni di Matusalem. Asteniamoci inoltre nel conversare da qualunque osservazione critica, quando pure questa fosse fatta nella migliore intenzione, perciocchè offendere gli uomini è cosa facile, difficile invece, se non impossibile, correggerli. Quando in una conversazione le assurdità che sentiamo cominciano a metterci in collera, dobbiamo immaginare d’assistere ad una scena di commedia tra due pazzi: «Probatum est.» L’uomo nato per istruire il mondo sugli argomenti più importanti e più seri può chiamarsi fortunato quando se ne tira sano e salvo.

39.° Chi vuole che la sua opinione trovi credito deve enunciarla freddamente e spassionatamente. Perocchè qualunque impeto procede dalla volontà; è dunque a questa, non alla ragione, che è fredda di sua natura, che sarebbero attribuiti i giudizi espressi. Infatti essendo la volontà nell’uomo il principio radicale, ed essendo la ragione solo secondaria e venuta accessoriamente, si considererà il raziocinio come nato dalla volontà eccitata, piuttosto che l’eccitazione della volontà come prodotta dal raziocinio.

40.° Non si deve abbandonarsi a lodare sè stessi, quand’anche se ne avesse tutto il diritto. Imperocchè la vanità è cosa tanto comune, e il merito tanto raro, che ogni qual volta sembrerà che ci lodiamo, per quanto indirettamente ciò avvenga, ciascuno scommetterà cento contro uno che per mezzo della nostra bocca ha parlato solo la vanità, perchè essa non ha abbastanza buon senso per capire la ridicolaggine della millanteria. Nondimeno Bacone da Verulamio potrebbe non affatto aver torto quando pretende che il «semper aliquid haeret» (ne resta sempre qualche cosa) non sia vero solamente della calunnia, ma anche della lode di sè, e quando raccomanda quest’ultima a dosi moderate.

41.° Quando sospettate qualcuno di menzogna, fingete credulità; allora ei diverrà sfrontato, mentirà più spudoratamente, e sarà smascherato. Se invece scorgete che una verità che vorrebbe dissimulare, gli sfugge in parte, fate l’incredulo affinchè, provocato dalla contraddizione, ei metta fuori tutta la riserva.

42.° Consideriamo tutti i nostri affari personali quali secreti; al di là di ciò che i nostri buoni conoscenti veggono coi proprî occhi, conviene restar loro del tutto ignoti. Imperciocchè quello che essi saprebbero circa le cose le più innocenti può, a tempo ed a luogo, esserci funesto. In generale val meglio manifestare il proprio senno con ciò che si tace piuttosto che con ciò che si dice. Effetto di prudenza nel primo caso, di vanità nel secondo. Le occasioni di tacersi e quelle di parlare si presentano in numero eguale, ma noi preferiamo spesso la momentanea soddisfazione che procurano le ultime al profitto durabile che ricaviamo dalle prime. Si dovrebbe rifiutarsi perfino quel sollievo che si prova parlando qualche volta ad alta voce con sè stessi, ciò che tocca facilmente alle persone di gajo umore, per non prenderne l’abitudine; perocchè con questo il pensiero diventa l’anima ed il fratello della parola a tal punto che insensibilmente arriviamo a parlare anche cogli altri come se pensassimo ad alta voce, mentre la prudenza raccomanda di mantenere un largo fosso sempre aperto tra il pensiero e la parola. Ci sembra talora che gli altri non possano assolutamente credere ad una cosa che ci riguarda, mentre invece non pensano minimamente a dubitarne; se però ci avviene di risvegliare in essi un tal dubbio, allora infatti non potranno più prestarvi fede. Ma noi ci tradiamo unicamente coll’idea che è impossibile che non lo si noti; ci precipitiamo così da noi stessi da un’altezza per effetto del capogiro vale a dire del pensiero che non sia possibile di restare solidamente a quel posto e che l’angoscia di esser là sia così straziante che valga meglio abbreviarla: tale illusione si chiama vertigine. D’altra parte bisogna tener a mente che tutti, anche coloro che altrove non fanno mostra di perspicacia, sono eccellenti algebristi quando si tratta degli affari personali altrui; su quest’argomento, data una sola quantità, essi sciolgono i più complicati problemi. Se, per esempio, si racconta loro una storia passata sopprimendo i nomi e tutte le altre indicazioni sulle persone, bisogna guardarsi bene dall’introdurre nella narrazione il più piccolo dettaglio positivo e speciale, come la località, o la data, o il nome d’un personaggio secondario, o qualunque cosa che avesse connessione anche lontanissima coll’affare, perocchè essi troverebbero subito una grandezza stabilita positivamente, per mezzo della quale il loro talento algebrico dedurrebbe tutto il resto. L’esaltamento della curiosità in questo caso è tale che col suo ajuto la volontà mette gli sproni sui fianchi dell’intelletto, il quale, spinto in siffatta guisa, giunge ai risultati più lontani. Perciocchè tanto gli uomini hanno scarsa attitudine e curiosità per le verità generali, quanto sono avidi delle verità individuali. Ecco perchè il silenzio è stato così istantemente raccomandato da tutti i maestri di saggezza cogli argomenti più svariati in appoggio. Non occorre quindi che io insista più a lungo; mi limiterò a riportare alcune massime arabe molto efficaci e poco note: «Non dire all’amico ciò che non deve sapere il nemico». — «È necessario che io custodisca il mio secreto, esso è mio prigioniero; non appena me lo lascio sfuggire, divento io suo prigioniero». — «Dall’albero del silenzio pende per frutto la tranquillità».

43.° Non v’ha danaro meglio impiegato di quello che ci siamo lasciato rubare, imperciocchè esso ci ha servito immediatamente a comperare della prudenza.

44.° Non conserviamo, per quanto sia possibile, animosità contro alcuno; contentiamoci di notar con cura il «procedere» di chi ci avvicina, e ricordiamocene per stabilire con ciò il valore di ciascheduno almeno su quanto ci riguarda, e per regolare in conseguenza il nostro atteggiamento e la nostra condotta verso la gente; si sia sempre ben convinti che il carattere non cangia mai: dimenticare un tratto villano è un gettare dalla finestra danaro guadagnato penosamente. Ma seguendo la mia raccomandazione si sarà protetti contro la pazza confidenza, e contro la pazza amicizia. «Non aver amore nè odio» compendia metà della più alta saviezza; «non dir verbo e non credere in cosa alcuna», ecco l’altra metà. Davvero che si volterà ben volentieri la schiena ad un mondo che rende necessarie regole come queste e come le seguenti.

45.° Mostrar odio o collera nelle parole o nelle fattezze è inutile, è dannoso, imprudente, ridicolo, volgare. Non si deve palesare odio o collera che cogli atti. In questa seconda maniera si otterrà un effetto tanto più sicuro quanto meglio si seppe guardarsi dalla prima. Gli animali a sangue freddo soli sono velenosi.

46.° «Parler sans accent»: questa vecchia regola della gente di mondo insegna che si deve lasciare all’intelligenza altrui la cura di decifrare ciò che si è detto; la facoltà di comprendere è lenta, e, prima che si sia svolta interamente, voi siete lontani. Invece «parler avec accent» significa indirizzarsi al sentimento, e allora tutto è rovesciato. Havvi tal gente a cui, con gesto cortese ed in tuono amichevole, si può dire in realtà delle sciocchezze senza pericolo immediato.

4. Circa la nostra condotta di faccia all’andamento del mondo ed alla sorte.

47.° Qualunque aspetto presenti l’umana esistenza, gli elementi ne sono sempre eguali; perciò l’essenza rimane la stessa si viva pure in una capanna od alla Corte, in convento o nell’armata. Ad onta della loro varietà gli avvenimenti, le avventure, i casi lieti o tristi della vita somigliano agli articoli del confettiere; le figure sono svariate e numerose, ve n’ha di circolari o di screziate, ma tutto esce dalla stessa pasta, e gli accidenti toccati ad una persona sono molto più simili a quelli avvenuti ad un’altra che questa sentendone il racconto non pensi. I casi della nostra vita hanno anche simiglianza colle figure del caleidoscopio: ad ogni giro vediamo qualche combinazione nuova mentre in realtà abbiamo sotto gli occhi sempre la stessa cosa.

48.° Tre potenze dominano il mondo, dice molto acutamente un antico: «συνεσις, κρατος, και τύχη,» prudenza, fortezza e fortuna. Io credo che quest’ultima sia la maggiore. Imperciocchè il cammino della vita possa esser paragonato al corso di un bastimento. La sorte, la τύχη, la secunda aut adversa fortuna, fa la parte del vento che rapidamente spinge da lontano, avanti o indietro, mentre contro di essa poco valgono i nostri sforzi e le nostre cure. Si è ufficio di queste il servire da remi; quando, dopo molte ore di lungo lavoro ci hanno portato in avanti d’un tratto di via, ecco che un colpo improvviso di vento ci respinge indietro d’altrettanto. Se all’incontro il vento è favorevole, ci manda avanti così bene che possiamo fare a meno di remo. Un proverbio spagnuolo esprime con energia incomparabile questa potenza della sorte: «Da ventura a tu hijo, y echa lo en el mar» (dà fortuna al figliuolo tuo e buttalo in mare). Ma il caso è una malvagia potenza, cui dobbiamo fidarci il meno possibile. Eppure qual’è, fra tutti i dispensatori di beni, il solo che quando ci dà, ci dimostra nel tempo stesso chiaramente che non abbiamo diritto ai doni suoi e che non ne dobbiamo render grazie al nostro merito, ma alla sua bontà ed al suo favore, e che in conseguenza ci è permesso di nutrire la gioconda speranza di ottenere in seguito, umilmente sottomessi, nuovi regali, altrettanto poco meritati? E il caso: il caso che sa l’arte sovrana di far comprendere luminosamente che di faccia al suo favore ed alla sua grazia qualunque merito è privo di forza e di valore. Quando si getta indietro uno sguardo sul cammino della vita, e quando, abbracciando nell’insieme il suo corso tortuoso e perfido come un laberinto, si scorge la felicità tante volte fallita, la sventura tante volte tirataci addosso, allora si sarà facilmente condotti a passar la misura dei rimproveri verso sè stessi. Perocchè il corso della nostra esistenza non è unicamente semplice opera nostra; bensì il prodotto di due fattori, cioè la serie degli avvenimenti e la serie delle nostre decisioni, che si compenetrano e si modificano scambievolmente. Di più avviene che in ambedue questi fattori il nostro orizzonte è sempre assai circoscritto, non potendo noi di lontano predire le nostre decisioni, nè ancor meno prevedere gli avvenimenti, ma solo di questi e di quelle conoscere veramente ciò che è presente al momento. Ne segue che non possiamo, finchè la meta è lontana, nemmeno una volta dirigere diritto su essa il nostro timone; ma solo in via approssimativa e dietro congetture volgere per quel verso la nostra direzione; spesso dunque ci conviene bordeggiare. Infatti tutto quello che ci è dato di poter fare si è di deciderci ogni volta secondo le circostanze presenti, nella speranza di coglier abbastanza giusto per raggiungere lo scopo principale. In questo senso gli avvenimenti e le nostre risoluzioni più importanti sono ordinariamente da paragonare a due forze che agiscono in direzioni differenti e di cui la diagonale rappresenta il corso della vita nostra. Terenzio ha detto: «Succede della vita degli uomini come di una partita di dadi: se non si ottiene il punto di cui si ha bisogno, è necessario saper tirar partito da quello che la sorte ha dato»; Terenzio in questo punto deve aver avuto in vista una specie di tric-trac. Più brevemente possiamo dire: la sorte distribuisce le carte e noi giuochiamo. Ma l’esempio che segue è il più adatto a spiegare la presente mia osservazione. Nella vita le cose passano come nel giuoco degli scacchi; noi ci facciamo un piano: questo però rimane subordinato a quanto piacerà fare nella partita all’avversario, e nella vita al destino. Le modificazioni che il nostro piano subisce sono, molto spesso, così grandi che nell’esecuzione esso è appena riconoscibile da qualche linea fondamentale. Del resto nel corso della nostra vita havvi qualche cosa ancora che sta sopra a tutto ciò. È infatti una verità volgare e troppo sovente confermata che noi siamo spesso più pazzi che non si creda; in cambio l’essere più savi che non si supponga è tale scoperta che solo possono fare, e per di più ben tardi, coloro che si sono trovati in questo caso. Qualche cosa c’è in noi di più accorto della testa. Vale a dire che nei grandi momenti, nei passi più importanti della nostra vita noi operiamo non tanto secondo la nozione chiara del giusto quanto in virtù di un impulso interno, impulso che potremmo chiamare istinto proveniente dalle profondità intime dell’esser nostro: dopo di che il nostro operare viene alterato da un concetto delle cose chiaro bensì, ma meschino, anzi accattato da regole generali, da esempi altrui, e così di seguito, senza che sia ponderato il detto: «quello che giova ad uno non giova a tutti»; in siffatta guisa diveniamo facilmente ingiusti verso noi medesimi. Alla fine si conosce chi ha avuto ragione, e solo la vecchiaia raggiunta felicemente è soggettivamente ed oggettivamente in condizione di giudicare la quistione. Forse cotesto impulso interno è diretto, senza che noi ce ne avvediamo, da sogni profetici, dimenticati allo svegliarci, sogni che appunto così danno alla nostra vita quell’intonazione armonica e quell’unità drammatica che non le potrebbe procurare la coscienza cerebrale così spesso vacillante e fallace, e così facilmente variabile; per ciò forse avviene, per esempio, che l’uomo chiamato a produrre grandi opere in un ramo speciale, ne ha, fino dalla giovinezza, il sentimento intimo e secreto, e lavora in vista di tale risultato come l’ape alla costruzione del suo alveare. Ma per ogni uomo, ciò che lo spinge si è quella forza che Baldassare Graciano chiama «la grande sinderesi», vale a dire la cura istintiva ed energica di sè stesso, senza di cui l’essere va a rovina. Agire secondo principî astratti è cosa malagevole, e non riesce che dopo lunga pratica, e non sempre; spesso anche tali principi sono insufficienti. All’incontro ognuno possede certi principî innati e concreti, che sono per lui sangue e vita, perchè risultato di tutto il suo pensare, del suo sentire e del suo volere. Il più delle volte non li conosce in abstracto; solamente portando lo sguardo sulla sua vita passata, scorge che ha sempre obbedito loro, e che fu da essi guidato come da un filo invisibile. Secondo le loro qualità, essi lo condurranno al bene suo, od al suo male.

49.° Bisognerebbe aver sempre davanti gli occhi l’azione del tempo e la mutabilità delle cose; per conseguenza in tutto quello che accade attualmente, poter immaginare l’opposto: rappresentare dunque a sè con vivi colori nella sventura la felicità, nell’amicizia la nimistà, nel tempo sereno la cattiva stagione, nell’amore l’odio, nella fiducia e nell’espansione il tradimento e il pentimento, e viceversa. Troveremmo così una fonte perenne di vera filosofia pratica su questa terra, perocchè saremo sempre cautamente avveduti, nè così facilmente soggetti ad inganni. Del resto nei casi più frequenti non avremo con ciò che anticipato sull’azione del tempo. Ma forse per nessun’altra conoscenza umana è tanto necessaria l’esperienza quanto per il giusto apprezzamento dell’instabilità e del mutare delle cose. Siccome ogni situazione, nel tempo della sua durata, esiste necessariamente e quindi di pieno diritto, sembra che ogni anno, ogni mese ed ogni giornata varranno finalmente a conservarci un tale diritto per l’eternità. Ma nessuna cosa dura, la mutabilità sola è veramente esistente e positiva. Saggio è colui che non è ingannato dall’apparente stabilità delle cose, e che inoltre sa prevedere il nuovo indirizzo che sarà preso nel prossimo cambiamento. Che gli uomini in via ordinaria tengano come permanente lo stato momentaneo delle cose o la direzione del loro corso, deriva da ciò, che essi pure avendo sotto gli occhi l’effetto non ne comprendono le cause; eppure sono queste che racchiudono in sè il germe dei mutamenti futuri, mentre gli effetti, che soli esistono per costoro, non contengono nulla di simile. Si tengono al risultato nella presupposizione che le cause ignote che ebbero il potere di produrlo, saranno pure in condizione di mantenerlo. Hanno in questo il vantaggio, quando sbagliano, di sbagliare all’unisono; ne segue dunque che la sventura, da cui sono colpiti in conseguenza dell’errore, è sempre generale, mentre il pensatore, quando s’inganna, si trova per di più isolato. Incidentalmente dirò come si abbia in questo una conferma della mia massima che l’errore procede sempre da una conclusione di effetto a causa. (Si veda Il mondo come volontà e come rappresentazione, v. I, p. 90). Tuttavia solo in via teoretica, e prevedendo la sua azione, dobbiamo anticipare sul tempo: non in via pratica; ciocchè vuol dire che non si deve commettere usurpazioni sull’avvenire domandando prima del tempo quello che solamente col tempo ci può esser dato. Chiunque agisce così, esperimenterà presto che non v’ha davvero peggior usuraio, né più irremissibile del tempo; e che esso, se costretto ad imprestiti, esige interessi più gravi che forse non farebbe un ebreo. Si può, ad esempio, con calce viva e calore spingere la vegetazione d’un albero per modo che nel termine di pochi giorni metta foglie, fiori e frutta; ma poi esso muore. Se il giovinetto vuole esercitare, anche solo per pochi giorni, la potenza virile dell’uomo, e fare a dicianov’anni ciò che gli sarebbe facile a trenta, il tempo gliene concederà bene il prestito, ma una parte della forza degli anni avvenire, forse una parte della sua stessa vita, servirà d’interesse. Vi sono malattie dalle quali radicalmente non si guarisce se non lasciando ad esse il loro corso naturale; dopo di che spariscono da sé medesime senza lasciar traccia. Ma se si esige pronta guarigione, proprio sul momento preciso, anche in questo caso il tempo dovrà dare a prestito; la malattia sarà vinta, ma il frutto da pagare sarà costituito da debolezza e da mali cronici per tutta la vita. Allorchè in tempo di guerra o di agitazioni popolari, si vuole valersi di danaro, e subito, proprio nel momento stesso, si è costretti a vendere per il terzo del loro valore, e forse per meno ancora, i beni immobili o le carte dello Stato, di cui si avrebbe l’intero prezzo se si lasciasse tempo al tempo, ossia se si volesse aspettare qualche anno; ma invece si costringe il tempo ad un imprestito. Ovvero si abbisogna di una somma per un viaggio lontano: in capo ad uno o due anni si potrebbe avere il danaro necessario risparmiando sulle proprie rendite. Ma non si vuole aspettare: si cercherà dunque quanto occorre a credenza, o lo si toglierà dal capitale; in altre parole ecco il tempo costretto ad un nuovo prestito. Qui l’interesse sarà un disordine di cassa sempre maggiore, un deficit permanente e crescente da cui non ci libereremo mai. Tale l’usura del tempo; tutti coloro che non sanno aspettare saranno sue vittime. Non havvi impresa più arrischiata del voler affrettare il corso misurato del tempo. Guardiamoci dunque dall’essergli debitori d’interessi.

50.° Tra i cervelli ordinarî ed i sensati havvi una differenza caratteristica che si produce assai spesso nella vita privata, ed è che i primi quando riflettono sopra un pericolo possibile di cui vogliono apprezzare la grandezza, non cercano e non considerano se non ciò che può già esser avvenuto di simile; mentre gli altri pensano da sè stessi ciò che può accadere, ricordandosi del proverbio spagnuolo che dice: «Quello che non succede nel termine di un anno, succede in capo a pochi momenti». Del resto la differenza di cui parlo è affatto naturale, perocchè per abbracciare collo sguardo quanto può accadere, si richiede l’intelletto, e per vedere quello che è successo bastano i sensi. Sia nostra massima: Sacrifichiamo agli spiriti maligni! Il che significa che non dobbiamo indietreggiare di fronte ad un certo consumo di cure, di tempo, d’incomodi, di difficoltà, di danaro o di privazioni, quando si può così chiudere l’accesso alla eventualità d’una disgrazia e fare che quanto più il pericolo è grave tanto più la possibilità ne divenga piccola, lontana ed inverosimile. La dimostrazione più evidente di questa regola è il premio d’assicurazione. Esso è un sacrifizio pubblico e generale sull’altare degli spiriti cattivi.

51.° Nessun avvenimento deve farci prorompere in grida esagerate d’allegrezza o di lamento, in parte a cagione della mutabilità delle cose che può ad ogni momento cangiarne l’aspetto, e in parte a cagione della fallacia dei nostri giudizi su ciò che per noi può riescire di vantaggio o di pregiudizio; così succede a tutti, almeno una volta in vita, di gemere per ciò che più tardi fu provato essere loro vero e maggior bene, ovvero di rallegrarsi di ciò che divenne poi per essi fonte di immensi guai. Il sentimento raccomandato or ora o presentato da Shakespeare nella bella espressione: «Ho provato tante scosse di gioja e di dolore che mai, al primo aspetto di essi, mi lascio trasportare qual femminuccia verso l’uno o l’altro» (Tutto è bene…. atto 3°, scena 2a). In generale colui che rimane serenamente tranquillo dinanzi ad ogni sventura, mostra di conoscere quanto colossali e moltiformi sieno i mali possibili della vita, per cui considera la disgrazia sopraggiuntagli come una piccolissima parte di ciò che potrebbe accadergli: è questo il sentimento stoico conformemente al quale l’uomo non deve esser mai conditionis humanae oblitus (dimentico della condizione umana), ma invece aver sempre in mente quanto sia triste e deplorevole il destino dell’umana vita, quanto innumerevoli i guai a cui è esposta. A tener vivo tale sentimento basta gettare dovunque uno sguardo solo intorno a sè; e da per tutto si avrà tosto sotto gli occhi lotte, angoscie, crucci per un’esistenza misera, nuda, insignificante. Allora s’imparerà a moderare le proprie esigenze, allora si saprà adattarsi all’imperfezione di tutte le cose e di ogni stato, ed aspettare le disgrazie per poterle scansare o sopportarne il peso. Perocchè le sventure, grandi e piccole, sono l’elemento della nostra vita. Ecco ciò che dovremmo sempre aver presente allo spirito senza per questo, da veri δυσκολος (uomini difficili), lamentarsi e andar in convulsioni con Beresford in causa delle miseries of human life, e meno ancora in pulicis morsu Deum invocare (invocar Dio per la puntura d’una pulce); bensì, da ευλαβης, (uomini circospetti) spingere tanto oltre la prudenza nel prevenire o nel metter argine alle sventure, sia che vengano dalle persone sia dalle cose, e perfezionarsi siffattamente in quest’arte, che si possa, quali volpi astute, scansare gentilmente qualunque piccolo o grande accidente (che ordinariamente non è che un’inettitudine mascherata). La ragione principale per cui un avvenimento doloroso ci riesce meno grave a sopportare quando lo abbiamo già considerato come possibile, e che, come si dice, vi ci siamo preparati, deve esser la seguente: quando pensiamo con calma ad una disgrazia prima che ci colga, come ad una semplice possibilità, ne abbracciamo l’estensione chiaramente e da ogni lato, e così la riconosciamo circoscritta e definibile; di maniera che, quando essa succede, non potrà esercitare i suoi effetti oltre la sua vera ed intrinseca gravità. Se all’incontro non abbiamo preso queste precauzioni, se saremo colti all’impensata, allora lo spirito turbato non può, al primo momento, misurare esattamente la grandezza della disgrazia, e siccome non la vede a colpo d’occhio, se la rappresenta immensurabile, od almeno molto maggiore che in fatto non sia. Nella stessa guisa l’oscurità e l’incertezza ingrandiscono ogni pericolo. Naturalmente a ciò si aggiunge che noi, prevedendo come possibile una sventura, abbiamo nel tempo stesso considerato i motivi di conforto ed i rimedi, o per lo meno ci siamo abituati all’immagine di essa. Ma nulla vale a renderci meglio atti a sopportare tranquilli e dignitosi i casi tristi che ci colgono, quanto il convincimento di quella verità che ho fermamente stabilito, e svolta fino ne’ suoi primi principi, nella mia opera premiata sopra Il libero arbitrio: «Tutto quello che accade, dalle più grandi alle più piccole cose, accade necessariamente». Perocchè nell’inevitabile necessità l’uomo sa raccapezzarsi presto, e la conoscenza della nozione or ora esposta fa sì che egli consideri tutti gli avvenimenti, anche quelli prodotti dai casi più strani, come altrettanto necessari quanto quelli che derivano da leggi notissime e che si conformano alle più esatte previsioni. Rimando dunque il lettore a ciò che ho detto (si veda Il mondo come volontà e come rappresentazione. V. I, pag. 345 e 346 [361 della 3a ed.]) sull’influenza calmante che esercita la nozione dell’inevitabile e del necessario. Chiunque se ne sarà ben penetrato farà da prima tutto ciò che può fare, soffrirà poi coraggiosamente ciò che deve soffrire. Le piccole traversie che ad ogni ora ci molestano, si possono considerare come destinate a tenerci in esercizio perchè la forza necessaria a sopportare le grandi sventure non abbia da infiacchirsi nei giorni felici. Contro gl’impicci quotidiani, i disgusti leggeri del commercio cogli uomini, le difficoltà insignificanti, le sconvenienze sgarbate, le chiacchere e simili cose ancora, si deve essere invulnerabili, vale a dire non solamente non curarsene e non macchinarci sopra, ma nemmeno avvertirli; non lasciamoci toccare da essi, cacciamoli col piede come i sassi della strada, e non ammettiamoli in nessun modo nell’intimo secreto delle nostre riflessioni e deliberazioni.

52.° D’ordinario sono semplicemente le loro stesse stupidaggini che la gente chiama destino. Dunque non si potrà mai prendere abbastanza in seria considerazione il bel passo di Omero (Iliade, XXIII, v. 313 e seg.), là dove ei raccomanda la μητις, cioè la circospezione. Perocchè se anche le malvagità nostre venissero espiate soltanto nell’altro mondo, si è proprio in questo che si paga il fio delle balordaggini, benchè di tempo in tempo possa accadere che ci venga fatta grazia in luogo di giustizia. Non è il carattere violento, ma la prudenza che fa apparire terribili e minacciosi; tanto il cervello dell’uomo è arma più formidabile dell’artiglio del leone. L’uomo di mondo più perfetto sarebbe colui che non rimanesse mai paralizzato nell’indecisione, nè mai si lasciasse vincere dalla precipitazione.

53.° Il coraggio è, dopo la prudenza, una condizione essenziale per la felicità nostra. Certamente non si può dare a sè medesimi nè l’una nè l’altra di queste qualità, che si eredita la prima dal padre, e la seconda dalla madre; tuttavia con proponimenti fermamente presi e coll’esercizio si arriva ad aumentare quella parte che già si possede. In questo mondo in cui Cadon qual ferro della sorte i dadi, è necessario un carattere di ferro, corazzato contro il destino ed armato contro gli uomini. Perchè tutta la vita è lotta, ogni passo ci viene disputato, e Voltaire dice con ragione: «A questo mondo non si va avanti che colla punta della spada, e si muore coll’arma in mano». È quindi anima codarda quella che al primo accavallarsi di nuvole, od anche solo al loro presentarsi sull’orizzonte, si ripiega sopra di sè, sbigottisce, e si querela. Sia piuttosto nostra impresa:

Tu ne cede malis, sed contra audentior ito.
(Non ceder all’avversità, ma va arditamente contro di essa).

Finchè l’esito di una cosa pericolosa è ancora dubbio, finchè rimane la possibilità d’un risultato favorevole, non vi disanimate, ma pensate alla resistenza, nello stesso modo che non si deve disperare del bel tempo fino a che resta ancora un lembo azzurro nel cielo. Occorre saper dire:

Si fractus illabatur orbis,
Impavidum ferient ruinae.
(Se il mondo crollasse infranto, le sue ruine (mi) colpirebbero impavido).

Nè l’intera vita istessa, nè con più ragione, i suoi beni, meritano alla fin fine tanto codardo timore e tante angoscie:

Quocirca vivite fortes,
Fortiaque adversis opponite pectora rebus,
(Per la qual cosa vivete da forti, ed opponete gagliardo il petto all’avversità).

Eppure anche qui l’eccedere è possibile: il coraggio può degenerare in temerità. Però il timore, in una certa misura, è necessario alla conservazione della nostra esistenza sulla terra; la codardia non è che l’esagerazione di esso. Ciò ha espresso acutamente Bacone da Verulamio nella sua spiegazione etimologica del terror panicus, spiegazione che si lascia molto addietro l’altra più antica dovuta a Plutarco (De Iside et Osir., c. 14). Bacone fa derivare il terror panicus da Pane, come dalla natura personificata, ed aggiunge: «La natura ha messo il sentimento della paura e del terrore in tutto ciò che è vivo per conservare la vita e la sua essenza, e per evitare ed allontanare i pericoli. Però questa stessa natura non sa conservare la misura: ma confonde sempre le paure salutari colle vane ed inutili, talmente che troveremmo (se ci fosse dato di vederne l’interno) tutti gli esseri, e specialmente le creature umane, invasi sempre da timori panici» (De sapientia veterum, VI). Del resto ciò che caratterizza il timor panico si è che esso non è chiaramente consapevole della sua causa; la presuppone più che non la conosca, e, occorrendo, fa valere la paura stessa come fondamento alla paura.

CAPITOLO VI.
Sulla differenza delle età della vita.

Voltaire ha detto mirabilmente bene:

Qui n’a pas l’esprit de son âge
De son âge a tout le malheur.

Converrà dunque che, per chiudere queste considerazioni eudemonologiche, gettiamo uno sguardo sulle modificazioni che l’età porta in noi. In tutto il corso della nostra vita, possediamo soltanto il presente, e niente di più, colla sola differenza che, in primo luogo, da principio vediamo un lungo avvenire dinanzi a noi e verso la fine un lungo passato dietro di noi; e che, in secondo luogo, il nostro temperamento, mai il carattere, percorre una serie di modificazioni conosciute, ciascuna delle quali dà al presente una tinta differente. Ho esposto nella mia opera principale (V. II, C. 31, p. 394 [451 della 3a ediz.]) come e perchè nell’infanzia siamo assai più portati verso la conoscenza che non verso la volontà. Precisamente su ciò è stabilita quella felicità del primo quarto della vita la quale lo fa apparire più tardi dietro di noi come un paradiso perduto. Noi non abbiamo, durante l’infanzia, che relazioni poco numerose e bisogni limitati, quindi scarsa eccitazione della volontà: la parte maggiore del nostro essere è impiegata a conoscere. L’intelletto, come il cervello, che a sette anni raggiunge tutta la sua grandezza, si sviluppa di buon’ora, benchè non diventi maturo che più tardi, e studia questa esistenza ancora nuova in cui tutto, assolutamente tutto, è rivestito della brillante vernice che gli è data dall’incanto della novità. Per questo i nostri anni d’infanzia sono poesia non interrotta. Perocchè l’essenza della poesia, e così di tutte le arti, consiste nello scorgere in ogni cosa isolata l’idea platonica, vale a dire l’essenziale, ciò che è comune a tutta la specie; ciascun oggetto ci appare così come il rappresentante di tutto il suo genere, e un caso ne vale mille. Quantunque sembri che nelle scene della nostra giovane età noi non siamo occupati se non dell’oggetto o dell’avvenimento attuale, e ciò anche solamente perchè la nostra volontà del momento vi si è interessata, in sostanza non è così. Infatti la vita, con tutta la sua importanza, si offre a noi ancora così nuova, così fresca, con impressioni così poco affievolite da un frequente rinnovarsi, che, con tutto il nostro fare infantile, ci occupiamo, in silenzio e senza marcata intenzione, a scoprire nelle scene e negli avvenimenti isolati, l’essenza stessa della vita, i tipi fondamentali delle sue forme e delle sue immagini. Noi vediamo, come lo esprime Spinoza, gli oggetti e le persone sub specie æternitatis. Quanto più siamo giovani, tanto più ogni cosa isolata rappresenta per noi il suo genere tutto intero. Tale effetto va diminuendo gradatamente di anno in anno; ed è per questo che si determina quella differenza così considerevole fra l’impressione che è prodotta su noi dagli oggetti nell’infanzia e quella che ne riceviamo nell’età avanzata. Le esperienze e le cognizioni acquistate durante l’infanzia e la prima gioventù divengono poi i tipi costanti e le rubriche di tutte le esperienze e cognizioni ulteriori, le categorie, per così dire, alle quali aggiungiamo, senza averne sempre coscienza precisa, tutto ciò che incontriamo più tardi. Così si forma, fino dai primi anni di vita la base solida del nostro modo, superficiale o profondo, di concepire il mondo; in seguito si sviluppa e si completa, ma non cangia più ne’ suoi punti principali. In virtù dunque di questa maniera di veder le cose, puramente oggettiva, per conseguenza poetica, essenziale all’infanzia, in cui è mantenuta dal fatto che la volontà è ancora ben lontana dal manifestarsi con tutta la sua energia, il fanciullo si occupa molto più a conoscere che a volere. Da ciò quello sguardo serio, contemplativo, di certi ragazzi, dal quale Raffaello ha tratto partito così felicemente per i suoi angeli, sopra tutto nella Madonna della Cappella Sistina. Per ciò egualmente gli anni d’infanzia sono tanto felici che il loro ricordo va sempre unito ad un doloroso rimpianto. Mentre da una parte noi ci consacriamo così, con tutta serietà, alla conoscenza intuitiva delle cose, dall’altra parte l’educazione si occupa a procurarci nozioni. Ma le nozioni non ci danno l’essenza stessa delle cose; questa, che costituisce il fondo e il vero contenuto di tutte le nostre cognizioni, è stabilita sulla comprensione intuitiva del mondo. La quale però può essere acquistata soltanto da noi stessi, e non potrebbe in alcuna guisa esserci insegnata. Ne deriva che il nostro valore intellettuale, proprio come il morale, non entra in noi dal di fuori, ma sorte dal nostro proprio essere, e che tutta la scienza pedagogica d’un Pestalozzi non arriverà mai a fare un pensatore di un uomo nato imbecille: no! mille volte no! chi è nato imbecille, imbecille deve morire. Tale comprensione contemplativa del mondo esterno esposto di recente alla nostra vista, spiega anche perchè tutto quello che si è veduto ed appreso in giovinezza s’imprima così fortemente nella memoria. In fatti vi ci siamo occupati esclusivamente, niente ci ha distratti, ed abbiamo considerate le cose che vedevamo come uniche della loro specie, anzi come le sole esistenti. Più tardi il numero considerevole di cose conosciute ci toglie il coraggio e la pazienza. Se si vorrà ricordar ciò che ho esposto nel secondo volume della mia opera principale (p. 372 [423 della 3a ediz.]), cioè che l’esistenza oggettiva di tutte le cose, vale a dire nella rappresentazione pura, è sempre gradevole, mentre la loro esistenza soggettiva, che sta nel volere, è unita in buona dose a dispiaceri e dolori, allora si ammetterà facilmente, come espressione riassuntiva del fatto, la proposizione seguente: Tutte le cose sono belle a vedersi e orribili nel loro essere (alle Dinge sind herrlich zu sehn, also schrecklich zu seyn). Da quanto precede risulta che, durante l’infanzia, gli oggetti ci sono ben più noti dal lato della vista, della rappresentazione cioè, dell’oggettività, che non dal lato dell’essere, che è nello stesso tempo quello della volontà. Siccome il primo è il lato gradevole, e che il soggettivo ed orribile ci resta ancora ignoto, il giovane intelletto prende tutte le immagini che la realtà e l’arte gli presentano per altrettante cose eccellenti: egli s’immagina che come sono belle a vedersi, così ed anche di più, lo sieno nel loro essere. Perciò la vita gli appare come un eden: è questa quell’arcadia in cui noi tutti siamo nati. Ne deriva un po’ più tardi la sete della vita reale, il bisogno urgente di agire e di soffrire che ci caccia irresistibilmente nel tumulto del mondo. Quivi impariamo a conoscere l’altra faccia delle cose, quella dell’essere, vale a dire della volontà, che tutto viene ad attraversare ad ogni passo. Allora a poco a poco s’avvicina il grande disinganno; quando è giunto si dice: «L’età delle illusioni è passata», e pure il disinganno si fa sempre più grande e diventa sempre più completo. Sicchè possiamo dire che nell’infanzia la vita si presenta come una decorazione da teatro veduta da lontano, nella vecchiaia come la stessa decorazione veduta da vicino. Ecco pure un sentimento che contribuisce alla felicità dell’infanzia: come nei primi giorni di primavera qualunque fogliame ha lo stesso colore e quasi la stessa forma, così nella prima giovinezza ci rassomigliamo tutti, e andiamo d’accordo perfettamente. Non è che colla pubertà che comincia la divergenza, la quale va sempre aumentando, pari a quella dei raggi d’un cerchio. Ciò che turba, ciò che rende infelici gli anni di giovinezza, il rimanente di questa prima metà della vita tanto preferibile alla seconda, si è la caccia alla felicità intrapresa nel fermo convincimento che la si possa trovare nell’esistenza. Ecco la fonte della speranza sempre delusa, che genera a sua volta lo scontento. Le immagini ingannatrici d’un vago sogno di felicità volano davanti gli occhi nostri sotto forme capricciosamente scelte, e noi cerchiamo invano il loro tipo originale. Perciò siamo durante la giovinezza quasi sempre mal soddisfatti del nostro stato e del nostro ambiente qualunque si siano, perocchè ad essi attribuiamo ciò che dovremmo sempre riferire alla inanità od alla miseria della vita umana, colle quali allora facciamo conoscenza per la prima volta, dopo esserci aspettati ben altra cosa. Si guadagnerebbe molto nel toglier di buon’ora, con adatti insegnamenti, questa illusione, propria alla gioventù, che vi siano grandi cose da trovare nel mondo. Ma succede invece che la vita si fa conoscere a noi per mezzo della poesia prima di rivelarsi colla realtà. All’aurora della nostra giovinezza le scene che l’arte ci dipinge si spiegano brillanti sotto i nostri occhi, ed eccoci tormentati dal desiderio di vederle realizzate, di afferrare l’arco baleno. Il giovane si aspetta la vita sotto la forma d’un romanzo interessante. Così nasce quell’illusione che ho descritta nel secondo volume della mia opera già citata (p. 374 [428 della 3a ediz.]). Perocchè ciò che presta il loro incanto a tutte queste immagini si è il fatto che esse sono precisamente immagini e non realtà, e che contemplandole noi ci troviamo nello stato di calma e di soddisfazione perfetta della conoscenza pura. Realizzarle vuol dire essere occupato dalla volontà, e questa porta con sè infallibilmente il dolore. Qui pure devo rimandar il lettore, cui l’argomento interessa, al secondo volume del mio libro (p. 427 [488 della 3a ediz.]). Se dunque carattere della prima metà della vita è un’aspirazione insaziata alla felicità, carattere dell’altra metà è il timore della sventura. Perocchè a quell’ora si ha conosciuto più o meno nettamente che ogni bene è chimerico, ogni dolore, invece, reale. Allora gli uomini, quelli almeno il cui giudizio è sensato, in luogo d’aspirare al piacere non cercano più che uno stato franco da dolori e da inquietudini. Quando nei miei anni di gioventù sentiva battere alla mia porta, io era tutto allegro perchè mi dicevo: «Ah! finalmente!» Più tardi, nella medesima situazione, ne ricevevo un’impressione piuttosto vicina al terrore, e pensavo: «Ahimè ! di già!» Gli esseri eminenti e largamente dotati, coloro che, per ciò stesso, non appartengono del tutto al resto degli uomini e si trovano più o meno isolati in proporzione dei loro meriti, provano pure riguardo la società umana questi due sentimenti opposti: in giovinezza spesso quello di esserne abbandonati, nell’età matura quello d’esserne liberati. Il primo, che è penoso, deriva dalla loro ignoranza: il secondo, gradevole, dalla conoscenza del mondo. Ne segue che la seconda metà della vita, come la seconda parte d’un periodo musicale, ha meno foga e più quiete della prima: e succede così perchè la gioventù s’immagina meraviglie immense circa la felicità ed i piaceri che si possono incontrare sulla terra e crede che la difficoltà stia solo nel raggiungerli, mentre la vecchiezza sa che non v’ha cosa alcuna da cercare; tranquilla su tale proposito, essa gusta qualunque attualità sopportabile, e prende piacere perfino alle cose più piccole. L’uomo maturo coll’esperienza della vita ha guadagnato anzitutto l’assenza di prevenzioni, per cui vede il mondo in una maniera diversa dall’adolescente e dal giovane. Egli, per la prima volta, comincia a veder le cose semplicemente ed a prenderle per quello che sono, mentre agli occhi di lui giovane e fanciullo un’illusione formata da vaneggiamenti creati da sè stessi, da pregiudizi ereditati, e da strane fantasticherie, velava o deformava il mondo reale. Primo lavoro che l’esperienza trova da compiere si è quello di liberarci dalle chimere e dalle false nozioni accumulate durante la giovinezza. Garantirne i giovani sarebbe certamente la migliore educazione che si potesse dar loro, benchè essa sia semplicemente negativa; ma è questo un affare assai difficile. Occorrerebbe a questo scopo cominciare col mantener l’orizzonte del fanciullo ristretto quanto più è possibile, non procurargli in questo limite che nozioni chiare e giuste, e non allargarglielo che gradatamente quando egli avesse la conoscenza esattissima di tutto quello che vi è compreso, avendo cura che non vi resti all’oscuro, o che non sia intesa incompletamente o falsamente cosa alcuna. Ne risulterebbe che le sue nozioni sulle faccende e sulle relazioni umane, benchè ancora ristrette e semplicissime, sarebbero tuttavia distinte e vere in modo da richiedere ormai solamente estensione e non indirizzo; si continuerebbe così fino a che il fanciullo non si fosse fatto uomo. Questo metodo esige sopra tutto che non si permetta la lettura di romanzi; vi saranno sostituite biografie scelte con giusti criterî, come per esempio la vita di Franklin, o la storia di Antonio Reiser di Moritz, ed altri simili libri. Finchè siamo giovani c’immaginiamo che avvenimenti e personaggi importanti appariranno nella nostra esistenza coi tamburi e colle trombe; nell’età matura uno sguardo al passato ci fa scorgere che essi vi sono entrati senza strepito, per la porta secreta, e quasi inavvertiti. Si può anche, sotto il punto di vista che ci occupa, paragonare l’esistenza ad un drappo ricamato di cui ciascuno vedrebbe, nella prima metà della vita, il solo diritto, e, nella seconda, il solo rovescio; questo lato è meno bello, ma più istruttivo perchè permette di conoscere l’intreccio dei fili. La superiorità intellettuale, anche la più grande, non farà valere pienamente la sua autorità nel conversare che dopo il quarantesimo anno. Perocchè la maturità propria dell’età ed i frutti dell’esperienza possono essere benissimo sorpassati di molto, ma giammai surrogati dall’intelligenza; queste condizioni forniscono, anco all’uomo più volgare, un contrappeso da opporre alla forza della mente più grande, fino a che questa è giovane. Parlo qui solamente della personalità, non delle opere. Nessun uomo un po’ superiore, nessuno di coloro che non appartengono alla maggioranza dei 5/6 degli umani così scarsamente dotati dalla natura, potrà andar franco da una certa tinta di melanconia quando avrà passato la quarantina. Perocchè, come era naturale, egli aveva giudicato gli altri secondo sè stesso, ed è ora uscito d’inganno; ha compreso che essi sono ben indietro rapporto a lui sia per il cervello, sia per il cuore, molto spesso anzi per l’uno e l’altro, e che non potranno mai equilibrare il conto; eviterà quindi ogni commercio con essi, come del resto qualunque uomo amerà oppure odierà la solitudine, vale a dire la società, in proporzione del suo valore intellettuale. Kant tratta pure di questo genere di misantropia nella sua Critica della ragione verso la fine della nota generale al § 29 della prima parte. È un brutto sintomo, così dal lato morale come dall’intellettuale, per un giovane il raccapezzarsi facilmente in mezzo alla confusione delle vicende umane, il trovarvisi bene, e il mettervisi dentro quasi vi fosse stato preparato anticipatamente; ciò indica volgarità. Invece un’attitudine confusa, esitante, imbarazzata e a controsenso è in tale circostanza indizio di nobile specie. La serenità e il coraggio in cui si rimane vivendo durante la gioventù dipendono anche in parte dal fatto che salendo il monte non possiamo scorgere la morte, la quale sta ai piedi dell’altro versante. Una volta passata la cima, la vediamo coi nostri occhi, mentre fino allora non la conoscevamo che per bocca altrui, e, siccome in quel momento le forze vitali cominciano a declinare, il nostro coraggio s’infiacchisce nel tempo stesso; una serietà pensosa scaccia allora la petulanza giovanile, e s’imprime sulle nostre sembianze. Finchè siamo giovani crediamo senza fine la vita, checchè ce ne venga detto, ed usiamo del tempo in conseguenza. Quanto più invecchiamo, tanto più facciamo economia di esso. Perocchè, in età avanzata ogni giorno che vola via, produce in noi quel sentimento che prova un condannato ad ogni passo che lo avvicina al patibolo. Considerata dal punto di vista della gioventù l’esistenza è un avvenire infinitamente lungo: da quello della vecchiezza un passato assai corto, cosicchè essa si offre ai nostri sguardi, sul principio come le cose guardate dalla parte dell’obbiettivo d’un cannocchiale da teatro, e sul finire come quando sono viste dall’oculare. Occorre esser vecchi, vale a dire aver vissuto lungamente, per conoscere come la vita sia corta. Quanto più si va avanti coll’età, tanto più le cose umane, qualunque si siano, ci appariscono piccole; la vita, che durante la gioventù era là, davanti a noi, ferma e quasi immobile, ci sembra ora una rapida fuga d’apparizioni effimere, e ci diventa manifesta la nullità d’ogni cosa su questa terra. Il tempo stesso, nella giovinezza, cammina d’un passo più lento; sicchè il primo quarto della vita è non solamente il più felice, ma anche il più lungo; esso lascia dunque molti più ricordi, e ciascuno potrebbe all’occasione raccontare di questo primo quarto maggiori avvenimenti che non degli altri due. Nella primavera della vita come nella primavera dell’annata i giorni finiscono talvolta col divenire d’una lunghezza molesta. Nell’autunno della vita, come nell’autunno dell’annata, i giorni sono corti, ma sereni e più costanti. Perchè mai in vecchiaja la vita che si ha dietro di sè, pare così breve? Si è perchè noi la stimiamo così corta come il ricordo che ne conserviamo. Infatti tutto ciò che in essa vi fu d’insignificante ed una gran parte di ciò che vi fu di penoso, sfuggirono dalla nostra memoria; vi è dunque rimasto ben poca cosa. Perocchè nella stessa guisa che la nostra mente è in generale molto imperfetta, così succede pure della nostra memoria: bisogna che teniamo in esercizio le nostre cognizioni e che rinvanghiamo il nostro passato, senza di che tutto ciò sparirà nell’abisso dell’oblio. Ma noi non ritorniamo volentieri col pensiero sulle cose insignificanti, nè, ordinariamente, sulle sgradevoli, ciò che tuttavia sarebbe indispensabile per conservarle nella memoria. Ora le cose insignificanti divengono sempre più numerose, perchè molti fatti che a prima vista ci sembrano importanti perdono qualunque interesse ripetendosi; il ripetersi, da principio, non è frequente, ma in seguito succede spessissimo. Per questo ricordiamo i nostri giovani anni meglio di quelli che vennero poi. Quanto più lungamente viviamo, tanto meno si danno avvenimenti che ci sembrino abbastanza gravi od abbastanza significanti per meritare d’essere ripassati col pensiero, ciocchè è l’unico mezzo per conservarne il ricordo; appena trascorsi, li dimentichiamo. Ed ecco perchè il tempo fugge lasciando di meno in meno traccia dietro di sè. Ma neppure ritorniamo volentieri sulle cose sgradite, sopra tutto quando esse feriscono la nostra vanità; ed è questo il caso più frequente, perocchè pochi disgusti ci toccano senza nostra colpa. Noi dimentichiamo dunque egualmente molte cose penose. Si è coll’eliminazione di queste due categorie d’avvenimenti che la nostra memoria diviene così corta, e lo diviene, in proporzione, quanto più la stoffa è lunga. Come gli oggetti situati sulla riva si fanno sempre più piccoli, indeterminati e indistinti a misura che la nostra barca se ne allontana, così svaniscono gli anni passati, colle nostre avventure e colle nostre azioni. Succede inoltre che la memoria e l’immaginazione ci presentino talora una scena della nostra vita, obliata da lungo tempo, con tanta vivacità che ci sembri avvenuta il giorno prima, e ci apparisca affatto vicina. E ciò perchè ci è impossibile rappresentarci in una volta il lungo spazio di tempo che è scorso tra il passato e il presente, ed abbracciarlo collo sguardo in un solo quadro; di più gli avvenimenti compiti in questo intervallo sono in gran parte dimenticati, e non ce ne resta più che un’idea generale, in abstracto, una semplice nozione e non un’immagine. Allora questo passato lontano ed isolato si presenta tanto vicino da parer successo jeri; il tempo intermedio è sparito, e la nostra intera esistenza ci sembra d’una brevità incomprensibile. Qualche volta pure, nella vecchiaja, il lungo passato che abbiamo dietro di noi può ad un certo momento parerci favoloso; ciò che viene principalmente perchè vediamo sempre davanti a noi lo stesso presente immobile. In sostanza tutti questi fenomeni interni sono fondati non su ciò che è il nostro essere per sé stesso, ma sulla sua immagine visibile, che esiste sotto la forma del tempo, e sul fatto che il presente è il punto di contatto tra il mondo esterno e noi, tra l’oggetto e il soggetto. Si può ancora domandarsi perchè, in gioventù, la vita sembri estendersi davanti noi a perdita d’occhio. Ciò dipende da prima perchè ci occorre il posto da mettere le speranze illimitate di cui la popoliamo, e per la cui realizzazione Matusalem sarebbe morto troppo giovane; poi perchè prendiamo per scala della sua misura il piccolo numero d’anni che abbiamo già dietro a noi; ma il ricordo di essi è ricco in materiali, e per conseguenza lungo, perchè la novità ha dato importanza a tutti gli avvenimenti che vi si compierono; perciò vi ritorniamo volentieri col pensiero, li richiamiamo spesso in mente, e finiamo col fissarveli. Ci sembra qualche volta di desiderare ardentemente di trovarci in un luogo lontano, mentre in realtà non facciamo che rimpiangere il tempo che vi abbiamo passato quando eravamo più giovani e più freschi. Ecco in qual maniera il tempo ci trae in inganno sotto la maschera dello spazio. Portiamoci sul luogo tanto bramato e ci renderemo conto dell’illusione. Vi sono due vie per arrivare ad un’età avanzata, a condizione sine qua non tuttavia di possedere una costituzione senza difetto; per spiegarci, prendiamo l’esempio di due lampade che ardono: una brucierà a lungo perchè, con poco olio, ha lo stoppino assai sottile; l’altra perchè anche avendo un lucignolo molto grosso ha pure molto olio: l’olio è la forza vitale, lo stoppino ne è l’impiego applicato a qualsivoglia uso. Sotto il rapporto della forza vitale possiamo paragonarci, fino al nostro trentesimosesto anno, a coloro che vivono coll’interesse d’un capitale; ciò che si spende oggi, si trova rimesso l’indomani. A partire di qui, somigliamo ad un capitalista che comincia a toccare il suo capitale. In sul principio la cosa non è sensibile; la più gran parte della spesa viene ancora a supplire a sè stessa, e il piccolissimo deficit che ne risulta passa inosservato. Ma a poco a poco esso ingrandisce, diviene apparente e il suo stesso accrescimento cresce ogni giorno, e c’invade di continuo in grado maggiore; l’oggi è sempre più povero del giorno che lo precedette, e non v’ha speranza che la faccenda si arresti. Come la caduta dei corpi, la perdita si accelererà velocemente fino alla scomparsa totale. Il caso più triste è quello in cui tutte e due, forza vitale e ricchezza, questa non come termine di confronto, ma in realtà, sono in via di sparire simultaneamente; per questo l’amore al danaro aumenta coll’età. In cambio nei nostri primi anni fino alla età maggiore, ed anche un po’ al di là, noi siamo, sotto il rapporto della forza vitale, simili a coloro che sugl’interessi aggiungono ancora qualche cosa al capitale: non solo ciò che si spende si rimette da sè, ma il capitale stesso aumenta. Questo succede qualche volta anche per il danaro in grazia delle cure previdenti d’un tutore galantuomo. O gioventù fortunata! O triste vecchiaja! Bisogna, ad onta di tutto ciò, risparmiare le forze della gioventù. Aristotele osserva (Politica, Libro ultimo, Cap. 5) che fra i lottatori ai giuochi Olimpici, non se ne sono trovati che due o tre i quali, vincitori una volta da giovani, abbiano trionfato anche come uomini, perchè gli sforzi prematuri che esigono gli esercizi preparatori, esauriscono talmente le forze che più tardi, nell’età virile, esse fanno difetto. Se ciò è vero per la forza muscolare lo è assai maggiormente per la forza nervosa, manifestazione della quale sono tutte le produzioni intellettuali: ecco perchè gli ingenia praecocia, i fanciulli-prodigio, questi frutti d’un allevamento di serra calda, che fanno stupire nella loro prima età, diventano — in seguito — teste perfettamente volgari. È anche possibilissimo che un eccesso d’applicazione precoce e forzata nello studio delle lingue antiche sia la causa che ha fatto cadere più tardi tanti eruditi in uno stato di paralisia e d’infanzia intellettuale. Ho notato che presso la maggior parte degli uomini il carattere sembra essere più particolarmente adattato ad una delle età della vita, di modo che in tale età essi presentansi sotto la luce più favorevole. Gli uni sono giovanotti amabili, e poi è finito; altri nella loro maturità si mostrano uomini energici ed attivi, ma in tarda età perderanno ogni valore; e altri infine appariscono più vantaggiosamente in vecchiaja, durante la quale sono più cari perchè hanno maggior esperienza e maggior calma: è questo il caso più frequente presso i Francesi. Così deve avvenire perchè il carattere ha per sè stesso un certo che di giovanile, di virile o di senile in armonia coll’età corrispondente, o corretto da essa. Nella stessa guisa che sopra una nave non ci rendiamo conto del suo cammino se non perchè vediamo gli oggetti situati sulla riva allontanarsi e quindi farsi più piccoli, così non ci avvediamo di divenir vecchi, sempre più vecchi, se non per il fatto che persone d’una età ognora più avanzata ci sembrano giovani. Abbiamo già esaminato più indietro come e perchè, a misura che si entra nella vecchiaja, tutto ciò che si ha veduto, e tutte le azioni e tutti gli avvenimenti della vita lascino nello spirito traccie sempre meno numerose. Così considerata la giovinezza è la sola età in cui si viva con intera coscienza; la vecchiezza non ha che una mezza coscienza della vita. Col progredire dell’età tale coscienza diminuisce gradatamente; gli oggetti passano rapidamente davanti a noi senza farci impressione, simili a quelle produzioni artistiche che non ci colpiscono più quando le abbiamo viste parecchie volte; si fa ciò che si aveva da fare, e non si sa poi nemmeno d’averlo fatto. Mentre la vita diviene sempre più automatica, mentre cammina a gran passi verso l’incoscienza completa, per questo stesso fatto la fuga del tempo si accelera. Durante l’infanzia la novità delle cose e degli avvenimenti fa sì che tutto s’imprima nella nostra coscienza; perciò i giorni sono d’una lunghezza immensa. Per la medesima ragione lo stesso ci succede in viaggio, che un mese ci pare più lungo di quattro passati a casa nostra. Malgrado la novità, il tempo, che ci sembra più lungo nell’infanzia ed in viaggio, molto spesso ci diviene anche in fatto più lungo che non nella tarda età o nel nostro paese. Ma a poco a poco l’intelletto s’intorpidisce talmente colla lunga abitudine delle stesse percezioni che di grado in grado tutto finisce col passare sopra di esso senza lasciarvi impressione; ne viene che i giorni diventano sempre più insignificanti e per conseguenza sempre più corti; le ore del fanciullo sono più lunghe delle giornate del vecchio. Vediamo adunque che il tempo della vita possede un movimento accelerato come quello d’una sfera che rotola sopra un piano inclinato; e, nella stessa guisa che sopra un cerchio girante un punto qualunque corre tanto più veloce quanto più è lontano dal centro, così per ogni uomo il tempo passa più presto e sempre più presto nella proporzione della sua distanza dal principio dell’esistenza. Si può dunque ammettere che la lunghezza di un anno, quale è valutata dalla nostra disposizione del momento, sia in rapporto inverso del quoziente di esso per l’età; quando per esempio l’anno è la quinta parte dell’età, ci sembrerà dieci volte più lungo di quando non ne sia che la cinquantesima. Tale differenza nella rapidità del tempo ha un’influenza assai decisiva su tutto il nostro modo di essere in ogni età della vita. Prima d’ogni altra cosa per essa l’infanzia, quantunque non comprenda che quindici anni appena, è il periodo più lungo dell’esistenza, e conseguentemente anche il più ricco di memorie; per essa poi noi siamo soggetti in tutto il corso della vita alla noja nel rapporto inverso dell’età. I fanciulli hanno sempre bisogno di passare il tempo sia nel gioco, sia nel lavoro; se l’occupazione manca, essi sono tosto assaliti da immensa noja. Gli adolescenti vi sono pure fortemente esposti, e temono assai le ore d’ozio. Nell’età virile la noja sparisce ognora più: e per i vecchi il tempo è sempre troppo breve e i giorni volano colla rapidità d’una freccia. Bene inteso che io parlo di uomini e non di bruti invecchiati. L’accelerarsi del cammino del tempo sopprime dunque il più delle volte la noja nell’età avanzata; d’altra parte le passioni coi loro tormenti cominciano a tacersi; ne viene che in sostanza, dato che la salute sia in buono stato, il peso della vita è realmente più leggero che durante la gioventù: per questo l’intervallo che precede l’apparizione della debolezza e delle infermità proprie alla vecchiaja è chiamato gli anni migliori. E forse lo è in fatto dal punto di vista del nostro contento; ma in cambio gli anni di giovinezza, quando tutto fa impressione, quando ogni cosa entra nella coscienza, hanno il vantaggio d’essere la stagione fertilizzante dello spirito, la primavera che fa spuntare i germogli. Infatti le verità profonde si acquistano per intuizione e non colla speculazione, vale a dire che la loro prima percezione è immediata e provocata dall’impressione momentanea: essa non può dunque prodursi che fino a quando l’impressione è forte, viva e profonda. Tutto dunque dipende, sotto tale rapporto, dall’impiego dei giovani anni. Più tardi possiamo agire meglio sugli altri, fors’anco sul mondo intero, perocchè noi stessi siamo finiti e completi, e non apparteniamo più all’impressione; ma il mondo agisce meno su noi. Questi anni sono dunque l’epoca dell’azione e della produzione: i primi invece quelli della comprensione e della conoscenza intuitiva. In gioventù domina la contemplazione, e nell’età matura la riflessione; l’una è il tempo della poesia, l’altra piuttosto quello della filosofia. In pratica egualmente si è per mezzo della percezione e della sua impressione che ci determiniamo a qualunque cosa durante la giovinezza; più tardi invece per mezzo della riflessione. Ciò succede in parte perchè nell’età matura le immagini si sono presentate e riunite intorno a nozioni abbastanza numerose per dar loro importanza, peso e valore e così pure per moderare nello stesso tempo coll’abitudine l’impressione delle percezioni. Al contrario l’impressione di tutto ciò che è visibile, dunque del lato esterno delle cose, è talmente preponderante in gioventù, specialmente nelle menti vivaci e ricche d’immaginazione, che i giovani considerano il mondo come un quadro; e si preoccupano della figura e dell’effetto che vi fanno piuttosto che della disposizione interna che esso risveglia in loro. Lo si scorge dalla vanità della loro persona, e dal loro civettare. La più grande energia e la più alta tensione delle forze intellettuali si manifestano senza dubbio durante la gioventù e fino al trentacinquesimo anno alla più lunga: poi decrescono, quantunque insensibilmente. Nondimeno l’età virile ed anche la vecchiezza non sono senza compensi intellettuali. Allora l’esperienza e l’istruzione hanno acquistato tutta la loro ricchezza: allora si è avuto il tempo e l’occasione di considerare le cose sotto tutti gli aspetti e di meditarvi sopra; avendole avvicinate le une alle altre si è scoperto i punti in cui si toccano, le parti in cui si uniscono; allora, per conseguenza, si può comprenderle bene e nel loro concatenamento completo. Tutto si mette in piena luce. Per questo si conoscono più a fondo quelle stesse cose che erano mal note quando si era giovani, perchè si ha per ogni nozione maggior numero di dati. Ciocchè si credeva sapere durante la giovinezza, si comprende realmente nell’età matura; inoltre si sa effettivamente di più, e si possedono conoscenze ragionate in tutte le direzioni, e per ciò stesso solidamente concatenate, mentre in gioventù la nostra scienza è difettosa e frammentata. L’uomo che è giunto ad una età molto avanzata avrà solo un’idea completa e giusta della vita, perchè l’abbraccia collo sguardo nel suo insieme e nel suo corso naturale, e soprattutto perchè non la vede più, come gli altri, unicamente dalla parte dell’ingresso, ma anche dalla parte dell’uscita; così collocato ei ne comprende pienamente la nullità, mentre gli altri sono ancora il trastullo dell’illusione costante che «è proprio adesso che sta per succedere quanto v’ha di veramente buono». In cambio nell’età giovanile è maggiore la facoltà di concepire; ne segue che si è in caso di produrre di più col poco che si sa; più tardi v’ha maggior dose di raziocinio, di penetrazione e di fondo. Durante la giovinezza si raccolgono i materiali delle proprie nozioni, delle proprie vedute originali e fondamentali, vale a dire di tutto ciò che uno spirito privilegiato deve per destino dare in dono al mondo; ma non è che dopo molti anni che esso diviene padrone del suo soggetto. Si troverà che il più delle volte i più grandi scrittori non hanno creato i loro capolavori che verso il cinquantesimo anno. Ma non per questo la gioventù non resta pur sempre la radice dell’albero della conoscenza, benchè sia la corona dell’albero che porta i frutti. Ma nella stessa guisa che ogni epoca, anche la più miserabile, si crede più saggia di tutte quelle che la precedettero, così l’uomo in ogni età si crede superiore a quello che era per lo avanti; tutti e due sono spesso in errore. Durante gli anni di crescimento fisico, quando noi aumentiamo egualmente le forze intellettuali e le cognizioni, l’oggi per costume guarda con disprezzo l’ieri. Tale abitudine prende radice, e persiste anche quando è cominciata la decadenza delle forze mentali, allorchè l’oggi dovrebbe piuttosto guardare l’ieri con rispetto: a quell’ora sono troppo disprezzate le produzioni e i giudizî degli anni giovanili. Conviene osservare sopra tutto che quantunque la testa e l’intelletto siano, circa le loro proprietà fondamentali, altrettanto innati quanto il cuore o il carattere, nondimeno l’intelligenza, non resta così invariabile come il carattere: essa, è soggetta a molte modificazioni le quali, alla grossa, si producono pur anche regolarmente, perocchè derivano dal fatto che da una parte la base dell’intelligenza è fisica, e che dall’altra la sua stoffa è empirica. Ciò essendo, la sua forza propria cresce continuamente fino al punto culminante, e diminuisce poi di grado in grado fino all’imbecillità. Ma d’altronde la stoffa su cui si esercita tutta questa forza e che la mantiene in attività, vale a dire il contenuto dei pensieri e del sapere, l’esperienza, le cognizioni, l’esercizio del raziocinio e la perfezione che ne deriva, tutta questa materia è una quantità che aumenta costantemente fino al momento in cui, sopravvenendo la fiacchezza definitiva, l’intelletto lascia scappare ogni cosa. Tale condizione dell’uomo d’esser composto d’una parte assolutamente immutabile (il carattere) e d’un’altra che varia regolarmente e in due direzioni opposte (l’intelletto), spiega la diversità d’aspetto sotto cui egli si manifesta, e la differenza del suo valore nelle varie età della vita. In un senso più largo si può anche dire che i quaranta primi anni di vita danno il testo, e i trenta seguenti il commento, che solo ce ne fa ben comprendere il vero senso, e la connessione, unitamente alla morale con tutte le sue sottigliezze. Ma particolarmente verso la sua fine la vita somiglia ad un ballo mascherato, quando sono tolte le maschere. A quell’ora si vede cosa erano in realtà coloro con cui si ebbe contatto durante la vita. In fatti i caratteri si sono messi in piena luce, le azioni hanno portato i loro frutti, le opere hanno trovato il loro giusto apprezzamento, e tutte le fantasmagorie sono svanite. Perocchè ci abbia voluto il tempo a ciò. Ma quello che v’ha di più strano si è che non si comprende bene e sè stesso, e il proprio scopo, e le proprie aspirazioni, sopra tutto in ciò che riguarda i rapporti col mondo e cogli uomini, se non verso il finire dell’esistenza. Spesso, non sempre però, si dovrà classificarsi più basso che non si credesse per lo avanti, ma qualche volta si accorderà a sè stesso un posto superiore: il qual ultimo caso succede perchè non si aveva una conoscenza sufficente della bassezza del mondo, e perchè lo scopo della vita si trovava in tal modo collocato troppo in alto. S’impara a conoscere, presso a poco, ciò che valga ciascuno. Si usa chiamar la giovinezza il tempo beato, e la vecchiaja il tempo triste della vita. Ciò sarebbe vero se le passioni rendessero felici. Ma sono esse che tengono trabalzata la gioventù con poca gioja e molto dolore. Non agitano invece la fredda età, la quale assume tosto una tinta contemplativa: perocchè la conoscenza diviene libera ed ha il sopravvento. Ora la conoscenza è da per sè stessa esente da dolori; per conseguenza quanto più predominerà nella coscienza, tanto più questa sarà felice. Non si ha che da riflettere che ogni gioja è negativa di sua natura, mentre è positivo il dolore, per comprendere che le passioni non saprebbero rendere felici e che la tarda età non è da compiangere perchè alcuni piaceri le sono vietati; qualunque piacere non è che la soddisfazione d’un bisogno, e non si é più disgraziati perdendo il piacere nello stesso tempo del bisogno, di quello che non lo si sia per non poter più mangiare dopo aver pranzato, o dormire dopo una notte di sonno profondo. Platone (nell’introduzione alla Repubblica) ha ben ragione di stimar felice la vecchiaja perchè è liberata dall’istinto sessuale che per lo innanzi turbava l’uomo senza tregua. Si potrebbe quasi sostenere che le fantasie diverse ed incessanti generate dall’istinto sessuale, e così pure le emozioni che ne derivano, mantengono nell’uomo una pazzia benigna e costante per tutto quel tempo in cui egli è sotto l’influenza di questo incentivo, o di questo diavolo da cui è continuamente invasato, al punto da non essere affatto ragionevole se non dopo essersene liberato. Tuttavia è cosa positiva che, in generale e senza tener conto delle circostanze tutte e delle condizioni individuali, un’aria di melanconia e di tristezza è propria della gioventù, ed una certa serenità della vecchiaja; e ciò perchè il giovane è ancora sotto la potestà, o piuttosto sotto la tirannia di questo demonio che difficilmente gli accorda un’ora di libertà e che è anzi l’autore, diretto od indiretto, di quasi tutti i mali che colpiscono o minacciano l’uomo. L’età matura ha la serenità di colui che, liberato da catene portate lungamente, gode ormai della libertà de’ suoi movimenti. D’altra parte però si potrebbe dire che una volta estinte le voglie sessuali, il vero midollo dell’esistenza è consumato, e che non ne resta più che l’involucro, oppure che la vita somiglia ad una commedia, la rappresentazione della quale, cominciata da uomini vivi, sarebbe finita da automi rivestiti dei medesimi costumi. Checchè ne sia, la giovinezza è il momento dell’agitazione, l’età matura quello del riposo: ciò basta per giudicare dei loro rispettivi piaceri. Il bambino tende avidamente le mani nello spazio dietro quegli oggetti, così screziati e così vari, che si vede davanti gli occhi; tutto questo lo eccita perocchè il suo sensorio è ancora tanto fresco e tanto nuovo. Lo stesso avviene, ma con maggior energia, per il giovane. Il mondo dai colori smaglianti, e dalle figure moltiformi lo eccita del pari, ed anzi egli ben presto nella sua immaginazione vi annette più valore che esso non abbia. Per questo la gioventù è piena di esigenze e di aspirazioni a cose vaghe, ciocchè le toglie quel riposo senza di cui non v’ha felicità. Coll’età tutto si calma, sia perchè il sangue si è raffreddato e perchè l’eccitabilità del sensorio è diminuita, sia perchè l’esperienza, illuminandoci sul valore delle cose e sull’essenza dei piaceri, ci ha francati a poco a poco dalle illusioni, dalle chimere e dai pregiudizi che velavano o deformavano fino allora l’aspetto libero e netto delle cose, che ormai sono conosciute tutte più giustamente e più chiaramente; a quell’ora noi le prendiamo per quello che sono, ed acquistiamo in maggior o minor grado, la convinzione della nullità d’ogni cosa sulla terra. Da ciò quasi tutti i vecchi, anche coloro d’un’intelligenza assai volgare, ricevono una certa tinta di saggezza che li distingue dalle persone più giovani. Ma tutto questo produce principalmente la calma intellettuale che è l’elemento importante, direi anzi la condizione e l’essenza della felicità. Mentre l’uomo giovane crede di poter conquistare in questo mondo immense meraviglie se solamente sapesse ove trovarle, il vecchio è penetrato dalla massima dell’Ecclesiaste:«Tutto e vanità», e sa bene che le noci sono vuote quantunque dorate. Solo in un’età avanzata l’uomo arriva interamente al nil admirari di Orazio, vale a dire alla convinzione diretta, sincera e ferma della vanità d’ogni cosa quaggiù, e della inanità di qualunque pompa: le chimere sono svanite. Ei non si pasce più dell’illusione che in qualche parte, palazzo o capanna, risieda una felicità speciale più grande di quella di cui gode egli stesso dovunque, quando è per l’appunto libero da ogni dolore fisico e morale. A’ suoi occhi non v’ha più distinzione tra le cose grandi e le piccole, tra le nobili e le vili, misurate sulla scala del nostro mondo. Ciò dà al vecchio una calma di spirito affatto particolare, la quale gli permette di guardare sorridendo il vano prestigio di quaggiù. Egli è completamente disingannato; sa che la vita umana, checchè si faccia per adornarla e metterla in arnese, non tarda a mostrarsi in tutta la sua miseria a traverso i suoi orpelli da fiera; sa che, qualunque sforzo si faccia per dipingerla ed abbellirla, essa è in sostanza sempre la stessa cosa, vale a dire un’esistenza di cui bisogna stimare il valore effettivo sull’assenza del dolore e non sulla presenza del piacere, e meno ancora del fasto (Orazio, Epist., L. I, 12, v. 1-4). Carattere fondamentale della vecchiajà è il disinganno; in essa non più di quelle illusioni che davano alla vita una bellezza incantevole ed all’attività uno stimolo; si ha conosciuto la nullità e la vanità in questo basso mondo di qualunque magnificenza, specialmente della pompa, dello splendore e d’ogni apparenza di grandezza: si ha avuto prova dell’infimità di ciò che sta in fondo di quasi tutte queste cose che destano così vivo il desiderio, e di questi piaceri a cui si aspira con tanto ardore; e così a poco a poco si è giunti a convincersi della povertà e della vacuità dell’esistenza. Soltanto nel settantesimo anno di vita sono ben compresi i primi versi dell’Ecclesiaste. Ma è anche questo che da alla vecchiaja una certa tinta di tristezza. Si crede comunemente che infermità e noja sieno la condizione dell’età. La prima non le è essenziale, particolarmente quando si ha la prospettiva di arrivare ad una vecchiaja molto avanzata, perocchè crescente vita, crescit sanitas et morbus. E in quanto alla noja ho dimostrato più indietro come la vecchiezza abbia a temerla meno della gioventù: e neppure la noja è la compagna necessaria della solitudine, verso la quale infatti ci spinge l’età per motivi facili a comprendere; essa non segue che coloro i quali hanno conosciuto solamente le gioje dei sensi ed i piaceri della società e che non hanno avuto cura di arricchire il loro spirito, e di sviluppare le loro facoltà. È vero che in un’età avanzata anche le forze intellettuali s’intorpidiscono; ma laddove furono potentemente copiose, ne resterà sempre abbastanza per combattere la noja. Inoltre, come abbiamo dimostrato, la ragione guadagna forza coll’esperienza, colle cognizioni, coll’esercizio e colla riflessione; la mente diviene più acuta, e il concatenamento delle idee più chiaro; in ogni materia si acquista, in grado sempre maggiore, vedute d’insieme sulle cose: le combinazioni poi sempre variate delle cognizioni che già si possedono, i nuovi acquisti che vengono ad aggiungervisi, favoriscono il progresso continuo in tutte le direzioni del nostro sviluppo intellettuale, in cui lo spirito trova in una volta la sua occupazione, il suo soddisfacimento e la sua mercede. Tutto questo compensa fino ad un certo punto l’indebolimento delle facoltà mentali di cui abbiamo parlato. Sappiamo inoltre che nella vecchiezza il tempo corre più rapidamente; così è neutralizzata la noja. In quanto poi allo infiacchirsi delle forze fisiche, ciò non è un danno, salvo il caso in cui si avesse bisogno di esse per la professione che si esercita. La povertà in vecchiaja è una immensa disgrazia. Se si ha saputo tenerla lontana e se si ha conservato la salute, la tarda età può essere una parte sopportabilissima della vita. L’agiatezza e la sicurezza sono i suoi principali bisogni: per questo si ama allora più che mai il danaro perocchè esso supplisce alle forze che mancano. Abbandonati da Venere, si cercherà volentieri di confortarsi con Bacco. Il bisogno di vedere, di viaggiare, d’apprendere è sostituito dal bisogno di insegnare e di parlare. È una felicità per il vecchio l’aver conservato l’amore dello studio, o della musica, o del teatro, e in generale la facoltà di essere impressionato fino ad un certo grado dalle cose esterne: questo succede per qualcuno fino all’età più avanzata. Ciò che l’uomo ha da per sè stesso non gli profitta mai meglio che nella vecchiaja. Ma è vero d’altronde che nella maggior parte le persone essendo state in ogni tempo ottuse di mente, diventano ognora più automi avanzando in età: pensano, dicono e fanno sempre nella stessa guisa, e nessuna impressione esterna può cangiare il corso delle loro idee, o far loro produrre qualche cosa di nuovo. Parlare a vecchi siffatti si è scrivere sulla sabbia: l’impressione si cancella quasi istantaneamente. Una vecchiaja di tale natura non è più, senza dubbio, che il caput mortuum della vita. Pare che la natura abbia voluto simbolizzare la venuta di tale nuova infanzia con quella terza dentizione, che si dichiara in qualche raro caso nei vecchi. L’indebolimento progressivo di tutte le forze a misura che s’invecchia è certamente una cosa tristissima, ma necessaria ed anche benefica: altrimenti la morte, di cui è il preludio, sarebbe troppo penosa. Perciò il principale vantaggio che procura un’età avanzata è l’eutanasia, vale a dire la morte eminentemente facile, senza malattia che la preceda, senza convulsioni che l’accompagnino, una morte per la quale non si sente di morire. Ne ho dato una descrizione nel secondo volume della mia opera, al capitolo 41, pag. 470 (536 della 3a ed.). Perocchè per quanto a lungo si viva non si possede niente al di là del presente indivisibile; ma anzi la memoria perde ogni giorno coll’obblio più che non si arrichisca per l’aggiungervisi di cose nuove. La differenza fondamentale tra la gioventù e la vecchiaja rimane sempre questa: la prima ha in prospettiva la vita, la seconda la morte; per conseguenza una possede un passato corto ed un lungo avvenire, e l’altra l’opposto. Senza dubbio il vecchio non ha più che la morte davanti a sè, quando il giovane ha la vita; ora si tratta di sapere quale delle due prospettive offra maggiori inconvenienti, e se, tutto calcolato, sia preferibile aver la vita dietro di sè o davanti; non ha già detto l’Ecclesiaste: «Il giorno della morte val meglio che ’l giorno della nascita» (7, 1)? In qualunque caso domandare di vivere lungamente è un desiderio temerario. Perocchè «quien larga vida vive mucho mal vide» (chi vive a lungo vive molto male) dice un proverbio spagnuolo. Non è, come pretendeva l’astrologia, la esistenza individuale, ma bensì l’andamento della vita umana in generale che si trova scritto nei pianeti, nel senso che, nel loro ordine, ognuno corrisponde ad un’età, e che quindi la vita è governata successivamente da ciascuno di essi. — MERCURIO regge il decimo anno. Come questo pianeta, l’uomo si muove con rapidità e facilità in un’orbita molto limitata; la più piccola bagattella è per lui causa di perturbazione; ma egli apprende molto e facilmente, sotto la direzione del dio dell’astuzia e dell’eloquenza. — Col ventesimo anno comincia il regno di VENERE: l’amore e le donne possedono interamente l’uomo. — Nel trentesimo anno domina MARTE: a quell’età l’uomo è violento, forte, audace, bellicoso e fiero. — A quarantanni governano i quattro piccoli pianeti: il campo della vita aumenta: è frugi, cioè consacrato all’utile per virtù di CERERE; ha il suo focolare domestico da VESTA; sa ciò che deve sapere per influenza di PALLADE, e, simile a GIUNONE, presso di esso regna sovrana la sposa49. — Nel cinquantesimo anno domina GIOVE: l’uomo è già sopravvissuto alla maggior parte de’ suoi contemporanei, e si sente superiore alla generazione attuale. Mentre possede il pieno godimento delle sue forze, è ricco di esperienza e di cognizioni: ha pure (nella misura della sua individualità o della sua posizione) un’autorità su coloro che lo avvicinano. Non intende più di lasciarsi ordinare: vuole comandare a sua volta. Si è proprio adesso che nella sua sfera egli è maggiormente atto ad esser guida e dominatore. Così culmina GIOVE e, come lui, l’uomo di cinquant’anni. — Ma dopo, nel sessantesimo anno, giunge SATURNO e con lui la pesantezza, la lentezza e la tenacità del PIOMBO: «Ma molti vecchi hanno l’aria d’esser già morti; essi sono pallidi, lenti, pesanti ed inerti come il piombo» (Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto 2°, Scena 5a). — Finalmente viene URANO: è il momento di volare in cielo, come si dice. — Non voglio tener conto di NETTUNO (così pur troppo lo si è chiamato con grave spensieratezza) dal momento che non posso dargli il suo vero nome, che sarebbe EROS. Se così non fosse avrei voluto dimostrare come il principio si lega colla fine, e in qual maniera Eros sia misteriosamente in connessione colla Morte, connessione in virtù della quale l’ORCO, o l’AMENTI degli Egiziani (secondo Plutarco, De Iside et Osir., C. 29), è il «λαμβανων και διδους», per conseguenza non solo «Colui che prende» ma anche «Colui che dà» e la MORTE il grande réservoire (serbatojo) della vita. Da lì, dunque, da lì, dall’ORCO viene ogni cosa, e lì è stato tutto ciò che adesso ha vita: — se solamente fossimo capaci di comprendere il giuoco50 con cui succede la faccenda, allora tutto sarebbe chiaro.

FINE.

Aforismi sulla saggezza nella vita
(dall’opera PARERGA UND PARALIPOMENA)
– Arthur Schopenhauer

 

Letteratura (Brhadaranyaka upanishad)

Brhadaranyaka upanishad

INTRODUZIONE

La Brhadaranyaka Upanishad è parte dei testi che compongono la cosiddetta Sruti, la dottrina rivelata, di cui fanno parte i Veda, i Brahmana, gli Aranyaka e le Upanisad. Le origini di questi testi sono da collocare in un tempo remoto, in cui i Risi, poeti-veggenti dell’antichità, conobbero direttamente e trascrissero i contenuti primordiali della Tradizione indiana. <come altri testi della Tradizione arcaica, la Brhadaranyaka ci è giunta anonima ed impossibile da datare con esattezza, ma certamente è una delle Upanisad più antiche. Aranyaka indica la dottrina che si insegnava e praticava nel folto delle selve, dove si ritiravano in meditazione gli uomini che sceglievano di seguire la via della conoscenza nell’anacoresi. Le Upanisad, invece, sono un insieme di testi che raccolgono l’essenza degli insegnamenti comunicati attraverso l’ascolto diretto da parte del discepolo alla presenza di un maestro (“upanisad” indica l’atto di sedersi accanto al maestro). La radice “upas” indica anche un atteggiamento psicologico di attesa silenziosa, in alcuni casi anche di devozione amorevole. Da questo atteggiamento il discepolo si prepara a ricevere la conoscenza iniziatica, che distruggendo l’ignoranza metafisica (avidya), fornisce i mezzi per conseguire la Conoscenza suprema. Le Upanisad costituiscono l’essenza dei Veda, lo scopo finale (Vedanta), poiché quello che vi è insegnato è da considerarsi come il conseguimento della meta finale di ogni conoscenza Tradizionale. Accostarsi alla Brhadaranyaka Upanisad è innanzitutto incontrare la potenza illuminante della bellezza, la grande libertà di questo testo, intessuto con semplicità e profonda conoscenza sull’esperienza viva e reale della presenza in sé dell’assoluto, della realizzazione della verità. Osservate col sentire di questa potenza, le parole toccano gli oggetti della narrazione, i più elevati e i più umili, illuminando e restituendo ogni cosa alla realtà profonda di cui il narratore è testimone. Le strofe attraversano le voci dei protagonisti, a partire dai primi versi, in cui l’unico esistente è quel Brahman primigenio che da sé stesso trasse questo universo formulando mano a mano i sentimenti che da sempre lo determinano: solitudine, desiderio di conoscersi, desiderio di moltiplicarsi, desiderio di ritrovare sé stessi attraverso il sacrificio della propria individuazione… Questo Brahman ci è svelato così da subito, preesistente e sempre identico, unico e indivisibile e sostanziale ad ogni esistente, nella sua stessa coscienza di essere, qualsiasi cosa, ovunque, la medesima essenza consapevole e senziente. Origine e fine di ogni forma. Il testo passa poi a illuminare la figura di Yajnavalkya, un uomo che in sé stesso ha conosciuto tale essenza e, girovagando, incontra donne e uomini con cui intrattiene conversazioni mirabili. Con il ritmo cantilenante e ripetitivo del cantastorie, ironico e pacato, lentamente, passo dopo passo, oggetto dopo oggetto, le sue parole accompagnano l’ascoltatore a trovarsi nell’unità della coscienza che ha integrato e trasceso ogni oggetto, ogni luce, ogni divinità e ogni cielo: sé stesso. Yajnavalkya attende la domanda dell’interlocutore, accoglie la sua conoscenza e senza trascurare nessuno dei fenomeni dell’esperienza umana li raccoglie ad uno ad uno dentro l’orizzonte della consapevolezza integrata. Di Quello, dell’assoluto, non si può dire più nulla, lì la mente deve ritirarsi, e pochi uomini vi si avventurano. Soltanto il re Janaka, disposto a sacrificare tutti i suoi beni, scioglierà in Yajnavalkya ogni indugio a parlare di sé, dell’uomo che ha superato la selva della sua esistenza individuata, per ritrovarsi in quella origine in cui scompare ogni timore, ogni oggetto o ogni desiderio di felicità terrena e ultraterrena. Lì dove all’inizio era solo morte e fame, si ritrova l’essere che ha conosciuto sé stesso, l’unità indifferenziata e compiuta su cui poggia tutto l’esistente. L’Upanisad del grande Aranyaka, una delle più antiche Upanisad vediche, è originariamente composta da sei letture (Adhyaya), di cui qui si riporta una selezione delle prime quattro. Tra i temi canonici trattati nel testo sono da ricordare: l’esposizione dell’Asvamedha, sacrificio vedico di consacrazione regale, la formulazione della cosmogonia per sdoppiamento del Purusa, primo ente universale, l’insegnamento filosofico dell’identità tra Atman e Brahman, la trattazione della teoria del Karman. All’interno di questi versi è contenuto il grande detto (mahavakya) “Aham Brahmasmi: Io sono Brahman”.

 

PRIMO ADHYAYA

Primo Brahmana

1.Om! Quello è Pienezza, questo è Pienezza; dalla Pienezza si attinge Pienezza. E dopo aver preso Pienezza dalla Pienezza, rimane sempre Pienezza. Om! Pace, pace, pace!

Om! L’aurora è il capo del cavallo sacrificale; il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l’anno il suo corpo. Il cielo è il dorso del cavallo sacrificale; l’atmosfera è la sua pancia, la terra il suo inguine; i punti cardinali sono i suoi fianchi, i punti intermedi le sue coste, le stagioni le sue membra, i mesi e le quindicine le sue giunture, i giorni e le notti le sue gambe, le costellazioni le sue ossa, le nubi le sue carni. La sabbia è il cibo che egli digerisce; i fiumi i suoi intestini, i monti il suo fegato e i suoi polmoni, le erbe e le piante la sua criniera; il sole che si leva è il davanti del suo corpo, dietro il sole che tramonta. Il lampo è il suo ringhio, il tuono lo scuotimento del suo corpo, la pioggia la sua orina, la voce della parola il suo nitrito.

  1. Il giorno, che posa sull’oceano orientale, fu la coppa posta dinanzi al cavallo. La notte, che si trova sull’oceano occidentale, fu la coppa posta dietro al cavallo. Egli fu il Destriero che portò gli Dei, lo Stallone che portò i Gandharva, il Corsiero che portò i Demoni, e infine portò gli Uomini, come fa il Cavallo. Egli è di casa nell’oceano, dove si trova la sua stalla.

Secondo Brahamana

  1. Solo il nulla vi era in origine: L’Universo era avviluppato dalla morte e dalla fame, poiché fame è morte. Egli creò la mente, dicendo tra sé: “Che io possa avere una mente”. Quindi trascorse qualche tempo in adorazione, e in virtù di tale adorazione si produssero le acque. Allora Egli comprese che adorando aveva conseguito l’acqua. Chi conosce l’origine dello splendore (Arka), comprende come conseguire l’acqua e diviene partecipe di felicità.
  2. L’acqua era splendore. La schiuma delle acque si consolidò e diventò la terra. E quando anche la terra fu creata, Egli si sentì stanco. Mentre conosceva la stanchezza e il turbamento, la sua essenza e la sua gloria emersero all’esterno. E questo fu il Fuoco.
  3. Poi si scisse in tre parti, una il fuoco, una il sole, una il vento; questo è il triforme spirito vitale (Prana). L’oriente fu il suo capo, i venti che provengono da quella zona furono le zampe anteriori; l’occidente fu la sua coda; i venti che soffiano da occidente furono le zampe posteriori; il settentrione e il mezzogiorno furono i suoi fianchi, il cielo fu la schiena, l’atmosfera il suo ventre, la terra il suo petto. In tal forma Egli sostenne le acque e chi questo conosce trova, ovunque vada, il suo sostegno.
  4. Poi sentì sentì il desiderio di un altro sé stesso. Per mezzo del principio vitale si accoppiò con la Parola, Egli che è Morte e a cui la Fame è inerente. Seme fu l’anno; non c’era anno prima di allora. Egli lo trattenne per un tempo pari all’anno e trascorso questo tempo lo lasciò uscire. Contro il neonato (la Morte) spalancò le fauci. E il bambino gridò:”Bhan!” ed ebbe così origine la loquela.
  5. Poi pensò tra sé “Se lo uccido, ridurrò il mio cibo a troppo poco”. Per mezzo del principio vitale generò con la parola quanto questo universo contiene: il Rgveda, lo Yajurveda, il Samaveda, gli inni, i sacrifici, gli uomini e gli animali. E quanto aveva creato cominciò a divorare. Per il fatto che tutto divora [ad], Aditi [la Madre] porta il suo nome. Di ogni cosa creata fruisce chi sa questa origine del nome Aditi; tutto si fa cibo per lui.
  6. Poi desiderò compiere un altro e più solenne sacrificio. Egli era stanco e turbato e perciò la sua fiducia e le sue forze venivano a mancare, poiché i sensi sono la fiducia e la forza di un essere. Quando i sensi si dipartirono il suo corpo iniziò a crescere, e così la mente che nel corpo era posta.
  7. Egli formulò: “Diventi atto al sacrificio il mio stesso corpo! Che io possa incarnarmi attraverso di esso”. Siccome il corpo cresceva (Asvat) prese il nome di Asva (cavallo). E siccome crescendo divenne adatto al sacrificio, il sacrificio del cavallo prese il nome di Asvamedha. Colui che conosce questo, conosce il significato del sacrificio del cavallo. Immaginando sé stesso come cavallo, decise di lasciarlo libero e si mise ad osservare. Dopo un anno lo sacrificò a sé stesso e gli altri animali li destinò agli Dei. Perciò si sacrifica a Prajapati ciò che è dedicato a tutti gli dei. Quel sole che lassù arde è il Sacrificio, l’anno è il suo corpo, il fuoco sono i raggi e questi mondi il suo corpo. Questo quanto all’Arka [radianza] e all’ Asvamedha [sacrificio] che sono poi una sola divinità, Mrtyu [la Morte]. Chi sa questo trionfa della morte successiva, la morte non ha più presa su di lui, la morte diventa parte del suo essere. Ed egli diviene una sola cosa con queste divinità.

Quarto Brahmana

  1. In origine questo universo era soltanto il Sé (Viraj) della forma umana. Egli osservò e comprese di essere soltanto sé stesso, dunque affermo “Io sono”. Quindi il suo nome fu Aham (io). Perciò da allora quando a qualcuno si chiede chi egli sia risponde “io sono”, poi aggiunge il proprio nome. Siccome Egli era prima (Purva) di tutto questo universo e prima di chiunque aspiri alla perfezione, Egli bruciò col fuoco (Us) ogni male ed è chiamato Purusa. Colui che conosce questo brucia chiunque desideri levargli il primato.
  2. Egli ebbe paura. Perciò tuttora chiunque sia solo ha paura. Egli pensò: “Se non esiste nessuno oltre me, di che cosa ho paura?”. Allora passò la paura, poiché cosa avrebbe dovuto temere? Solo da una seconda entità può provenire il timore.
  3. Egli non era felice. Perciò tuttora gli uomini non sono felici quando sono soli. Desiderava una compagna. allora divenne grande come un uomo e una donna abbracciati e divise poi il suo corpo in due parti. Da questo nacquero il marito e la moglie. Perciò diceva Yajnavalkya che questo corpo è la metà dell’intero, come la metà di un frutto solo. E lo spazio mancante fu riempito con la moglie, con cui Egli si unì, e da cui nacquero gli uomini.
  4. Ella pensò: “Come può lui unirsi a me dal momento che mi ha generato? Bisogna che io mi nasconda”. Essa si mutò quindi in una vacca, ma lui divenne un toro e si unì a lei, così nacquero le vacche. Poi lei si tramutò in cavalla e lui si fece stallone; poi lei si fece asina e l’altro somaro e si unì a lei; così nacquero queste famiglie di animali. Essa poi si mutò in capra, l’altro in becco; poi pecora e montone, e da questo nacquero le capre e le pecore. Così Egli creò tutto ciò che esiste in coppie, fino alle formiche.
  5. Comprese allora di essere la creazione poiché egli stesso aveva creato ogni cosa. Quindi si chiamò Creazione. Colui che conosce questo diviene un creatore in questa creazione di Viraj.
  6. Allora adoperò lo sfregamento per produrre ancora e trasse il fuoco dalla sua origine, la bocca e le mani. Perciò questi organi sono glabri al loro interno. Quando si parla a proposito degli dei, dicendo di sacrificare loro, si pensi che questi sono soltanto Sue proiezioni, e Quello è l’unico Dio. Tutto ciò che è liquido Egli lo produsse dal seme, e tale è il Soma. Questo universo dunque è invero tutto questo: il cibo e colui che lo consuma. Il Soma è il cibo e il fuoco è ciò che lo consuma. La maggiore creazione di Viraj consiste nell’avere creato gli Dei, più perfetti di Lui. Poiché Lui, sebbene mortale, creò gli immortali, questa è la sua creazione maggiore. Colui che conosce questo diviene partecipe della maggiore creazione di Viraj.
  7. Questo mondo non era un tempo distinto e ciò avvenne per mezzo di nomi e di forme: perciò anche oggi si distingue per mezzo di nomi e di forme, dicendo “quello che ha una tal forma ha il tale nome”. In questo modo Egli penetrò fino alla punta delle unghie, così come un rasoio si cela nell’astuccio o il fuoco nel combustibile. Non si vede mai tutto perché quando respira si chiama Spirito Vitale, quando parla Parola, Occhio quando vede, Orecchio quando ode, Intelletto quando pensa. Ma questi non sono che nomi della sua varia attività: chi venera quindi una cosa o l’altra, non possiede vera conoscenza, perché in questa o quella cosa Esso non esiste solo parzialmente. Si veneri soltanto quale Atman, perché in Esso il molteplice diventa uno. Si segua dunque nel mondo la traccia di ciò che l’Atman è in noi; per mezzo di Esso si arriva a conoscere questo universo. Come seguendo le orme si ritrova il bestiame smarrito, così trova fama e onore chi questo conosce.
  8. Perciò l’Atman è più caro di un figlio, più caro della ricchezza, più caro di tutto; perciò esso è ciò che ci sta più a cuore. Chi ha a cuore il Sé potrebbe dire a chi tiene a cuore qualsiasi altra cosa ” Ciò che ami perirà” e certamente direbbe il vero. Si mediti quindi come cosa cara l’Atman soltanto: chi Quello medita come la cosa più cara, pone il suo amore in ciò che non perisce.
  9. Si dice che gli uomini pensano di diventare tutto tramite la conoscenza di Brahman, ebbene cosa avrebbe dovuto conoscere Brahman da cui tutto l’universo proviene?
  10. Questo essere era solo Brahman, e conosceva unicamente sé stesso come “Io sono Brahman”. Divenne così ogni cosa, l’universo intero. Chi tra gli Dei pervenne allo stesso riconoscimento divenne il Brahman stesso; così fu per i Rishi, così avvenne per gli uomini. Perciò, realizzato questo, il saggio Vammadeva asserì: “Io fui una volta Manu; io stesso fui il Sole”. Così accade anche oggi, che chi realizzi “io sono Brahman” diventi egli stesso l’universo. Neanche gli Dei lo possono impedire, perché egli diviene il Sé anche degli Dei. Chi venera dunque un Dio, diverso dal Sé, dicendo “Egli è una cosa e altro sono io” invero non ha compreso, egli è come un animale, utile agli Dei. Così come molti animali servono gli uomini, così ogni uomo serve gli Dei; e se anche un solo animale viene rubato il padrone se ne dispiace, cosa direbbe se molti animali gli fossero tolti? Perciò non piace agli Dei che gli uomini conoscano questo.
  11. In origine tutte le caste erano Brahman, senza differenze. Ma nell’unità non poteva moltiplicarsi. Creò quindi una forma particolarmente eccellente, gli Kshatriya (casta di guerrieri e re) e coloro che sono Kshatriya tra gli Dei:Indra, Varuna, la Luna, Rudra, Parjanya, Yama, la Morte e Isana. Perciò nulla è superiore agli Kshatriya e il sacerdote venera il guerriero durante la consacrazione di un re. Così facendo il sacerdote impartisce tale gloria al guerriero. Il sacerdote è l’origine del guerriero. Perciò anche se il re ottiene la supremazia attraverso il rito, alla fine fa ricorso al sacerdote, come la sua origine. Colui che offende il sacerdote, va contro la propria origine; e gliene proviene un danno grave, come colui che offende un superiore.
  12. Ciò nonostante ancora non si moltiplicava. Creò quindi i Vaisya (casta dei coloni, artigiani e commercianti) e quelli che tra gli Dei sono designati a gruppi: Vasu, Rudra, Aditya, Visvadeva and Marut.
  13. Ma ancora non si moltiplicava. Creò allora la casta dei Sudra (casta dei contadini, braccianti, servi), e la Dea Pusan. Attraverso di essi si nutre tutto quello che esiste.
  14. Ancora non si moltiplicava. Dunque creò una forma eccellente, il Dharma (il Diritto, la Legge). Questa legge governa gli Kshatriya, perciò non vi è nulla di più alto. Per essa anche un uomo debole può sperare di difendersi da un uomo più forte attraverso la legge, così come con l’aiuto del re. In effetti, il Dharma non è altro che la verità, perciò si dice dell’uomo veritiero che quegli è un uomo retto, e di una persona che si esprime con giustizia che sta dicendo la verità. Infatti Dharma e verità sono la stessa cosa.
  15. Così furono create le quattro caste: Brahmana, Kshatriya, Vaisya e Sudra. Egli divenne il fuoco (Agni) tra gli Dei e la casta Brahmana tra gli uomini. Divenne uno Kshatriya tra gli Kshatriya divini, un Vaisya tra i Vaisya divini, e un Sudra tra i Sudra divini. Perciò gli uomini desiderano ottenere benefici dai riti dedicati agli Dei attraverso il fuoco, e tra gli uomini attraverso i sacerdoti. Se, comunque, qualcuno lascia questo mondo senza avere realizzato il proprio compito come il Sé, Questi, restando ignoto, non proteggerà quell’ente, così come non sarebbero di aiuto i Veda non studiati e le azioni non compiute. Ciascuno mediti sui propri doveri come fossero il Sé. Chi mediterà in tale modo non vedrà vanificate le proprie opere, poiché dal Sé si crea tutto ciò che si desidera.
  16. Questo Atman presente in ciascuno è la sede di tutti gli esseri: è la sede degli Dei, in quanto l’uomo sacrifica e offre i suoi doni; dei Rishi, in quanto egli studia e impara a memoria;dei Mani, in quanto offre ai Mani e desidera prole; degli uomini, quando dà cibo e ospitalità ai suoi simili; del bestiame, perché provvede ad esso l’acqua e il cibo; l’Atman è la sede delle belve rapaci, degli uccelli e di tutti gli animali, fino alle formiche, poiché essi trovano da vivere nella sua casa. Chi desidera la sicurezza della propria casa dia sicurezza alle creature che ricercano protezione, tutti gli esseri desiderano l’incolumità di colui che sa questo. Ciò è stato indagato e riconosciuto.
  17. Questo universo era in origine il puro e semplice Atman. Egli era solo ed espresse il desiderio: “Possa io avere moglie, figli, ricchezze, e possa anche compiere opere buone”. Tanti e non più sono infatti i beni desiderabili, di più non si può ottenere. Perciò uno che sia solo desidera anche oggi avere una moglie, dei figli, del denaro, e spera di compiere opere buone; e fino che non abbia anche una sola di queste cose non si sente completo. Ma la sua vera interezza consiste in questo: l’Intelletto è il suo io, la Parola sua moglie, lo Spirito vitale è suo figlio, l’Occhio la sua ricchezza terrena, poiché è con gli occhi che egli ne gode; l’Orecchio la sua ricchezza spirituale, poiché con l’Orecchio egli ascolta gli insegnamenti; il corpo è la sua opera meritoria, perché è con esso che si compie. Quintuplice è quindi il sacrificio, quintuplice la vittima, di cinque sensi è composto l’uomo, quintuplice è tutto ciò che esiste. Chi sa questo, consegue tutto quel che esiste.

Quinto brahmana

  1. Quando il Padre creò i sette tipi di cibo attraverso la meditazione e l’ascesi, dispose che uno fosse comune a tutti i viventi, due li riservò agli dei, tre a sé stesso, uno agli animali. Su questo si fonda tutto, ciò che vive e ciò che non vive. Perché mai non si esauriscono i cibi sebbene vengano costantemente mangiati? Chi conosce la causa di questa permanenza si nutre attraverso lo spirito (Pratika), diventa come gli Dei e condivide il nettare con loro. Questo è il contenuto dei versi:
  2. “Quando il Padre creò i sette tipi di cibo attraverso la meditazione e l’ascesi” significa che il Padre produsse il cibo proprio attraverso la meditazione e il sacrificio. “Dispose che uno fosse comune a tutti i viventi” significa che il mangiare cibo è comune a tutti gli esseri che si nutrono di cibo, ma chi adora questo cibo non è libero dal male, perché esso è cibo generico. “Due li riservò agli dei” significa l’oblazione che si offre sul fuoco e l’offerta di doni destinati agli Dei, quindi gli uomini compiono entrambi questi atti. Altri dicono che questo verso si riferisca ai riti del novilunio e del plenilunio, dunque non lo si aggravi di riti per fini materiali. “Uno agli animali” è il latte, poiché uomini e animali vivono al loro inizio di solo latte. Perciò a un neonato si da del burro chiarificato e si dice che un vitello appena nato non è ancora un erbivoro. “Su questo si fonda tutto, ciò che vive e ciò che non vive” significa che sul latte si fonda ciò che vive e ciò che non vive. Si dice erroneamente che offrendo latte sul fuoco per un intero anno, ci si liberi dalla morte; ciò non è vero. Solo chi comprende che è l’offerta di tutto il cibo il vero sacrificio, si libera dalla morte. “Perché mai non si esauriscono i cibi sebbene vengano costantemente mangiati?” indica che colui che si ciba è allo stesso tempo la causa del permanere del nutrimento, poiché produce il cibo con la meditazione e le opere meritorie, e se così non fosse il cibo presto si esaurirebbe. Dove è detto ” si nutre attraverso lo spirito (Pratika)” Pratika significa preminenza, dunque il verso contiene un encomio: “diventa come gli Dei e condivide il nettare con loro”.
  3. Dove è detto “tre ne riservò a sé stesso” si indicano: la mente, la parola e la forza vitale; questi destinò a sé stesso. Si dice “ero altrove con la mente, non ho veduto; ero altrove con la mente, non ho sentito” perché è attraverso la mente che si vede e che si ode. Il desiderio, la decisione, il dubbio, la fede, l’incredulità, la fermezza, la vergogna, l’intelligenza e la paura sono tutti elementi mentali. Se qualcuno è toccato di spalle avviene che comunque se ne accorga mediante la mente, per questo esiste la mente. E ogni genere di suono appartiene alla parola, poiché serve a designare un oggetto, ma la parola stessa non può essere designata. Prana, Apana, Vyana, Udana, Samana e Ana sono tutte manifestazioni dello spirito vitale. L’ente individuato di identifica con questi oggetti: la parola, la mente e lo spirito vitale.
  4. Così sono formati i tre mondi: la Parola è questa terra, l’Intelletto è l’atmosfera, lo Spirito vitale è il cielo.
  5. Così è anche il triplice Veda: la Parole è il Rgveda, l’intelletto è lo Yajurveda, lo Spirito vitale il Samaveda.
  6. Così le tre entità: gli Dei, i Mani, gli uomini. La Parola è gli Dei, l’Intelletto i Mani, lo Spirito vitale gli uomini.
  7. Così sono anche: padre, madre, prole. L’Intelletto è il padre, la Parola la madre, lo Spirito vitale la prole.
  8. Così il noto, la cosa da conoscere, l’ignoto. Tutto quello che è noto è manifestazione della Parola, perché nota è la Parola. Conoscendo le cose dette, l’uomo progredisce.

9.Quel che è da conoscere è manifestazione dell’Intelletto, ma l’Intelletto è ciò che davvero si vuole conoscere. Attraverso la conoscenza, è dato all’uomo di progredire.

  1. Tutto quello che è ignoto è manifestazione della Spirito vitale, perché lo Spirito vitale è ignoto. Attraverso di esso, l’uomo progredisce.
  2. Il corpo di questa Parola è la terra, la sua manifestazione luminosa è questo fuoco. Perciò fin dove si estende la Parola, giunge questa terra e lì si sprigiona questo fuoco.
  3. Il corpo di questo Intelletto è cielo, la sua manifestazione luminosa è il sole. Perciò fin dove giunge l’Intelletto, giungono il cielo e il chiarore del sole. Dall’Intelletto e dalla Parola nacque lo Spirito vitale; questi è Indra e non ha competitori, poiché non ha un secondo. Non ha competitori che si riconosca in questo.
  4. Il corpo di questo Spirito vitale sono le acque, la sua manifestazione luminosa è quella della luna. Perciò dove giunge lo Spirito vitale abbondano le acque e si mostra la luna. Parola, Intelletto e Spirito vitale sono tutti e tre uguali, tutti e tre infiniti. Chi li venera come finiti consegue una sede temporanea; chi li venera come infiniti, consegue una sede perenne.

SECONDO ADHYAYA

Terzo Brahmana

  1. Due sono le forme del Brahman: la corporea e l’incorporea; l’una è mortale, l’altra immortale; una mobile e una immobile, l’una è chiamata reale dai sensi, l’altra è quella che è tale.
  2. La forma corporea del Brahman non è quella trascendente, poiché questa forma, al di sotto dello spazio e del vento, è limitata, condizionata e mortale. Il sole che arde sopra di essa controlla tutte le forme corporee, condizionate e mortali.
  3. Il vento e lo spazio sono la forma sottile del Brahman, forma che è immortale, essendo incorporea, e trascendente. La persona divina che risiede nel disco solare è la divinità che presiede al piano sottile e incorporeo degli immortali.
  4. Per quanto concerne il corpo fisico, tutto ciò che in esso non è Spirito vitale né parte vuota costituisce il corpo fisico osservabile, mortale, limitato. Essenza di questo corpo legato ai sensi è l’occhio, poiché il mondo percepibile dipende dall’occhio.
  5. Lo Spirito vitale e la parte vuota del corpo sono del Brahman la manifestazione incorporea, quindi immortale e trascendente. La persona che risiede nell’occhio destro come divinità è l’essenza di questa manifestazione incorporea.
  6. Ma l’Essere che sta dietro la forma grossolana e la sottile può essere immaginato con una veste tinta di giallo, o con una bianca pelle di capra, o del rosso di una coccinella. Lo si può concepire come una fiamma di fuoco, un fiore di loto, il bagliore di un lampo. Subitamente Egli lampeggia propizio a chi sa questo. Ma non vi è nulla di più sublime che ripetere “Non è così, non è così” (neti neti). Poiché il suo nome è Verità delle verità, Satyasya sathyam. Se realtà sono infatti gli spiriti vitali, Egli è la loro realtà.

Quarto Brahamana

  1. Il saggio Yajnavalkya disse alla moglie Maitreyi “Io sto per abbandonare questo luogo e voglio quindi regolare gli interessi tra te e Katyayani”.

2.Domandò allora Maitreyi: “Posto che, o signore, io ereditassi tutta questa terra piena di ricchezze, sarei perciò immortale?” Rispose Yajnavalkya: “No, la tua vita sarebbe come quella di chi possiede abbondanza di cose, ma non si può sperare l’immortalità nella ricchezza”

  1. Disse allora Maitreyi “che cosa farei delle ricchezze se non possono rendermi immortale? Mettimi piuttosto a parte di tutto ciò che sai, mio signore”.
  2. Yajnavalkya rispose: “Tu sei stata la mia diletta e perciò mi dici cose amabili. Vieni a sederti qui e io ti spiegherò ogni cosa. Ascoltami con attenzione.
  3. E quindi così parlò Yajnavalkya: “Non per amore del marito è caro il marito, ma per amore dell’Atman il marito è caro. Non per amore della moglie la moglie è cara, ma per amore dell’Atman la moglie è cara. Non per amore dei figli i figli sono cari, ma per amore dell’Atman i figli sono cari. Non per amore della ricchezza amiamo la ricchezza, ma per amore dell’Atman amiamo la ricchezza. Non per amore della condizione di brahmano amiamo la condizione di brahmano, ma per amore dell’Atman consideriamo amabile la condizione di brahmano, e così quella del guerriero. Non per amore di questo mondo ci è caro questo mondo, ma per amore dell’Atman si ha amore verso il mondo. Non per amore degli Dei veneriamo gli Dei, ma per amore dell’Atman abbiamo fede negli Dei. Non per amore delle creature abbiamo a cuore le creature, ma per amore dell’Atman amiamo le creature. Di fatto nulla in questo universo è amabile e amato per esso stesso, ma perché si ama il Sé, ogni cosa di questo universo ci è cara. E’ il sé, mia cara Maitreyi, ciò che deve essere realizzato, vedendo, ascoltando, comprendendo, meditando il Sé. In verità chi avrà veduto, ascoltato, inteso, meditato l’Atman, realizzando il Sé, avrà conosciuto ogni cosa.
  4. Chi crede che la dignità di brahmano derivi da cosa diversa dall’Atman, sarà abbandonato dalla casta dei brahmani; chi crede che la dignità del guerriero derivi da cosa diversa dall’Atman, sarà abbandonato dalla casta dei guerrieri; chi crede che il mondo derivi da cosa diversa dall’Atman, sarà privato dalla gioia del mondo; chi crede che gli Dei derivino da cosa diversa dall’Atman, sarà abbandonato dagli Dei; chi crede che le creature derivino da cosa diversa dall’Atman, sarà abbandonato dalle creature; tutto questo universo rigetta chi crede che sia altro dal Sé. L’Atman è questi brahmana, questi guerrieri, questo mondo, gli Dei, le creature, tutto.
  5. Così come quando si suona un tamburo, non si distinguono i singoli suoni, ma si ascolta la musica d’insieme.
  6. Così come quando si soffia in una conchiglia, non si odono le singole note, ma il suono che ne proviene.
  7. Così come del suono del liuto non si può afferrare le singole note, ma si ascolta la melodia che vi si compone.
  8. Così come fumo di vari colori si sprigiona dal fuoco della legna umida, così, mia amata Maitreyi, così emanano da Quello il Rgveda, lo Yajurveda, il Samaveda, l’Atharvaveda, la storia, la mitologia, le arti, le Upanisad, i versi, i commenti, gli aforismi, le teologie e tutte le forme di conoscenza come ci sono pervenute. Tutte sono il respiro stesso del Sé.
  9. Come l’oceano è il principio e la fine di tutte le acque, la pelle di ogni sensazione tattile, il naso di tutti gli odori, la lingua di tutti i sapori; come l’occhio è l’origine e la meta di ogni colore, l’orecchio lo è di ogni suono, la mente è l’origine e la meta di ogni pensiero, l’intelletto lo è di ogni conoscenza; come le mani sono origine e fine di ogni azione, i genitali lo sono di ogni forma di godimento, l’ano di ogni sorta di escrezione, i piedi sono origine e scopo di ogni moto, così la parola è il ricettacolo di ogni sapere e di tutti i Veda.
  10. Come un pezzo di sale gettato nell’acqua in essa si dissolve e non sarà possibile riaverlo, ma l’acqua ne resta salata ovunque la si attinga, così, mia cara, questa immensa, infinita Realtà non è altro che Pura Intelligenza. Essa si manifesta attraverso questi elementi nella separatezza, e nuovamente si ri-dissolve entro di essi. Dopo aver conosciuto tale unità non vi è più coscienza (dell’individuo o di altro). Così parlò Yajnavalkya.
  11. Disse allora Maitreyi: “Queste parole mi turbano la mia mente. Che quindi non vi sia coscienza quando la mente individuale si dissolve nel Sé”. Rispose Yajnavalkya: “Nulla di quanto ho detto deve confonderti, mia cara, ma serva invece a comprendere.
  12. Poiché quando vi è dualità (tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto) l’uno vede l’altro, lo fiuta, lo sente, gli parla, lo comprende, lo riconosce. Ma quando al conoscitore del Brahman tutto si è risolto nel Sé, chi potrebbe vedere, fiutare, udire e come, chi potrebbe parlare, pensare e conoscere e come? Come si può conoscere Quello per il quale ogni cosa è conosciuta? Come si può conoscere il Conoscitore?

Quinto brahmana

1.Questa terra è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questa terra. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma corporea nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.

  1. Quest’acqua è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per quest’acqua. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma del seme nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.

3.Questo fuoco è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questo fuoco. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma di parola nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.

  1. Questa aria è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questa aria. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma di spirito vitale nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  2. Questo sole è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questo sole. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma dell’occhio nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  3. Questi punti cardinali sono miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questi punti cardinali. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma dell’udito nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  4. Questa luna è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questa luna. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma della mente nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  5. Questo fulmine è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questo fulmine. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma dell’energia nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  6. Questo tuono è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questo tuono. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma del suono della voce nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  7. Questa atmosfera è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questa atmosfera. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma dello spazio nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  8. Questa legge è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questa legge. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma dell’equità nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  9. Questa verità è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questa verità. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma della veridicità nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  10. Questa natura umana è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questa natura umana. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che riveste la forma di umanità nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  11. Questo Sé cosmico è miele per ogni creatura e ogni creatura è miele per questo Sé cosmico. Allo stesso modo l’Essere che risiede in questa terra, tutto luce, immortale, e quello che è il Sé nell’individuo, non è altri che il Sé. Questa conoscenza è l’immortalità, è l’unità in Brahman, nella totalità.
  12. E questo Sé, così conosciuto, è la guida di tutti gli esseri, il sovrano di ogni creatura. Come tutti i raggi della ruota sono infissi nel mozzo e nel cerchio, così tutte le creature, tutti gli Dei, tutti i mondi, tutti gli organi vitali e tutte le individualità sono fissi nel Sé.

TERZO ADHYAYA

Primo Brahmana

  1. Om! Janaka, re dei Videha, apprestò un sacrificio, offrendo ai sacerdoti lauti compensi. Brahmani della stirpe dei Kuru e dei Pancala si riunirono per la cerimonia. Allora Janaka volle sapere quale fosse tra i brahmini il più dotto. E mise da parte mille vacche, con ciasuna dieci placche d’oro attaccate alle corna.
  2. Quindi disse ai sacerdoti: “Reverendi bramini, invito il più erudito teologo tra voi a portarsi via queste vacche”. Ma i sacerdoti non osavano. Allora Yajnavalkya disse a un suo discepolo: “Portale a casa, caro Samasravas!”. E poiché egli le ebbe portate via con sé, i brahmini si sdegnarono: “Come osa dichiararsi il migliore tra noi?”. Asvala, il sacerdote di corte, si fece innanzi e lo apostrofò: “Tu dunque, Yajnavalkya, sei il teologo più erudito tra tutti noi!”. Ed egli di rimando “Mi inchino al più erudito tra i teologi, ma io desideravo solo quelle vacche”. Allora Asvala iniziò ad interrogarlo.
  3. “Yajnavalkya, se il mondo intero è soggetto alla morte, se l’universo intero è in balia della morte, come si sottrae il sacrificatore alla schiavitù della morte?” “Con la parola, per mezzo del fuoco, quella è il (vero) sacerdote chiamato Hotr. La parola del sacrificatore è il sacerdote. Questa parola è fuoco, il fuoco è il sacerdote; lo stesso fuoco del sacrificio è il fuoco della liberazione, la stessa emancipazione suprema.”
  4. “Yajnavalkya, se il mondo intero è soggetto al giorno e alla notte, se è in balia di essi, come si sottrae il sacrificatore al vincolo del giorno e della notte?” “Con l’occhio, che attraverso il sole, è il vero sacerdote chiamato Adhvaryu. L’occhio del sacrificatore è Adhvaryu. Questo occhio è il sole; questo sole ci porta alla liberazione, che è la stessa emancipazione suprema.”
  5. “Yajnavalkya, se il mondo intero è vincolato alle due quindicine del mese, quella luminosa e quella scura, se esso è in balia delle quindicine, come si sottrae il sacrificatore dal vincolo della quindicina luminosa e di quella oscura?” “Attraverso lo Spirito vitale, che è come l’aria, che è il vero sacerdote chiamato Udgatir. Lo Spirito vitale è l’aria ed è il sacerdote; come questa aria è la liberazione; tale liberazione è l’emancipazione suprema.”
  6. “‘Yajnavalkya, se il cielo è, come si dice, senza supporto, per quale scala salirà il sacrificatore ai mondi celesti?” “Per mezzo dell’intelletto, attraverso la luna, che è il vero sacerdote chiamato Brahman. L’intelletto del sacrificatore è il Brahman. Questo intelletto è la luna; questa luna è la liberazione; questa liberazione è l’emancipazione suprema.” Questo è quanto fu detto sulla liberazione suprema […]

Quarto Brahamana

  1. Si avvicinò per interrogarlo allora Usasta Cakrayana. “Yajnavalkya, spiegami dunque cosa è il Brahman che può essere realizzato direttamente come tale, come il vero Sé dentro tutti gli esseri” “E’ il tuo stesso Sé presente in tutti gli esseri” “Cosa è in tutti gli esseri Yajnavalkya?” “Quello che tira a sé l’aria inspirando è lo stesso Atman presente in ogni essere; quello che assorbendo l’aria, la fa discendere nel petto, è lo stesso Atman presente in ogni essere; Quello che diffonde, trattenendolo, il respiro in tutto il corpo, è lo stesso Atman presente in ogni essere; Quello che fa fuoriuscire il fiato espirando è lo stesso Atman presente in ogni essere. Quello è il tuo stesso Atman presente in ogni essere.
  2. Riprese allora Usasta Cakrayana: “Ne hai parlato come uno che dica che una vacca è quel tal animale o il cavallo quel tal altro. Spiegami veramente che cosa sia il Brahman che si realizza direttamente come il Sé di ogni essere” “Presente in ogni cosa è questo tuo Atman”. “Cosa è presente, Yajnavalkya?” “Non puoi vedere Quello che è testimone del vedere; non puoi udire l’uditore dell’udire; non puoi pensare Quello che pensa il pensare; non puoi conoscere il conoscitore della conoscenza. Ecco che cos’è il tuo stesso Atman presente in ogni essere. A parte Brahman, ogni altra cosa è dolore.” A queste parole Usasta Cakrayana tacque.

Quinto brahmana

  1. Si fece avanti allora Kahola Kusitakeya per interrogarlo. “Yajnavalkya, spiegami dunque cosa è il Brahman che può essere realizzato direttamente come tale, come il vero Sé dentro tutti gli esseri” “E’ il tuo stesso Sé presente in tutti gli esseri” “Cosa è in tutti gli esseri Yajnavalkya?” “Quello che trascende la fame e la sete, il dolore, la follia, la vecchiezza e la morte. Chi ha conosciuto questo Atman, rinuncia al desiderio di avere figli, di possedere ricchezze, di ottenere i mondi celesti e abbraccia una vita mendicante. Poiché il desiderio di figli è il desiderio di ricchezza, il desiderio di ricchezza è il desiderio dei mondi celesti, ma entrambi sono solo meri desideri. Quindi il conoscitore di Brahman, avendo completato i propri studi, si procuri di restare in uno stato di stabilità in cui si palesi la conoscenza; conosciuto ogni aspetto relativo alla stabilità e allo studio, diventi meditativo; conosciuto ogni stato della meditazione e del suo opposto, egli diventa il vero conoscitore del Brahman. E come si comporta un tale saggio, che abbia conosciuto il Sé? sebbene possa agire, egli semplicemente è ciò che è. A parte Brahman, ogni cosa è destinata a perire.” Quindi tacque Kahola Kusitakeya. […]

Sesto brahmana

  1. Si fece avanti quindi Gargi, figlia di Vacaknu:” Yajnavalkya, se l’universo è nato e sostenuto dall’acqua, che cosa pervade e sostiene l’acqua?” “L’aria, Gargi”. Quindi proseguì: “E allora da che cosa è pervasa l’aria?” “Dalle regioni eteree dei Gandharva. E lei: “”Da che cosa sono pervase le regioni dei Gadharva?” “Dal cielo solare, Gargi”. ” E in cosa è intessuto il cielo solare, Yajnavalkya?” “Nel cielo lunare, Gargi” “E in cosa è conteso il cielo lunare?” “Nel cielo delle stelle” “E in che cosa è tessuto e conteso il cielo delle stelle?” ” Nel cielo degli Dei”. Allora proseguì: “E in che cosa è intessuto il cielo degli Dei?” “Nel mondo di Indra” “In che cosa quindi è intessuto il mondo di Indra?” “Nel mondo di Viraj, o Gragi” “E in che cosa è intessuto il mondo di Viraj? ” Nel mondo di Hiranyagarbha” “E in che cosa è intessuto il mondo di Hiranyagarbha?” Allora lui rispose: “Non chiedere troppo Gragi, o la tua testa potrebbe cadere. Stai domandando di quella realtà divina cui non è possibile pervenire con la ragione. Non spingere oltre le tue domande.” Quindi Gargi, figlia di Vacaknu, fece silenzio.

Settimo brahmana

  1. Allora Uddalaka, figlio di Aruna, gli rivolse la parola. ” Yajnavalkya, quando da studenti vivevamo a Madra, in casa di Patanchala Kapya, sua moglie era posseduta da un Gandharva. Noi gli chiedemmo chi fosse e lui rispose “Kabandha,figlio di Atharvan”. Questi quindi chiese al padrone di casa e a noi studenti “Conosci, Kapya, quel Sutra mediante il quale questa vita, la vita successiva e tutti gli esseri sono collegati?” Patanchala Kapya rispose “No, venerando, lo ignoro.” Il Gandharva disse a lui e agli studenti: “Kapya, conosci l’Ordinatore Interno, che controlla questa vita e la prossima e tutti gli esseri dal loro interno?” Patanchala Kapya rispose “No, Signore, non lo conosco”. Quindi il Gandharva disse: ” Colui che conosce quel Sutra e quell’Ordinatore Interno conosce il Brahman, conosce i mondi, gli Dei, i Veda, gli esseri, il Sé, egli conosce tutto.” Quindi lo spiegò a noi, perciò io lo so. Dunque se tu, Yajnavalkya, non conosci quel Sutra e quell’Ordinatore Interno ma vuoi prendere le vacche che appartengono a colui che conosce il Brahman, che la tua testa possa cadere.” “Io conosco, o Gautama, quel Sutra e quell’Ordinatore Interno”. “Oh, ma chiunque può dire di sapere. Dicci cosa davvero sai”.
  2. Allora egli disse: “Il vento, Gautama, è quel Sutra. Attraverso di esso, Vayu, questa vita e la prossima e tutti gli esseri sono collegati. Perciò, quando un uomo muore si dice che le sue membra si sono sciolte. Il vento è infatti il nodo che insieme le lega” “Proprio così, Yajnavalkya. Parlami ora dell’Ordinatore Interno.”
  3. “Quello che dimora all’interno della terra, che la terra non conosce, il cui corpo è la terra, che ordina la terra dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  4. Quello che dimora all’interno dell’acqua, che l’acqua non conosce, il cui corpo è l’acqua, che ordina l’acqua dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  5. Quello che dimora all’interno del fuoco, che il fuoco non conosce, il cui corpo è il fuoco, che ordina il fuoco dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  6. Quello che dimora all’interno del cielo, che il cielo non conosce, il cui corpo è il cielo, che ordina il cielo dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  7. Quello che dimora all’interno dell’aria, che l’aria non conosce, il cui corpo è l’aria, che ordina l’aria dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  8. Quello che dimora all’interno del mondo celeste, che il mondo celeste non conosce, il cui corpo è il mondo celeste, che ordina il mondo celeste dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  9. Quello che dimora all’interno del sole, che il sole non conosce, il cui corpo è il sole, che ordina il sole dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  10. Quello che dimora all’interno dei punti cardinali, che i punti cardinali non conoscono, il cui corpo sono i punti cardinali, che ordina i punti cardinali dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  11. Quello che dimora all’interno della luna e delle stelle, che la luna e le stelle non conoscono, il cui corpo sono la luna e le stelle, che ordina la luna e le stelle dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  12. Quello che dimora all’interno dell’etere, che l’etere non conosce, il cui corpo è l’etere, che ordina l’etere dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  13. Quello che dimora all’interno della tenebra, che la tenebra non conosce, il cui corpo è la tenebra, che ordina la tenebra dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  14. Quello che dimora all’interno della luce, che la luce non conosce, il cui corpo è la luce, che ordina la luce dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale. Questo per quanto riguarda le divinità. Ora ciò che concerne gli esseri.
  15. Quello che dimora all’interno degli esseri, che gli esseri non conoscono, il cui corpo sono gli esseri, che ordina gli esseri dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale. Questo per quinto riguarda gli esseri. Ora per quanto concerne il corpo individuale.
  16. Quello che dimora all’interno del naso, che il naso non conosce, il cui corpo è il naso, che governa il naso dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  17. Quello che dimora all’interno della parola, chela parola non conosce, il cui corpo è la parola, che governa la parola dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  18. Quello che dimora all’interno dell’occhio, che l’occhio non conosce, il cui corpo è l’occhio, che governa l’occhio dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  19. Quello che dimora all’interno dell’orecchio, che l’orecchio non conosce, il cui corpo è l’orecchio, che governa l’orecchio dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  20. Quello che dimora all’interno della mente (Manas), che la mente non conosce, il cui corpo è la mente, che governa la mente dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  21. Quello che dimora all’interno della pelle, che la pelle non conosce, il cui corpo è la pelle, che governa la pelle dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  22. Quello che dimora all’interno dell’intelletto, che l’intelletto non conosce, il cui corpo è l’intelletto, che governa l’intelletto dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.
  23. Quello che dimora all’interno dei genitali, che i genitali non conoscono, il cui corpo sono i genitali, che governa i genitali dall’interno, è l’Ordinatore Interno, il tuo stesso Sé immortale.

Egli è il Veggente non veduto, l’Uditore non udito, il Pensatore impensabile, il Conoscitore inconoscibile. Non vi è altro veggente che Lui, non vi è latro uditore che Lui, non altro pensatore che Lui, non altro conoscitore che Lui. Egli è l’Ordinatore interno, il tuo stesso Sé immortale. Quanto da Lui differisce è dolore.” A queste parole Uddalaka, figlio di Aruna, tacque.

Ottavo brahmana

  1. Disse allora la figlia di Vachaknu: “Reverendi Bramini, porrò ora due domande a Yajnavalkya; se saprà rispondermi, nessuno di voi potrà mai batterlo nella descrizione del Brahman” ” Domanda, Gargi”.
  2. Ella disse: “Ti sfido con due domande, Yajnavalkya, come un guerriero di Banaras o di Videha tende l’arco che aveva prima disteso e avanza con due frecce destinate al nemico, così io ti pongo due domande. Rispondimi.” “Chiedi pure, Gargi”
  3. E Gargi chiese: “Da che cosa, o Yajnavalkya, è pervaso ciò che si trova al di sopra del cielo, al di sotto della terra, e ciò che è posto in mezzo tra il cielo e la terra; e in cosa lo sono il passato, il presente, il futuro?”
  4. Ed egli rispose: ” Nell’Immanifesto è pervaso ciò che si trova al di sopra del cielo, al di sotto della terra, e ciò che è posto in mezzo tra il cielo e la terra; e lo sono il passato, il presente, il futuro.”
  5. Ella disse: “Mi inchino a te, Yajnavalkya, che hai risposto perfettamente alla mia domanda. Preparati ora alla seconda. “Chiedimi dunque, Gargi”.
  6. E Gargi chiese: “Da che cosa, o Yajnavalkya, è pervaso ciò che si trova al di sopra del cielo, al di sotto della terra, e ciò che è posto in mezzo tra il cielo e la terra; e in cosa lo sono il passato, il presente, il futuro?”
  7. Ed egli rispose: ” Nell’Immanifesto è pervaso ciò che si trova al di sopra del cielo, al di sotto della terra, e ciò che è posto in mezzo tra il cielo e la terra; e lo sono il passato, il presente, il futuro.” ” Ma in cosa è pervaso l’Immanifesto?”
  8. Egli quindi rispose: “Tale è ciò che i conoscitori del Brahman chiamano l’Immutabile. Esso non è né grosso né sottile, né corto né lungo, non ha sangue né grasso, non ha luce né oscurità, non è vento e non è etere, non attacca, non gusta né odora, non ha vista e non ha udito, non ha voce né mente, non ha vitalità, né bocca, non ha misura, e non ha né interno né esterno. Nulla mangia e nessuno se ne può cibare.
  9. Sotto il potere ordinatore di questo Immutabile, o Gargi, il sole e la luna sono mantenuti nelle loro orbite; sotto il potere ordinatore di questo Immutabile, o Gargi, il cielo e la terra mantengono le loro rispettive posizioni; sotto il potere ordinatore di questo Immutabile, o Gargi, i Muhurtas, i giorni e le notti, i cicli lunari, i mesi, le stagioni e gli anni compiono ciascuno il suo corso. Sotto il potere ordinatore di questo Immutabile, o Gargi, alcuni fiumi sgorgano dalle Montagne bianche e scorrono verso est, altri scorrono verso ovest e proseguono per la medesima direzione, così come tutti gli altri mantengono il proprio corso; sotto il potere ordinatore di questo Immutabile, o Gargi, gli uomini sono onorati in relazione a ciò che donano, gli Dei richiedono i sacrifici e i Mani le offerte.
  10. Colui che in questo mondo, senza conoscere questo immutabile, offre oblazioni nel fuoco, pratica sacrifici e si sottopone a severe austerità anche per migliaia di anni, ne ricaverà un merito transitorio; colui che lascia questo mondo senza conoscere l’Immutabile è povero, o Gargi. Ma colui che si diparte da qui dopo aver conosciuto l’Immutabile è un conoscitore del Brahman.
  11. Questo Immutabile, o Gragi, è il Veggente non veduto, l’Uditore non udito, il Pensatore impensabile, il Conoscitore inconoscibile. Non vi è altro veggente che Lui, non vi è latro uditore che Lui, non altro pensatore che Lui, non altro conoscitore che Lui. Da questo Immutabile, Gargi, è pervaso lo spazio Immanifesto.
  12. Allora Gargi disse: ” Reverendi Brahmini, dovreste considerarvi fortunati se potrete andarvene porgendo il vostro omaggio a Yajnavalkya, poiché nessuno di voi potrà batterlo nel descrivere la realizzazione del Brahman”. Dunque la figlia di Vachaknu si ritirò in silenzio.

QUARTO ADHYAYA

Terzo Brahmana

  1. Un giorno Yajnavalkya andò in visita da re Janaka, imperatore dei Videha, pensando di non dirgli nulla. Quindi dopo che i due ebbero parlato per un pò del fuoco sacrificale, Yajnavalkya offrì al suo ospite di esprimere un desiderio. Il re chiese di potergli porre qualsiasi quesito volesse, e Yajnavalkya mantenne la sua promessa di esaudirlo. Così il re espresse la prima domanda.
  2. “Yajnavalkya, di quale luce si serve l’uomo?” ” Della luce del sole, o re” rispose Yajnavalkya “Nella luce del sole l’uomo siede, si muove, lavora e rincasa” “Proprio così, Yajnavalkya”.
  3. “Ma quando il sole tramonta, Yajnavalkya, di quale luce può servirsi l’uomo?” “Della luce della luna” rispose Yajnavalkya “Nella luce della luna l’uomo siede, si muove, lavora e rincasa” “Proprio così, Yajnavalkya”.
  4. “Ma quando il sole e la luna sono tramontati, di quale luce può servirsi l’uomo?” “Della luce del fuoco” rispose Yajnavalkya “Nella luce del fuoco l’uomo siede, si muove, lavora e rincasa” “Proprio così, Yajnavalkya”.
  5. “Ma quando il sole e la luna sono tramontati e il fuoco è spento, Yajnavalkya, di quale luce può servirsi l’uomo?” “Della luce della parola” rispose Yajnavalkya “Nella luce della parola l’uomo siede, si muove, lavora e rincasa. Perciò, o gran re, quando neppure è possibile vedere la propria mano, ci si orienta seguendo le voci” “Proprio così, Yajnavalkya”.
  6. “Ma quando sole e luna sono già tramontati, il fuoco si è spento e le voci tacciono, Yajnavalkya, di quale luce può servirsi l’uomo?” “Della luce del suo stesso Sé [Atman]” rispose Yajnavalkya “Nella luce del suo stesso Sé l’uomo siede, si muove, lavora e rincasa” “Proprio così, Yajnavalkya”.
  7. “Cos’è l’Atman?” “Questo essere infinito (Purusa) che è identificato con l’intelletto e risiede al centro degli organi, quella luce auto-risplendente situata all’interno del cuore. Assumendo le sembianze di intelletto, si muove attraverso i mondi; pensa, come se lo fosse e si muove come se lo fosse. E identificato con questo sogno, varca questo mondo e trascende le forme mortali.
  8. Questo, quando nasce e acquisisce un corpo, si unisce al dolore; quando muore o abbandona il corpo, si scioglie dal dolore.
  9. Questo abita due stati, quello del mondo e quello ultraterreno. Il sogno, che è il terzo, è quello che li congiunge entrambi. In tale stato intermedio egli vede i due stati, quello terreno e l’ultraterreno. Ricercando di raggiungere lo stato ultraterreno, ottiene la visione del dolore e della gioia. Durante il sogno egli porta con sé una parte delle impressioni della veglia, prive del loro corpo materiale, e dà loro un corpo di sogno, essendo lui stesso la luce che crea e plasma il mondo dei sogni. In questo stato egli è la luce di cui si serve.
  10. Là non esistono carri, né animali da aggiogare, né strade, ma egli crea i carri, gli animali e le strade. Là non vi sono piaceri, né gioie, né godimenti, ma egli crea i piaceri, le gioie e i godimenti. Là non ci sono né laghi, né fiumi, né stagni, ma egli crea i laghi, i fiumi, gli stagni. Perché è lui il creatore.
  11. A questo proposito si citano le strofe: “L’infinito essere radiante (Purusa) solitario, abbandona il corpo materiale nello stato di sogno e restando sveglio, porta con sé le funzioni degli organi sensoriali, per guardare coloro che dormono. E ancora poi ritorna nello stato di veglia.
  12. L’infinito essere radiante e solitario, lascia il respiro a proteggere il suo nido (il corpo), e vola via da esso, andando, l’Immortale, ovunque vuole.
  13. Nel sogno, l’essere splendente, sperimenta stati elevati e volgari, assumendo innumerevoli forme. Sembra divertirsi in compagnia di donne, o ridere, o vedere cose spaventose.
  14. Tutto ciò che si vede è il suo gioco, ma nessuno può vedere lui stesso.” Perciò si dice: “Non svegliatelo di soprassalto” Poiché se non trova la strada del ritorno, difficilmente potrà guarire. Altri dicono che lo stato di sogno sia identico allo stato di veglia, perché egli vede le stesse cose che vede quando è desto. Ma nello stato di sogno l’uomo si serve di sé stesso come luce.” “Signore, ti darò mille vacche, ma ti prego istruiscimi ancora sulla liberazione”.
  15. “Dopo avere goduto del girovagare e conosciuti il bene e il male nello stato di sogno, egli si abbandona allo stato del sonno profondo, e rientra per il percorso inverso alla condizione precedente, lo stato di sogno. Egli non è toccato da quanto vede nel sogno, poiché nulla può attaccare l’Essere Infinito.” ” Proprio così, Yajnavalkya. Ti darò mille vacche, ma ti prego istruiscimi ancora sulla liberazione”.
  16. “Dopo avere goduto del sogno e conosciuti il bene e il male, egli rientra per il percorso inverso alla condizione precedente, lo stato di veglia. Egli non è toccato da quanto vede nella veglia, poiché nulla può attaccare l’Essere Infinito.” ” Proprio così, Yajnavalkya. Ti darò mille vacche, ma ti prego istruiscimi ancora sulla liberazione”.
  17. “Dopo avere goduto del girovagare e conosciuti il bene e il male nello stato di veglia, egli rientra per il percorso inverso alla condizione precedente, lo stato di sogno.
  18. Come un grande pesce nuota da una riva all’altra del fiume, così l’Essere Infinito passa dall’uno all’altro stato, la veglia e il sogno. 19. Come un’aquila o un falco, volando in cielo, infine ripiegano le ali, stanchi, e ritornano al nido, così l’Essere Infinito ritorna infine a quello stato di sonno profondo ove non prova più desideri e non vede più sogni. […]
  19. In questa forma, al di là dei desideri, egli è libero dal dolore e dalla paura. Come un uomo, abbracciato alla donna amata, non conosce più nulla altro, né interno né esterno, così l’Essere Infinito, il Sé, completamente avvolto nel Supremo Sé, non conosce altro, né esterno, né interno. In questa forma ogni desiderio è stato appagato nel Sé, ed egli è perciò libero da brame e da angustie.
  20. In questo stato un padre non è un padre, una madre non è una madre, non esistono i mondi, non gli dei, né i Veda. In questo stato un ladro non è più un ladro, neppure l’assassino è un assassino, non esiste il Chandala o il Pulkasa, non esiste il monaco o l’eremita. Questa forma non è toccata dalle opere buone né dalle opere malvagie, poiché è la di là di ogni tormento del cuore.
  21. Sebbene in questo stato nulla vede, non cessa di essere colui che vede; la visione dell’osservatore non può essere perduta, poiché egli è imperituro. Ma non vi è alcun oggetto separato da lui che possa essere veduto.
  22. Sebbene in questo stato nulla fiuta, non cessa di essere colui che fiuta; l’olfatto di colui che fiuta non può essere perduto, poiché egli è imperituro. Ma non vi è alcun oggetto separato da lui che possa essere fiutato.
  23. Sebbene in questo stato nulla gusta, non cessa di essere colui che gusta; il gusto di colui che assapora non può essere perduto, poiché egli è imperituro. Ma non vi è alcun oggetto separato da lui che possa essere gustato.
  24. Sebbene in questo stato nulla dice, non cessa di essere colui che parla; la parola di colui che parla non può essere perduta, poiché egli è imperituro. Ma non vi è alcun oggetto separato da lui che possa essere detto.
  25. Sebbene in questo stato nulla ascolta, non cessa di essere colui che ascolta; l’udito dell’ascoltatore non può essere perduto, poiché egli è imperituro. Ma non vi è alcun oggetto separato da lui che possa essere udito.
  26. Sebbene in questo stato nulla pensa, non cessa di essere colui che pensa; il pensiero di colui che pensa non può essere perduto, poiché egli è imperituro. Ma non vi è alcun oggetto separato da lui che possa essere pensato.
  27. Sebbene in questo stato nulla tocca, non cessa di essere colui che tocca; il tatto di colui che tocca non può essere perduto, poiché egli è imperituro. Ma non vi è alcun oggetto separato da lui che possa essere toccato.
  28. Sebbene in questo stato nulla conosce, non cessa di essere colui che conosce; la conoscenza di colui che conosce non può essere perduta, poiché egli è imperituro. Ma non vi è alcun oggetto separato da lui che possa essere conosciuto.
  29. Dove ci sia un oggetto separato, qualcosa può essere veduto, odorato, assaggiato, detto, udito, pensato, toccato, o qualcosa può essere conosciuto.
  30. Ma egli, come l’acqua è trasparente, uno, il solo testimone, senza secondo. E’ questo lo stato di Brahman, o Re.” Quindi Yajnavalkya insegnò a Janaka: ” Questa è la meta suprema, la gloria suprema, la suprema beatitudine. Solo una piccola parte di questa beatitudine è conosciuta dagli altri esseri.
  31. Colui che è fisicamente perfetto e più fortunato tra gli uomini, colui che li governa, e colui che più dispone delle facoltà umane, rappresenta il più grande tra gli uomini. Questa felicità umana moltiplicata cento volte equivale a una sola gioia dei Mani che hanno raggiunto il mondo loro destinato, e cento gioie dei Mani equivalgono a una sola gioia dei ministri celesti (Gandharva). Cento volte la gioia dei Gandharva è la singola gioia di coloro che hanno guadagnato il cielo degli Dei in seguito ai loro meriti. E cento volte la gioia di coloro che sono divenuti dei per i loro meriti è la gioia degli Dei nati e di coloro che conoscono i Veda, che sono senza peccato e senza desideri. Cento volte la gioia degli Dei nati è la gioia del mondo di Prajapati (Viraj) e di coloro che conoscono i Veda, che sono senza peccato e senza desideri. cento volte la gioia del mondo di Prajapati è la gioia del mondo di Hiranyagarbha e di coloro che conoscono i Veda, che sono senza peccato e senza desideri. Questo è il mondo di Brahman, o re.” concluse Yajnavalkya. Ma il re lo incalzava: “” Proprio così, Yajnavalkya. Ti darò mille vacche, ma ti prego istruiscimi ancora sulla liberazione”. Allora Yajnavalkya ebbe timore che il suo intelligente re lo stesse facendo uscire dai limiti delle sue prudenti conclusioni.
  32. Allora Riprese: ” Dopo avere goduto del sogno e conosciuti il bene e il male, egli rientra per il percorso inverso alla condizione precedente, lo stato di veglia.
  33. Come un carro dal carico molto pesante cammina cigolando, così l’individuo incarnato sotto il peso del Supremo Sé, soffre quando il respiro diventa difficoltoso.
  34. Quando questo corpo si fa emaciato, per via degli anni e delle malattie, come un mango, un fico o una bacca si stacca dal ramo, così questo Essere Infinito si separa dal corpo e di nuovo riprende il cammino, per la stessa strada da cui è venuto, per poter dispiegare ancora il suo respiro.
  35. Proprio come quando giunge un re, i vassalli, gli scudieri e i capi dei villaggi gli si fanno incontro con doni e offerte di cibo, bevande e alloggio dicendo “Eccolo, eccolo che arriva”, così avviene per colui che ha compreso quale sarà il risultato del proprio lavoro, che tutti gli organi lo accolgono: “Il Brahman arriva, il Brahman viene!”
  36. E come i vassalli, gli scudieri e i capi si fanno attorno al re quando è giunto il momento che riparta, così appunto gli organi vitali si raccolgono attorno l’uomo che sta per morire, quando il respiro diventa faticoso.

Quarto Brahamana

  1. Quando l’ente diventa debole e pare privo di conoscenza, tutti i sensi si raccolgono in lui. Riassorbite completamente queste particelle di luce, egli perviene al proprio cuore. E quando l’essere che risiede nell’occhio si ritrae da ogni direzione, si spengono tutti i colori.
  2. Allora si dice che egli non vede, non fiuta, non gusta, non parla, non ode, non pensa, non tocca, non conosce perché le sue facoltà si sono unificate. La sommità del cuore risplende e da questo punto luminoso di diparte il sé, attraverso l’occhio o attraverso la sommità del capo o da qualunque altro punto del corpo. E con lui dipartono le forze vitali, e con esse tutti gli organi di senso. Quindi, secondo la consapevolezza che è in lui, egli va verso il corpo che ad essa è collegato. In questo lo seguono le sue passate conoscenze, le sue opere e la sua maturata esperienza.
  3. Come un bruco passando oltre l’estremità di un ramo, sale sopra un altro e qui si raccoglie, così il sé individuale getta via un corpo, lasciandolo privo di sensi, per prendere un altro supporto e lì trovare sé stesso.
  4. Come l’orefice con la materia di un vecchio ornamento d’oro plasma in una nuova forma più bella, così il sé individuale si libera di un corpo, lasciandolo privo di sensi, e prende una nuova forma, nuova e più bella, simile a quella dei Mani, dei Gandahrva, degli Dei, di Viraj, di Hiranyagarbha o di altri esseri.
  5. In verità questo sé individuale è Brahman, che si identifica con l’intelletto, la mente e le forze vitali, con gli occhi o con gli orecchi, con la terra, l’acqua, l’aria, l’etere, e con quello che è oltre il fuoco, con il desiderio e con l’assenza di desiderio, con l’ira e con la calma, con la rettitudine o con la malvagità, con tutto; è identificato, infatti, in tutto questo che è percepito e con tutto quello che è inferito. Così come agisce, tale diviene; facendo il bene diventa bene, compiendo il male diviene il male; diviene virtuoso attraverso le buone azioni così come diviene malvagio attraverso azioni malvagie. Perciò si dice anche: “Il sé individuale è fatto di desiderio. Quanto che desidera, decide; ciò che decide attua; e quanto mette in atto, ottiene”.
  6. A questo proposito dice una strofa: “Provando attaccamento, e lavorando in tale direzione, ottiene i risultati verso cui tendeva la mente attraverso l’attaccamento. Esauriti i risultati per cui ha lavorato in vita, egli ritorna dall’altro mondo per iniziare un nuovo lavoro”. Questo è detto degli uomini soggetti al desiderio e alla trasmigrazione. Ma gli uomini che non hanno desideri non subiscono la trasmigrazione. Colui che è privo di desideri, che è privo di attaccamenti, i cui oggetti sono stati ottenuti e risolti, e per il quale tutti gli oggetti sono risolti nel Sé, non è abbandonato dalle forze vitali. Essendo egli stesso niente altro che Brahman, si risolve completamente nel Brahman.
  7. A questo proposito dice una strofa: “Quando tutti i desideri che albergano nel cuore sono dileguati, allora il mortale diviene immortale e realizza il Brahman in questa vita”. Come la pelle staccata da un serpente dopo la muta cade e viene abbandonata a terra, così giace questo corpo. E quando l’ente diventa incorporeo e immortale, diventa il respiro del Sé Suremo, Brahman, la luce. “Ti darò altre mille vacche, signore” disse allora Janaka, re dei Videha.
  8. A questo proposito dice una strofa: “Ho percorso l’antica, lunga e sottile strada che conduce a me stesso. Ora l’ho realizzato. Per essa i saggi conoscitori del Brahman raggiungono la liberazione, dopo essere discesi nel corpo mortale, e divengono liberi in questa vita. 9. Alcuni dicono sia bianco, altri blu, grigio, verde o rosso. Questo cammino può essere realizzato dal conoscitore del Brahman e da coloro che compiendo giuste azioni si sono identificati con la Suprema Luce.
  9. Entrano invece in una fitta tenebra coloro che venerano il rito compiuto nell’ignoranza. Una tenebra ancora più fitta di quella destinata a quelli che venerano la conoscenza cerimoniale.
  10. Miserabili sono i mondi generati da tale cieca ignoranza. Ad essi, dopo la morte, vanno coloro che non hanno ricercato la vera conoscenza e la saggezza.
  11. Se un uomo conosce il Sé come “Io sono quello”, per quale desiderio o per quale volere dovrebbe soffrire il proprio corpo terreno? 13. Colui che ha realizzato e conosciuto profondamente il vero Sé ha superato i confini pericolosi e inaccessibili del corpo, ed è il creatore dell’universo intero, poiché tutto è il suo stesso Sé, ed egli è quello stesso Sé di tutto.
  12. Dobbiamo conoscere il Brahman mentre siamo in questo corpo, altrimenti saremo vissuti nell’ignoranza e andremo incontro alla nostra rovina. Coloro che Lo conoscono divengono immortali, mentre gli altri ottengono soltanto dolore.
  13. Se un uomo realizza direttamente il Sé, Dio Signore del passato e del futuro, non ha più desiderio di nascondersi da Lui.
  14. Colui al di sotto del quale ruotano gli anni e i giorni, è quell’immortale Luce di tutte le luci che perfino gli Dei meditano come vita immortale. 17. Quello su cui sono posti i cinque elementi e l’etere sottile, quello è il vero Atman che io riconosco come il Brahman immortale. E conoscendo Quello io sono immortale.
  15. Colui che ha conosciuto la Forza Vitale della forza vitale, l’Occhio dell’occhio, l’Orecchio dell’orecchio, la Mente della mente, ha realizzato l’antico, primordiale Brahman.
  16. Che ciò sia ben realizzato dalla mente. Non vi è differenza alcuna, né parte in Quello. Va di morte in morte colui che vede delle differenze in Quello.
  17. Deve essere realizzato quale unità di ogni forma, quello che è inconoscibile ed eterno. Il Sé è senza forma, al di là dell’etere sottile, senza nascita, infinito e costante.
  18. Il saggio aspirante alla conoscenza del Brahman, conoscendo solo questo, dovrebbe ottenerne la consapevolezza intuitiva. Questi non si attardi al pensiero di molte parole, non si affatichi per la facoltà di esprimersi.
  19. Il grande Sé increato, che si identifica con la mente e con il centro delle facoltà, riposa nello spazio all’interno del cuore. E’ l’Ordinatore Interno di tutto ciò che esiste, il Signore e il Regolatore di tutto. Non cresce mediante le buone azioni e non è sminuito dalle cattive. E’ il Signore di tutti gli esseri, l’Ordinatore di tutti gli esseri, il Protettore di tutti gli esseri. E’ la diga che trattiene i mondi dal precipitare nel caos. I Brahmani cercano di conoscerlo attraverso lo studio dei Veda, i sacrifici, la carità e la rinuncia al godimento degli oggetti dei sensi. Colui che Lo conosce diviene saggio, i monaci, desiderando di conoscerlo in questa vita, abbandonano le loro case. Gli antichi saggi, infatti, non desideravano avere figli poiché pensavano:”Cosa ancora potremmo ottenere dai figli, se abbiamo realizzato il Sé già in questa vita”. Così, è detto, essi rinunciarono al desiderio di prole, di ricchezze mondane e condussero vita da mendicanti. Poiché è il desiderio di figli che è anche desiderio di ricchezza, e questo è il desiderio di mondi, ma tutti questi non sono altro che bramosia. Questo Sé è Quello di cui è detto “Non questo, Non questo”. Esso è impercettibile, poiché non può essere percepito; indistruttibile, poiché non può essere distrutto; inattaccabile, perché nulla lo può attaccare; libero, saldo, illeso. Come il saggio non può essere sopraffatto dai due pensieri: “ho fatto la cosa giusta; ho fatto la cosa sbagliata” poiché li sovrasta entrambi. Le cose compiute e quelle che ha omesso di fare non lo angustiano.
  20. Ciò è espresso nell’inno che dice: “L’eterna gloria del conoscitore del Brahmam non cresce e non è sminuita dalle opere. Perciò si ricerchi di comprendere la natura di questo soltanto, poiché conoscendola non si è più macchiati da alcun peccato” Dunque colui che così conosca acquisti saldo controllo di sé, e calmo, raccolto in sé stesso, saldo e concentrato, comprenda il Sé nel suo stesso sé; così facendo egli perviene a vedere il Sé in tutto. Il Male non trionfa su di lui, ma lui trascende ogni male. Il male non lo mette in difficoltà, poiché lui consuma ogni male. Egli diviene senza peccato, senza forma, libero da ogni dubbio e un vero conoscitore del Brahman. questo è il mondo del Brahman, o re, e tu l’hai conquistato”, concluse Yajnavalkya. E il re “Ti darò l’impero dei Videha, signore, e me stesso per poterti servire”.
  21. Quel grande Sé increato è Colui che mangia il cibo ed è Colui che dispensa le ricchezze. Colui che questo conosce riceve ricchezza.
  22. Quel grande Sé increato non invecchia, non muore, non conosce paura ed è il Brahman infinito. In Brahman infatti non vi è timore di nulla, e chi conosce questo non prova timore di nulla.

Brhadaranyaka upanishad

Filosofia (art. La filosofia della morte – prima parte)

La filosofia della morte – prima parte

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Sembra che ci sia un sentiero (quello filosofico) che ci porti, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: che, cioè, fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, in modo che, come suol dirsi, veramente per colpa sua, non ci è neppure possibile fermare il nostro pensiero su alcuna cosa. Infatti guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre nascono per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, essendo asserviti ai bisogni del corpo. E così noi siamo distolti dalla filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che, se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime. E allora soltanto, come sembra, ci sarà dato di raggiungere ciò che vivamente desideriamo e di cui ci diciamo amanti, vale a dire la conoscenza suprema: cioè quando noi saremo morti, come dimostra il ragionamento, mentre, fin che si è vivi, non è possibile…E nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo e comunione con esso, se non nella misura in cui vi sia imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla natura del corpo… Se queste cose sono vere grande speranza ha colui che giunge là dove io sto per andare, di venire in possesso, là appunto e pienamente, se mai in qualche luogo è possibile, di ciò per cui ci siamo dati tanto da fare nella vita passata; così che questo viaggio nell’al di là, che mi viene ora comandato, si compie con buona speranza, e per me e per chiunque altro ritenga di aver preparato la sua mente a questo in modo da averla purificata…” (Socrate)

Con la dignità di queste parole Socrate s’apprestò al proprio nuovo viaggio ed alla morte terrena bevendo cicuta. Quelli riportati sopra rappresentano i valori dello spirito di Socrate; enunciati e rivolti appartatamente, nel carcere, ai suoi discepoli poche ore prima della sua morte. Esso concerne il significato occulto della filosofia e della morte, evento a cui lui stesso si era preparato in vita con la costante ricerca del Bello, del Bene e del Vero.

Originariamente, la filosofia, non pretendeva,di risolvere razionalmente gli enigmi dell’Essere, ma solo di preparare l’individuo a trascendere la mente, ad operare una catarsi che gli rendesse possibile l’illuminazione mistica, cioè il penetrare oltre il sensibile, contemplare il Vero oltre tutti gli schemi razionali, entrare ‘ intuitivamente’ nel Mistero ineffabile. Il logos di cui parla gran parte della filosofia degli inizi,non è solo l’attività di rigoroso pensiero applicata ai dati della sensibilità e quindi matrice del pensiero scientifico, ma è anche e soprattutto ‘consapevolezza’, ‘autoconsapevolezza’, intuizione ‘intellettuale’ (cioè ontologica, metafisica, non solo affettiva, emotiva, estetica).Si riteneva che la pratica ‘filosofica’ della concentrazione, dell’astrazione, della meditazione, dell’azione razionalmente ponderata , allenano l’anima a distaccarsi dal mondo materiale e quindi sono pratiche catartiche, con intrinseche finalità metafisiche. Anche la filosofia voleva arrivare, come i misteri, alla illuminazione, al risveglio mistico, alla epopteia. Anzi, sembrerebbe che la filosofia si sia posta come l’essenza della prassi iniziatica, capace per questo di fare a meno dei gesti e delle pratiche religiose formali. E tale essenza è vista, individuata nella pratica introspettiva: l’uomo che cerca di conoscere se stesso, la sua ‘anima’, il suo ‘io invisibile’ è filosofo e mistico nel contempo, perché proprio nella interiorità separata dal sensibile l’individuo può trovare la sua divina essenza e attuare la sua ‘somiglianza con Dio’ (è il famoso tema della homoíosis theô): In effetti il Socrate platonico nel dialogo intitolato Alcibiade primo dice molto esplicitamente: Colui che ammonisce di conoscere se stessi (cioè Apollo, il dio simbolo della conoscenza spirituale) ci ordina di conoscere la nostra anima…Possiamo noi indicare nell’anima una parte più divina di quella ove risiedono la conoscenza ed il pensiero? Questa parte dell’anima è simile al divino e, se la si fissa, s’impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero, si ha la possibilità di conoscere se stessi nel modo migliore”. Ciò spiega come Socrate pronunzi, durante la sua reclusione, sul tema della morte, due discorsi apparentemente divergenti. Difatti, il filosofo ateniese, espresse considerazioni sulla morte, sia “essoteriche” (cioè pubbliche e meramente razionali) che “esoteriche” (cioè interne, personali ed intime). Nelle sue pubbliche considerazioni a conclusione del processo, raccontate dal suo discepolo Platone nell’opera intitolata Apologia, egli affermò:

Il morire è una di queste due cose: o uno stato per cui il morto non è più nulla e non ha più sensazione di nulla, oppure è, come dicono certi, una sorta di cambiamento o di migrazione dell’anima da questo luogo terreno ad un altro. Dunque, se il morire vuol dire davvero assenza di percezione ed è paragonabile ad un sonno all’interno del quale non si vede più nulla neanche in sogno, è allora un guadagno meraviglioso. Penso che se qualcuno dovesse, dopo aver scelto nella sua mente tale notte in cui si è addormentato tanto profondamente da non sognare neanche e poi, dopo aver confrontato a questa notte i giorni e le altre notti della sua vita, dovesse, con ponderazione, dire quanti giorni e notti egli per tutta la vita ha trascorso più felicemente di quella, allora penso che questi, sia un uomo qualsiasi o addirittura il Gran Re di Persia, ben poche anche lui ne troverebbe di questi giorni e queste notti. Se allora questa è la morte, io posso serenamente affermare che è un guadagno, anche perché l’eternità della morte non appare per nulla più lunga di un’unica notte. Del resto, se morire vuol dire andare da un luogo ad un altro, ed è vero quello che si dice, cioè che là si ritrovano effettivamente tutti i defunti, qual bene maggiore di questo potrà esserci o giudici?… Ad un uomo perbene non può capitare alcun male né da vivo né da morto… Ma è ormai tempo di andare via, io a morire e voi a vivere: chi di noi vada verso la miglior sorte è oscuro a tutti, tranne che al dio.”

Questo fu l’ultimo messaggio che Socrate affida ai suoi discepoli: l’uomo virtuoso e saggio, avendo già conosciuto il Dio in vita non teme neanche la morte; la sua è, come quella degli eroi una mors triumphalis.

L’eredità del pensiero di Socrate colpì molto Platone che, teorizzò e sottolineò, successivamente, nel Repubblica (VI, 511c-511e), quattro gradi della conoscenza umana che sono anche quattro gradi dell’evoluzione spirituale. Essi sono divisi in due gruppi:

Il primo, indicato col termine doxa (opinione), si articola in due gradi ascensivi:

  • la eikasίa (immaginazione), livello in cui non si sa distinguere la propria produzione immaginativa dalla realtà sensibile del mondo;

  • la pistis (credenza), livello in cui si “crede” che il mondo sensibile sia l’unico possibile e articolato così come i sensi ce lo presentano.

Il secondo gruppo, indicato con il termine epistéme, indica invece i livelli superiori della conoscenza, quelli di un sapere già ‘illuminato’, in quanto svincolato dal mero dato sensibile, esso è definibile come ‘razionale’ o ‘scientifico’. L’epistéme si articola in diánoia e nόesis:

  • la diánoia (da diá, ‘attraverso’ e nous, ‘pensiero’) è quel grado della conoscenza che si ottiene ‘attraverso’ i procedimenti della logica discorsiva ( e che produce la scienza come conoscenza razionale del mondo);

  • la nόesis è invece quel grado metafisico in cui lo spirito “intuisce” direttamente le idee, cioè le strutture sottili, invisibili della realtà, in particolar modo le idee-valori del Vero, del Bene e del Bello.

L’ambiguità nell’uso del termine lόgos, nell’antica Grecia, può dunque essere ‘superata’ ed in qualche modo ‘spiegata’ -quantomeno nel contesto platonico – se si considera come si possa ritenere, col filosofo ateniese, che la facoltà del pensiero attraverso cui costruiamo la scienza del sensibile è la medesima che per suo intimo sviluppo può ‘maturare’ in una capacità ‘intuitiva’, ‘contemplativa’, cioè ‘teoretica’ in senso proprio in quanto capace di ‘vedere il divino’ (theόs – oráo). E’ evidente infatti che i ‘gradi’ del conoscere implicano la possibilità di un graduale evolversi della facoltà conoscitiva umana generalmente intesa. Dunque, se il lόgos ad un livello ‘inferiore’ s’identifica con la procedura razionale attraverso cui comprendiamo il mondo sensibile, il lόgos a livello ‘superiore’ sarebbe la ‘pura coscienza’ che è qualificabile come ‘superiore’ in quanto può essere anche coscienza del pensiero e delle sue procedure e pertanto ‘trascendente’ rispetto ad esso. E’ solo tale ‘pura coscienza’ dotata di una capacità conoscitiva non mediata dai sensi che ha la capacità di conoscere le idee, gli archetipi del mondo sovrasensibile è cioè quel lόgos che si manifesta come “intuizione intellettuale pura”. E’ bene ricordare che il termine italiano ‘intuizione’ deriva appunto dal latino in-tueri che significa appunto ‘osservare dentro’ e dunque indica opportunamente la facoltà umana di una realtà senza la mediazione di una procedura logica. La convinzione di fondo della tradizione filosofica greca di orientamento metafisico (ed è la medesima che si riscontra nella tradizione speculativa indiana) è che nell’uomo la ‘potenza dello spirito’, nel momento in cui sia svincolata dai suoi processi ‘ordinari’ relativi al mondo sensibile, acquisisce tutta la sua capacità ‘originaria’ d’intuire il sovrasensibile. Di conseguenza ne proviene che, per arrivare a tale meta, la prassi, la ‘tecnica’, non può consistere in altro che nell’allenarsi a svincolare la consapevolezza dal mondo ‘esteriore’ ed abituarla a ‘sussistere’, a rimanere ‘unificata’, ‘concentrata’ senza dipendere più da ‘dati’ percepiti o pensati. Di fatto è la stessa tecnica dello yoga orientale che per essere attuata più efficacemente va accompagnata dalla più rigorosa immobilità fisica, così come era solito fare Socrate, il quale, stando alle fonti, era capace di rimanere vigile ma insensibile al mondo esterno ed immobile per una intera giornata. Non altro vuol dire quindi l’ammonimento socratico-platonico aseparare l’anima dalle cosesensibili e dal corpo perisolarla e farla cosìvolgere verso il mondo intellegibile’. Nel Fedone (67 c-d) si dice che con tale prassi si opera unacatarsiche èla stessa dell’antica dottrina (chiaro riferimento alla sapienza sacra ed in particolare, forse, a quella misterica e orfico-pitagorica) e consiste appunto nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla (e ciò presuppone una costante prassi meditativa) a raccogliersi e a restare sola in se stessa (la ‘con-centrazione’) e a rimanere per il tempo presente (nella vita ‘terrena) e futuro (dopo la morte) sola in se medesima, sciolta dal corpo come da catene. Tale condizione infatti è importante mantenerla anche dopo il decesso poiché l’anima di chi rimane ‘attaccato’ al corpo, dice Platone, non riesce ad allontanarsi dal piano di esistenza da cui è appena ‘uscita’ e precipita in una condizione di angoscia e di turbamento. In un altro passo dello stesso dialogo (79 d) è altrettanto chiara la natura di quel processo attraverso cui l’anima s’innalza al sovrasensibile:Quando l’anima, restando in sé sola, volge la sua ricerca (cioè alimenta la sua ‘aspirazione’ conoscitiva senza più legarla al sensibile) allora si eleva (per un suo autonomo, spontaneo ed ‘ontologico’ processo di liberazione) a ciò che è puro, eterno ed immortale” (cioè al ‘divino’) e avendo natura affine a quello (c’è dunque una identità sostanziale tra lo spirito umano e quello di Dio), rimane sempre con quello ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola…e questo stato dell’anima si chiama ‘sapienza’ (frόnesis, sinonimo di sofίa)”. La sofίa è dunque l’intuizione mistica del divino ed a tale esperienza è naturalmente funzionale la filo-sofίa. Per acquisire la sofίa bisogna che la coscienza raggiunga (attraverso una catarsi dialettica) una condizione ‘estatica’ che cioè sappia ‘separarsi’ dal sensibile ed il primo ‘grado’ di tale separazione è proprio la vita morale la quale comporta un effettivo distacco dalle pulsioni e dagli istinti del corpo/materia. In tal modo essa può provare quella ‘divina ebbrezza’ che la tradizione misterica indicava come ‘manìa’, ‘entusiasmo’ e conseguire quella conoscenza illuminativa che la stessa tradizione indicava come ‘epopteia’. Ed anche Plotino, seguace di Platone e senz’altro il più grande metafisico d’ Occidente, capace di raggiungere l’estasi attraverso una concentrazione meditativa diverse volte nella vita, pochi istanti prima della morte espresse un’analoga convinzione. Egli infatti descrisse al suo discepolo Eustochio quale operazione interiore stesse facendo in quell’esatto momento:

Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è nell’universo” (Porfirio, Vita di Plotino, 2)

Per quanto detto, quindi, la filosofia è, per i greci, una preparazione alla morte attuata in vita attraverso una trasformazione interiore. Per capire ancor meglio tale prospettiva si deve tener presente il fatto che nella tradizione filosofica greca l’uomo si compone di tre elementi: il corpo (soma), l’anima (psychè) e lo spirito (nous). L’io ordinario dell’individuo nella vita in questo piano di esistenza è fissato nel corporeo e dipende totalmente da esso sia perché percepisce della realtà solo ciò che è corporeo sia perché, nella prassi esso si orienta sulla base del principio materiale del piacere che vede come ‘bene’ e del dis-piacere che vede come ‘male’. Altra è la vita del filosofo e dell’iniziato poiché in essi il principio dell’io tende a fissarsi, ad identificarsi con gli elementi più sottili ed invisibili della sua anima: da qui l’aspirazione al Bello (e dunque l’Arte), l’aspirazione al Bene (e dunque l’Etica) e infine quella più elevata perché onnicomprensiva, al Vero (e dunque la Filosofia). Il Bello, il Bene ed il Vero sono tre aspetti dell’Uno, cioè del Principio primo (Dio, l’Assoluto, l’Essere o comunque lo si voglia chiamare). Dunque ogni individuo per Platone è strutturalmente orientato verso la dimensione spirituale, l’uomo, diceva Schopenhauer è un animale ‘metafisico’. Però dei tre elementi (corpo, anima e spirito) solo il primo è percepibile dai sensi ‘esterni’, gli altri due possono essere percepiti solo dal ‘senso interno’ attraverso la pratica della introspezione attraverso la quale l’io si volge verso l’interno. Se l’anima nella sua essenza è ‘divina’ cioè di natura metafisica (e questa è quell’anima che la filosofia greca definisce correntemente nous e che considera per sua natura ‘separata’, naturalmente ‘dal corpo’) esiste però un’altra dimensione ‘inferiore’ dell’anima, un tipo di anima (sarebbe più propriamente la psychè) più ‘somatica’, più connessa, cioè, al corpo, alle sue pulsioni, ai suoi bisogni. L’essenza di tale anima inferiore non è la consapevolezza, l’autocoscienza che appartengono al nous ma la vitalità, la quale è presente anche negli altri esseri viventi. Questa va intesa come dýnamis, enérgheia cioè come una energia sottile che collega la coscienza al corpo denso, quella che gli indiani chiamano prana, i cinesi chi, i giapponesi ki. Questa energia permea tutto l’organismo ed il suo scompenso determina le malattie ‘endogene’ che non hanno cioè una causa fisica esterna. Per questo non si può veramente curare il corpo se non si cura anche l’anima nella sua duplice dimensione vitale e coscienziale: ogni pensiero, ogni emozione modificano il corpo ed altrettanto ogni modifica di questo comporta una qualche cambiamento nell’ anima, cioè, appunto, sia della sua vitalità che della sua coscienza. E poiché l’uomo ‘incarnato’ si compone di quelle tre dimensioni (la somatica, la vitale, la coscienziale) e queste sono organiche ed unitarie, correlate cioè tra di loro, non si può guarire realmente un singolo organo se non si guarisce l’individuo (termine che vuol dire appunto indivisibile) nel suo intero. Se il medico vuole dunque curare il corpo, deve saper curare anche l’anima nella sua duplice dimensione di pensiero ed emozione: chi è capace di questo è il vero sofós. Poiché però nella Grecia del periodo classico filosofia e medicina vennero sempre più distinte disciplinarmente (il che, da un punto di vista tradizionale è già sostanzialmente, per quanto detto, una involuzione) è chiaro che si riconobbe alla filosofia il compito ‘specifico’ di curare l’anima così come alla medicina il corpo. I principi della iatréia (se vogliamo usare i termini greci) ‘olistica’ (ólos in quella lingua significa appunto ‘intero’) sono chiaramente espressi da Platone nel dialogo intitolato Carmide.

E’da notare che tale convinzione che noi giudichiamo così moderna (in base alla quale l’organismo deve essere studiato in quanto totalità organizzata e non semplice somma di parti) viene riferita dal filosofo ateniese ad uno sciamano della Tracia, Zalmosside, un uomo ‘divino’ vissuto appunto in un’epoca ‘prefilosofica’ e dunque, a rigore, ‘prescientifica’:

A Socrate che si poneva il problema di come curare un forte mal di testa un medico trace infatti disse:

Il nostro Zalmosside, che è un dio, vuole che come non si deve tener conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tener conto dell’anima, anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fan franca ai medici greci, perché essi trascurano il tutto ( oti tou olou ameloeien) di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte. In realtà” soggiungeva “ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo e in tutto l’uomo se non dall’anima, dalla quale tutto proviene, come dalla testa proviene tutto ciò che corre agli occhi; così che si deve cominciare a curare soprattutto quella, se si vuole che la testa e le altre parti del corpo stiano bene. L’anima, o beato” continuava “si cura con certi carmi magici che sono poi i belli discorsi, dai quali cresce nelle anime la saggezza. Quando questa sia cresciuta e sia là presente, allora è facile dare salute al capo e al resto del corpo”. E mentre il Tracio m’insegnava i rimedi e le parole magiche, soggiungeva: “che nessuno ti convinca a curare la propria testa con questa medicina, se prima non avrà affidato la sua anima alla cura dell’incantamento. Perciò anche ora” continuava “si fa questo sbaglio fra gli uomini che taluni cercano d’essere medici dell’uno o dell’altra cosa separatamente, o della saggezza o della salute”. (Carmide, 156e-157c)

E’ evidente dunque che , nel suo procedere storico, la filosofia ha smarrito del tutto tale prospettiva metafisica, magica, mistica, iniziatica, vitalistica, ma così facendo ha smarrito, per così dire, la sua ‘vocazione’, la sua funzione, com’è del tutto palese nel contesto contemporaneo, ma anche la medicina, analogamente, ha smarrito le sue basi sapienziali. Già negli straordinari racconti mitologici vi sono chiari riferimenti verso tematiche sulla morte. Ad esempio si fa riferimento alla convinzione che l’anima dell’uomo possa distaccarsi dal corpo già nella vita terrena è al fondamento della religiosità arcaica pre-filosofica dell’Ellade, cioè a quel periodo che gli studiosi indicano come caratterizzato dallo ‘sciamanesimo’. Con tale termine, originario della lingua tungusa siberiana, si fa riferimento ad un’epoca remota in cui vissero in Grecia alcuni ‘sciamani’, cioè veggenti, sacerdoti, maghi, guaritori che svolgevano il compito di fare da intermediari tra il mondo materiale e quello spirituale. Si tratta di straordinari personaggi, a metà strada tra la storia ed il mito, che si dimostrarono dotati di poteri sovrumani, divini, come quello della telepatia, dell’ubiquità, della preveggenza, della guarigione psichica, dell’estasi, della resurrezione ed apparizione post-mortem ed altri ancora. E’ molto significativo il fatto che le cronache che a distanza di tempo ne raccontarono le straordinarie imprese li abbiano appellati come sofoi, cioè sapienti, saggi, oltre che ‘filosofi’ e ‘teologi’: si tratta di ‘uomini divini’ (così, per lo più, venivano appellati) come Aristea, Epimenide, Abaris, Ermotimo ed altri. E’ fondamentale ricordare che alcuni dei principali filosofi del periodo pre-socratico ebbero la stessa fama di maghi ed iniziati: ad esempio Empedocle e persino Pitagora, colui che, secondo alcuni, inventò lo stesso termine ‘filosofia’. La convinzione mistica, cioè misterica, circa l’esistenza di un’anima capace di separarsi coscientemente dal corpo ancor prima della morte è dunque alla base della forma religiosa greca che più di tutte ha influenzato la nascita della filosofia. I Misteri (mysteria) erano basati su una cerimonia, l’iniziazione (myesisin latino initiatio, initiationis), attraverso la quale si riteneva che gli ierofanti (il termine ierophàntes vuol dire ‘colui che mostra il sacro’) riuscissero a portare l’anima degli iniziati (dopo una adeguata purificazione, kátharsis) ai piani spirituali più elevati. In tal modo davano agli iniziati la certezza inoppugnabile dell’esistenza di un altro mondo, dissolvendo così nell’adepto il terrore ancestrale della morte. L’iniziato (il mýstes, da cui deriva appunto il termine mystikós’) conoscendo la propria occulta natura ‘divina’ conseguiva l’illuminazione (epopteia), raggiungeva l’ékstasis, si liberava dal ciclo della metempsýcosis, scopriva di essere parte della imperitura Coscienza Universale.

L’anima al momento della morte, prova la medesima impressione provata da coloro che sono iniziati ai Grandi Misteri. La parola e la cosa si somigliano: si dice ‘teleutàn’ (morire) e teléisthai (essere iniziato). Prima vi sono delle cose a caso, penosi ritorni, inquietanti cammini interminati attraverso le tenebre. Poi, prima del termine, il fragore è al colmo, il brivido, il tremito, il sudore freddo, lo spavento. Ma poi una meravigliosa luce si offre agli occhi, si passa in puri luoghi e in praterie, dove risuonano voci e danze. Parole sacre e divine apparizioni ispirano un religioso rispetto. Allora l’uomo, perfetto ed iniziato, divenuto libero e passeggiando senza costrizione, celebra i Misteri con una corona sul capo, vive con gli uomini puri e santi, vede sulla terra la folla di quelli che non sono iniziati e purificati schiacciarsi e pressarsi nella palude e nelle tenebre e, per timore della morte, attardarsi nei mali, per l’errore di credere nella felicità di laggiù”. (Plutarco)

Nel mito si nasconde un’altra e terribile verità (si pensi a Chrónos – cioè il Tempo – che divora i suoi figli): ogni ente per sopravvivere è costretto a nutrirsi del corpo di altri enti in una incessante e tragica lotta per la sopravvivenza; ogni essere vivente si nutre persino di quelli che lo hanno preceduto giacché essi, morendo sono ritornati ad essere Natura, cioè terra, acqua, aria e fuoco che in quanto cibo diventano il suo stesso corpo. Il corpo con la morte si scompone nei quattro Elementi: la densa materia ritorna polvere, i fluidi del corpo ritornano acqua, l’aria dei polmoni si espande di nuovo nell’etere e il calore vitale ritorna al fuoco cosmico. Una sola Forza, quindi, genera e distrugge, dà la vita e la toglie. Tale Forza (variamente personificata nella mitologia religiosa) è, propriamente la Potenza (dynamis, enérgheia) della Natura e quest’ultima era chiamata dai greci Physis, con un sostantivo correlato al verbo phyo che vuol dire proprio ‘generare’. Analogamente i latini indicarono tale ‘Forza generante’ come Natura, dal verbo nasci che vuol dire ‘nascere’. Il mito ‘insegna’, insomma, che la Natura è regolata da leggi inesorabili e da una successione ciclica degli eventi, essa è il Regno della Morte ma insegna anche che l’Uomo, pur soggetto alle leggi della Natura in quanto dotato di un corpo, ha nella propria coscienza un principio sovrannaturale che sopravvive alla sua dissoluzione e che appartiene quindi al Regno dell’Immortalità.

Insomma, se, il Mito ha tentato di affrontare il tema della natura vera dell’Uomo, della Vita e della Morte nascondendo i grandi interrogatovi esistenziali dietro fantastici racconti, si può dire che anche la filosofia è sorta nello stesso modo, cioè dal confronto con la Morte. La filosofia, dunque, abbandonando la forma del mito si pone sin dall’inizio gli stessi interrogativi e spesso ha dato nella sostanza le stesse risposte.

Eraclito, ad esempio, parlando degli esseri viventi e del loro destino sottolineò il nesso inscindibile tra la Vita e la Morte: “L’uno vive la morte dell’altro come l’altro muore la vita del primo”. Per lui tutta le realtà che è in un continuo divenire (panta rei, cioè ‘tutto scorre’) nasce da un conflitto universale (usa il termine polemos che significa ‘guerra’) tra gli opposti; egli infatti afferma: “La stessa cosa sono il vivente ed il morto, lo sveglio ed il dormiente, il giovane ed il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi”. In realtà per Eraclito tutti gli opposti sono più propriamente, cioè razionalmente, solo ‘complementari’, parti, aspetti di un’unica inscindibile Suprema Realtà. Infatti dice: “Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù”. E questa – della unità dialettica degli opposti – è una verità universale, che tutti gli uomini dotati di ragione non possono che condividere: “Ascoltando non me ma il logos, è saggio convenire che tutto è Uno”.

Anche per Parmenide Morte e Vita non sono scindibili, sono solo due aspetti del mondo delle forme sensibili, mondo irreale perché impermalente e transeunte. Se le forme, gli enti individuali nascono e muoiono non nasce né muore l’Essere, cioè la Vita. La morte dunque non esiste se non dal punto di vista del relativo, del singolo, ma il filosofo cogliendo con la ragione la Totalità capisce che l’Universo, il Divino, è indistruttibile.

Ma la filosofia greca conobbe su questi temi anche una visione di tipo ‘materialistico’, come quella di Democrito per il quale il mondo è fatto solo di particelle indivisibili, ‘atomi’, che si aggregano e si disgregano dando luogo alla comparsa e alla scomparsa di tutti gli esseri. Nel solco di tale tesi si posero sia il grande poeta latino Lucrezio che il filosofo dell’età ellenistica Epicuro. Per quest’ultimo l’uomo, per essere felice, deve allontanarsi dalla superstizione religiosa poiché gli dei o non esistono o, se esistono, sono del tutto indifferenti alle vicende umane, sia dal timore della morte perché se questa disgrega quel composto che è il corpo, impedisce al morto di avere qualsiasi sensazione, di provare quindi qualsiasi male. Nella sua celebre Lettera a Meneceo egli così ammonì il suo discepolo: «Abìtuati a pensare che nulla è per noi la morte poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza è che per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita, non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è colui che dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa, ma perché addolora l’attenderla: ciò che infatti è presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali la morte non è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non ci siamo più…il saggio né rifiuta la vita né teme la morte perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere».

Nello stoicismo il tema della morte è affrontato alla luce del concetto di virtù, per cui la morte in sé non è un male ma diventa addirittura un bene se la si affronta con virile coraggio e piena consapevolezza. Così la pensava il filosofo romano Lucio Anneo Seneca che in una delle sue Lettere a Lucilio scrisse:

La morte non è in sé né un male né un bene. Catone se ne servì per uno scopo nobilissimo, Bruto ne fece una cosa vergognosa. Ogni cosa che non ha in sé la bellezza, diventa bella se è accompagnata dalla virtù…La morte ci spaventa perché, mentre sappiamo che cosa c’è nella vita, ignoriamo quello che ci attende nell’al di là e abbiamo orrore dell’ignoto…Bisogna disprezzare la morte più di quanto si è soliti fare, perché su di essa abbiamo credenze molto errate…Ma anche quando ti sarai convinto che codeste sono favole…subentra un’altra paura: si ha paura del nulla non meno degli inferi. Con questi timori, che una lunga tradizione ci ha posto dinnanzi, affrontare la morte con coraggio non sarà una fra le azioni più gloriose che possa concepire la mente umana?” (Lettere a Lucilio, X, 82)

In casi estremi il saggio stoico doveva dare dimostrazione della propria spirituale superiorità rispetto al timore della morte preferendo il suicidio alla privazione della libertà per opera di un qualche tiranno o se lo si fosse costretto a fare cose contrarie alla propria coscienza, come accadde proprio a Seneca venuto in contrasto con Nerone.

Con il prevalere del cristianesimo nel medioevo il tema della morte ritornerà centrale poiché quella religione vedrà proprio nella costante riflessione su di essa lo stimolo ad una vita tutta orientata verso il Regno dei Cieli. Con la meditatio mortis l’uomo è indotto ad allontanarsi dai ‘beni di questo mondo’, a fuggire da questa ‘valle di lacrime’ ed aprirsi così alla Grazia di Dio. Inoltre, nel credo cristiano, proprio il momento della morte è decisivo per il destino oltremondano perché la persona, che vive una sola vita, può spirare in una condizione di peccato mortale ed essere così dannato eternamente. L’angoscia del morire e del giudizio di Dio diventano centrali a tal punto che nella stessa arte medievale diventano ricorrenti (e a volte quasi ossessivi) temi come quelli del Trionfo della Morte e della Danza macabra. Il cristianesimo però attende anche l’Apocalisse, cioè la fine dei tempi, la Resurrezione dei morti ed il trionfo definitivo di Dio con il ritorno sulla Terra del Cristo giudice, evento questo che venne ritenuto imminente dalla prima generazione cristiana. Da ricordare è che uno dei principali motivi per cui i filosofi ‘pagani’, come Celso e Porfirio, si opposero alla nuova fede venuta dalla Palestina fu proprio la credenza cristiana della resurrezione ‘corporale’ dei morti da loro ritenuta assurda e rozzamente ‘materialistica’. Ad essa contrapposero la credenza tradizionale del trasferimento della coscienza in un corpo ‘sottile’ (quello che Plutarco chiama l’augoidès, cioè il corpo ‘di luce’) a conclusione del processo di morte.

Nel mondo antico, ancor prima dei grandi filosofi greci, vi fu un’intera civiltà che fece della morte e del suo culto elemento fondamentale d’evoluzione ed illuminazione; l’antico Egitto. Qui le credenze, l’arte d’imbalsamazione ed i rituali religiosi furono normale attività quotidiana. Soffermiamoci invece su un libro; il libro fondamentale di questa “dottrina egizia”: “Il Libro dei morti”. Il “Libro dei Morti” è una raccolta di formule magiche, preghiere e incantesimi. Veniva deposto nella tomba come viatico per l’aldilà. Questo nome al libro venne dato da Richard Lepsius, a Torino, nel 1842. Gli egizi, invece, lo chiamavano “Formule dell’uscire al giorno”, poter ritornare a vedere la luce del giorno fuori dalle tenebre del sepolcro era la massima aspirazione, per loro. Del resto il nome dato dagli arabi in Egitto a qualsiasi rotolo di papiro rinvenuto nelle tombe era “Kitab el-Mayytun”, che letteralmente significa proprio “Libro dei Morti”, quindi questo epiteto era piuttosto comune. Il “Libro dei Morti” fu redatto a Tebe all’inizio del Nuovo Regno (XVIII dinastia, 1540 a.C.) e divenne un simbolo di questo periodo della storia egiziana. Il rituale ebbe fortuna tra diversi strati sociali, trasferito su rotoli di papiro o di cuoio, ma anche sulle pareti delle tombe e sugli stessi sarcofaghi. Il “Libro” è composto di 192 capitoli. I vari documenti magici sono accompagnati anche da illustrazioni. Le formule non hanno una coesione logica, forse perché di provenienza diversa e raccolte senza tener conto di una consequenzialità. Gli egiziani, però, contrariamente, in questo, a noi, non badavano tanto alla consequenzialità, quanto al valore ed all’efficacia delle formule. Quest’efficacia era data dalla forza immediata della parola, del testo. Una semplice conoscenza della formula, la rendeva reale. Gli studiosi hanno diviso convenzionalmente “Libro dei Morti” in cinque parti. La prima grande sezione, chiamata “il cammino verso la necropoli”, presenta il cammino del corteo funebre verso la necropoli. Il capitolo più importante di questa sezione è il primo, nel quale si possono leggere le preghiere alle divinità dell’aldilà (gli egiziani lo chiamavano “duat”), affinché il defunto potesse avere una buona accoglienza. Certamente la parte più raffigurata e riprodotta (e per questo più conosciuta) è, nell’ambito della terza sezione (Uscita al giorno: la trasfigurazione) il momento in cui il defunto, accompagnato dalla sua guida Anubi, entrava nella “sala delle due Maat” del tribunale di Osiride, per affrontare, alla presenza di 42 giudici, la “psicostasia”, la pesatura del cuore. Il cuore, infatti, per gli antichi Egizi era il luogo in cui si concentravano tutte le facoltà intellettive e di coscienza (infatti, quando si svolgeva la mummificazione, il cervello veniva “scartato” perché ritenuto inutile). Ciascuno dei 42 giudici aveva il compito di punire una data colpa (o peccato). Anubi, che fino a quel momento aveva fatto da guida e “consigliere” al defunto, poneva su un piatto della bilancia il cuore del defunto, mentre sull’altro veniva posta un’immagine di Maat, dea della rettitudine, o la piuma di struzzo che ne era il simbolo. Il dio Thot, con la testa di Ibis (Anubi aveva la testa di cane), sorvegliava la pesatura e registrava, al pari di un cancelliere, il risultato del giudizio. Nel frattempo il defunto recitava una lunga confessione negativa, assicurando i presenti di non aver commesso, in vita, alcun peccato (di solito li enumerava tutti con la formula “non ho peccato di…”). Viene identificata “negativa”, in quanto svolta sulla negazione d’aver commesso ingiustizie o atti malvagi. È ormai largamente accettato il fatto che i dieci comandamenti di Mosè provengano dal libro dei morti egizio per via dell’influenza che la cultura egizia ebbe sugli ebrei durante la loro permanenza in Egitto.

DICHIARAZIONE NEGATIVA

Non ho detto il falso.

Non ho commesso razzie.

Non ho rubato.

Non ho ucciso uomini.

Non ho commesso slealtà.

Non ho sottratto le offerte al dio.

Non ho detto bugie.

Non ho sottratto cibo.

Non ho disonorato la mia reputazione.

Non ho commesso trasgressioni.

Non ho ucciso tori sacri.

Non ho commesso spergiuro.

Non ho rubato il pane.

Non ho origliato.

Non ho parlato male di altri.

Non ho litigato se non per cose giuste.

Non ho commesso atti omosessuali.

Non ho avuto comportamenti riprovevoli.

Non ho spaventato nessuno.

Non ho ceduto all’ira.

Non sono stato sordo alle parole di verità.

Non ho arrecato disturbo.

Non ho compiuto inganni.

Non ho avuto una condotta cattiva.

Non mi sono accoppiato (con un ragazzo).

Non sono stato negligente.

Non sono stato litigioso.

Non sono stato esageratamente attivo.

Non sono stato impaziente.

Non ho commesso affronti contro l’immagine di un dio.

Non ho mancato alla mia parola.

Non ho commesso cose malvagie.

Non ho avuto visioni di demoni.

Non ho congiurato contro il re.

Non ho proceduto a stento nell’acqua.

Non ho alzato la voce.

Non ho ingiuriato dio.

Non ho avuto dei privilegi a mio vantaggio.

Non sono ricco se non grazie a ciò che mi appartiene.

Non ho bestemmiato il nome del Dio della città.

Se dopo la confessione negativa il cuore era puro, non pesava, e la bilancia rimaneva in equilibrio. Il defunto veniva, a questo punto, proclamato da Osiride “retto” o “giusto di voce” e poteva accedere ai “Campi dei Giunchi”. Se, malauguratamente, il cuore era più pesante perché carico di peccati, la bilancia mostrava un peso maggiore dalla parte del cuore. Il defunto, allora, veniva divorato da un mostro ibrido, annullato per sempre egli cade nel “Luogo dell’annientamento”. Il capitolo più importante della quinta parte (Capitoli Supplementari) è quello che contiene la “formula per non morire di nuovo”, che implica la distruzione delle stesse divinità, tranne Osiride ed Atum, il creatore. In questo capitolo compare per la prima volta “il peccato” commesso dai figli di Nut (Osiride, Seth, Iside e Nephti che insieme ad Horus furono in lotta costantemente). Proprio per questo Osiride era stato relegato nel duat, che era una sorta di purgatorio. In questo capitolo è riportato un monologo di Atum, in cui si allude alla fine del mondo. La terra, dopo milioni e milioni di anni, a seguito di un diluvio universale, diverrà nuovamente come in origine, un oceano primordiale, un’enorme distesa d’acqua. Vi rimarrà solo il dio Atum, il creatore, che si muterà poi in un serpente, che gli uomini non possono conoscere e gli dei non possono vedere. Questo serpente, come un tempo, si muoverà nel magma liquido. Atum tornerà ad essere l’increato, il caos.

Tercespot Navi

Filosofia (art. La musica – terza parte – L’era moderna e contemporanea)

La musica – terza parte (L’era moderna e contemporanea) 

Immagine pop

«L’artista partecipa alla creazione di opere a immagine e somiglianza delle opere di Dio. Non si tratta di utilizzare le opere di Dio (le cose, la natura, il nostro corpo, la vita) né di imitarle, riproducendone le forme in un quadro; non si tratta di piegarle alla nostra volontà, trasformandole secondo i nostri desideri. Non si tratta di scegliere tra possibilità date, ma di costruire nuove possibilità. Si tratta di essere creatori di opere, come lo è Dio: a sua imitazione. Si tratta di continuare la divina creazione, di imitare non l’opera ma l’atto divino di creazione.» (Paul Klee)

Cominciamo col dire che bisogna fare una differenziazione tra musica moderna e contemporanea. Differenziazione dovuta ad episodi politici, culturali e sociali che mutarono in modo quasi istantaneo il mondo in un breve lasso di tempo, compresa l’arte in ogni sua forma. Difatti, la musica moderna (denominata musica colta) la si classifica a livello temporale nella prima metà del novecento, mentre quella contemporanea parte dopo la seconda guerra mondiale. Le radici della musica moderna si affondano nella seconda metà del XIX secolo, con la complessità armonica delle opere tarde di Richard Wagner, la ricchezza formale di Johannes Brahms, e le nuove concezioni armoniche, melodiche e ritmiche di Claude Debussy. Continuatori del discorso di Wagner e Brahms sono Gustav Mahler e Richard Strauss. Essi tracciarono una linea di continuità fra il Romanticismo Tedesco e la cosiddetta “Seconda scuola di Vienna”. La seconda scuola di Vienna è la scuola musicale fondata all’inizio del XX secolo a Vienna da Arnold Schönberg (1874-1951). La denominazione fa riferimento ad un’implicita prima scuola di Vienna: quella formata da Joseph Haydn, Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven. Va altresì fatto notare come l’implicita ammissione di esistenza di una “prima scuola di Vienna” non si fonda su alcuna base storica né, tanto meno, estetica. Vienna all’inizio del XX secolo era il centro di rinnovamento artistico e culturale dell’Europa centrale. In questo clima di apertura alle novità Schonberg trovò spazio per sviluppare le sue teorie, basate sulla ricerca di un nuovo tipo di linguaggio sganciato dalla tonalità. I suoi due allievi più importanti, Webern e Berg, che in un primo momento avevano adottato il sistema tonale, si convertono alla atonalità e all’uso della sistematica dissonanza. Tuttavia è solo con la pubblicazione delle teorie di Arnold Schönberg in un manuale del 1911 e con le prime composizioni seriali dei primi anni venti che abbiamo la nascita e la consacrazione della dodecafonia, cioè di quel nuovo sistema compositivo che fu il punto d’approdo della seconda scuola di Vienna. La dodecafonia è una tecnica di composizione, esposta in un articolo del 1923 intitolato Komposition mit 12 Tönen (“Composizione con 12 note”), dallo stesso Schönberg. Ha lo scopo di sostituire le funzioni presenti nella musica tonale e permettere al compositore di creare brani complessi strutturati sul principio della pantonalità. Egli affermava che “nella musica non c’è forma senza logica e non c’è logica senza unità”. Schönberg teorizza ed applica il suo «Metodo di composizione con 12 note imparentate solo le une alle altre». Il sistema dodecafonico prevede la creazione di una serie, cioè una successione di 12 suoni che esaurisca il totale cromatico. La serie è differente dalla scala cromatica (intervalli di 12 semitoni), perché pur contenendo gli stessi suoni l’ordine è scelto dal compositore in base alle esigenze del pezzo. Nel complesso la dodecafonia costituì una notevole semplificazione dell’organizzazione musicale rispetto alla situazione immediatamente precedente, in cui, come si diceva, gli artifici armonici impiegati avevano complicato enormemente la musica tonale. Durante il nazismo, molte forme musicali (per esempio il Jazz) vennero considerate “arte degenerata” e vietate. La mostra Musica Degenerata, tenutasi a Düssendorf nel 1938, in occasione delle Reichsmusiktage (“giornate musicali del Reich”) comprendeva, tra le altre, opere di Hindemith, Schönberg, Berg e Weill, costringendo molti degli artisti all’emigrazione o all’esilio. Allo stesso tempo, la politica culturale del regime promuoveva la produzione e l’ascolto di musica inoffensiva, ad esempio la musica popolare, la musica d’uso (o “Gebrauchsmusik”), le Operette, la musica da ballo e le marce militari che favorivano la propaganda. Molti compositori vennero perseguitati e uccisi per la loro origine ebraica.

Due i personaggi che prenderemo in visione per proiettarci nella musica moderna e contemporanea del nostro tempo: Julius Evola e Theodhor Adorno.

Julius Evola (1898-1974) è stato un filosofo, pittore, poeta, scrittore ed esoterista italiano. E’ stato personaggio poliedrico e di cultura elevatissima, in ragione dei suoi molteplici interessi che spaziarono, dall’arte alla filosofia, dalla storia alle religioni, dalla politica all’esoterismo, etc. Le sue posizioni si inquadrano nell’ambito di una cultura di tipo aristocratico-tradizionale e di tendenze ideologiche in parte presenti nel fascismo e nel nazionalsocialismo. Fu apprezzato da Mussolini; in particolare per i pensieri di Evola per il ritorno alla romanità e una teoria della razza in chiave spirituale. «Sia razzialmente, sia in fatto di ideali, esiste una grande opposizione fra l’uomo ariano e tradizionale europeo e il giudeo. Fin dalle origini il giudeo ci è apparso come un essere diviso in se stesso. A differenza dell’ariano egli fu sempre incapace di concepire e di realizzare un’armonia fra spirito e corpo. Il corpo significò per lui la carne, cioè una crassa e peccaminosa materialità, da cui deve redimersi per raggiungere lo spirito che per lui sta in una sfera astratta, fuori della vita. Ma nel giudeo questo impulso alla liberazione fallisce ed allora le prospettive si invertono: colui che era tormentato dal pungolo della redenzione si precipita disperatamente nella materia, si abbandona ad una brama illimitata per la materia, per la potenza materiale e per il piacere. Voi così vedete un uomo che si sente schiavo della carne e per questo vuol vedere intorno a sé solo degli schiavi come lui. Perciò egli gode dovunque egli scopra l’illusorietà dei valori superiori, dovunque torbidi retroscena si palesino dietro la facciata della spiritualità, della sacralità, della giustizia e dell’innocenza.» (Julius Evola, La civiltà occidentale e l’intelligenza ebraica)

Da parte sua il filosofo nutre una pacata ammirazione nei confronti del Duce. Lo stesso Evola, nel primo numero della rivista da lui diretta, La Torre, espone il suo pensiero sul mondo della tradizione, sintetizzando la sua posizione verso il fascismo: «Nella misura che il fascismo segua e difenda tali principi, in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è tutto». Evola mostrò interesse verso l’arte, la musica e la filosofia fin da giovane:

«Nella prima adolescenza, mentre seguivo studi tecnici e matematici, si sviluppò in me un interesse naturale e vivo per le esperienze del pensiero e dell’arte. Da giovinetto, sùbito dopo il periodo dei romanzi d’avventure, mi ero messo in mente di compilare, insieme ad un amico, una storia della filosofia, a base di sunti. D’altra parte, se mi ero già sentito attratto da scrittori, come Wilde e D’Annunzio, presto il mio interesse si estese, da essi, a tutta la letteratura e l’arte più recenti. Passavo intere giornate in biblioteca, in un regime serrato ma libero di letture. In particolare, per me ebbe importanza l’incontro con pensatori, come Nietzsche, Michelstaedter e Weininger. Esso valse ad alimentare una tendenza di base, anche se, a tutta prima, in forme confuse e in parte distorte, quindi con una mescolanza del positivo col negativo» (Julius Evola, Il cammino del cinabro)

Ed ancora:

«A parte gli autori accennati, va menzionata l’influenza che su me adolescente esercitò anche il movimento che alla vigilia della prima guerra mondiale e durante la prima parte di essa ebbe per centro Giovanni Papini con le riviste Leonardo e Lacerba, in seguito in parte anche con La Voce. Fu il periodo dell’unico vero Sturm und Drang che la nostra nazione abbia conosciuto, dell’urgere di forze insofferenti del clima soffocante dell’Italietta borghese del primo novecento […] A lui e al suo gruppo si deve il nostro venire a contatto con le correnti straniere più varie e interessanti del pensiero e dell’arte d’avanguardia, con l’effetto di un rinnovamento e di un ampliamento di orizzonti» (Julius Evola, Il cammino del cinabro)

È il 1927 quando si forma il “Il gruppo di Ur””, con l’obiettivo di trattare con serietà e rigore le discipline esoteriche ed iniziatiche. La parola, come spiega lo stesso Evola, è «tratta dalla radice arcaica del termine “fuoco”, ma vi era anche una sfumatura additiva, del senso di “primordiale”, “originario”, che essa ha come prefisso in tedesco». Rispetto ad un tentativo già intrapreso da Reghini con la direzione delle riviste Atanor e poi Ignis, il “Gruppo di Ur” si prefigge di accentuare maggiormente il lato pratico e sperimentale. Il gruppo di studio adotta il principio dell’anonimato dei collaboratori – che si firmano tutti con uno pseudonimo – ed inizia sotto la direzione di Evola la pubblicazione di fascicoli mensili che sono poi riuniti nei volumi Introduzione alla magia usciti tra il 1927 e il 1929. Il termine magia, spiega Evola, non corrisponde al significato popolare, ma alla «formulazione del sapere iniziatico che obbedisce ad un atteggiamento attivo, sovrano e dominativo rispetto allo spirituale». Verso la fine del 1928 nel “Gruppo di Ur” avviene una scissione rispetto alla quale Evola è molto vago, anche in relazione al principio dell’anonimato cui il gruppo si rifà: parla genericamente di intromissioni della massoneria all’interno del gruppo, ma in realtà sono presi di mira Arturo Reghini e Giulio Parise, entrambi massoni. A seguito di questa scissione, pochi mesi dopo, il gruppo si scioglie definitivamente. Successivamente, ne Il cammino del cinabro, Evola torna sull’argomento raccontando di come Mussolini si preoccupasse del “Gruppo di Ur”, pensando che qualcuno volesse agire magicamente su di lui. Evola mette in relazione questo fatto all’ordine giunto ad alcune riviste di interrompere la collaborazione con lui e decide di chiarire il fatto con il duce: «Giunto a sapere come le cose effettivamente stavano, Mussolini cessò di interferire. In realtà, Mussolini, oltre che suggestionabile, era abbastanza superstizioso (come controparte di una mentalità, in fondo, chiusa alla vera spiritualità)». Sempre ne Il cammino del cinabro Evola ammetterà la non veridicità di alcuni dei fenomeni paranormali descritti nelle riviste Atanor ed Ignis e poi raccolti in Introduzione alla Magia quale scienza dell’Io: «Per debito di onestà, debbo dire che vanno messi sotto beneficio d’inventario alcuni dei fenomeni riferiti in Introduzione [alla Magia quale scienza dell’Io], in relazione al gruppo [di Ur]». Il mancato suicidio (durante la prima guerra mondiale, cui partecipò in prima persona) è per Evola il momento di passaggio più significativo: fine del periodo artistico e inizio del periodo filosofico. Esce nel 1925 il primo libro di filosofia: Saggi sull’idealismo magico. Coerentemente con le posizioni teoriche della sua seconda fase artistica (astrattismo mistico) Evola si distacca dall’idealismo hegeliano in favore di una libertà interiore assoluta. Il pensiero deve prefiggersi il compito di superare i limiti dell’umano per andare verso l’oltre-uomo teorizzato da Nietzsche. L’attualismo gentiliano diventa dunque il punto di partenza: dall’Io come principio attivo della realtà su un piano logico-astratto, all’Io come criterio di potenza capace di affermare l’individuo assoluto. Evola è propugnatore del Tradizionalismo, un modello ideale e sovratemporale di società caratterizzato in senso spirituale, aristocratico e gerarchico. Secondo l’autore tale modello si riscontra, da un punto di vista storico, in civiltà quali quella egiziana, romana ed indiana. Tali civiltà non si basano su criteri economici, materiali e biologici, ma sono suddivise e gestite in base a criteri di gerarchia sociale di carattere ereditario e spirituale. Secondo Evola ogni azione che avviene durante la vita biologica (il divenire) rispecchia direttamente una medesima azione di carattere metafisico (l’essere) e dunque imperitura e sovratemporale. L’uomo moderno non sta correndo verso l’evoluzione, ma al contrario verso l’involuzione. Il cammino dell’uomo durante la sua involuzione avviene attraverso un percorso di tipo circolare, non lineare. Traccia di questa teoria la si trova, ad esempio, nello schema proposto da Esiodo relativo alla cosiddetta teoria delle cinque età (dell’oro, dell’argento, del bronzo, degli eroi, del ferro), corrispondenti ai quattro yuga dell’induismo. Queste civiltà menzionate – ritenute superiori da Evola – si basano dunque su una più elevata dimensione metafisica e spirituale dell’esistenza, anziché su criteri di ordine materiale. La naturale decadenza di queste società è direttamente proporzionale all’aumento del progresso e della modernità. Tale processo di decadenza ha inizio con la perdita dell’unico polo che in passato racchiude sia l’autorità spirituale che quella temporale e prosegue con la spinta propulsiva dei valori illuministi espressi con la Rivoluzione Francese: si arriva così alla società odierna dove la dimensione spirituale dell’esistenza è andata definitivamente perduta. In particolare Evola rifiuta totalmente il concetto di egualitarismo, in favore di una visione differenziatrice della natura umana. Ne consegue un netto rifiuto per la democrazia (intesa come strumento di massa) e parimenti per ogni forma di totalitarismo, anch’esso ritenuto uno strumento di massa che si basa non su un’autorità spirituale, bensì su un’autorità esclusivamente di tipo temporale. Nel 1951 Evola viene arrestato con le accuse di apologia di fascismo e di essere l’ispiratore di alcuni gruppi neofascisti: si tratta del processo ai FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria).

Scrive Evola: «Dissi che attribuirmi idee fasciste era un assurdo, non in quanto erano fasciste, ma solo in quanto, rappresentavano, nel fascismo, la riapparizione di principi della grande tradizione Politica europea di Destra in genere. Io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di fare il processo a tali concezioni. Ma in tal caso si dovevano far sedere sullo stesso banco degli accusati: Platone, un Metternich, un Bismarck, il Dante del De Monarchia e via dicendo» (Julius Evola, Il cammino del cinabro)

Il processo ai FAR si conclude il 20 novembre del 1951 con l’assoluzione di Evola con formula piena. In ambito musicale, in una civiltà del divenire come quella moderna – secondo Evola – si può parlare di una “demonìa occidentale della musica“, la musica è diventata un fenomeno invadente che ha dato avvio a situazioni autodissolutive analoghe a quelle dell’arte moderna. La musica moderna occidentale si è distaccata dalla precendente linea melodrammatica ed eroico-romantica del passato per diventare un fenomeno in cui prevale l’elemento fisico. Evola si sofferma, sulla riduzione della musica ad attività descrittiva della natura in cui il musicista intellettuale ha deciso deliberatamente di incontrare l’elemento fisico ed elementare. Un’altra caratteristica della musica moderna è stata quella di sostituire la musica-canto e la musica-patetica con la musica-danza; proprio questo aspetto è giudicato da Evola positivo in quanto la funzione della musica riacquista la capacità di liberare l’uomo che -aggiungiamo noi- si può trovare nelle danze evocatrici della cultura greco-dionisiaca. Quindi per Evola non tutta la musica moderna è da rigettare; lo è solo quella dodecafonica. Infatti, se le note di una musica cessano di provocare emozione sono paragonabili alle “pure entità algebriche della fisica moderna“; il sottofondo di questo modo di fare musica – rincara la dose Evola -“è una devastazione interiore“. L’atto terminale che sembra avere rotto ogni argine rompendo con la tradizione della musica come armonia lo si ritrova nella cosiddetta “musica concreta” che non è altro che una rassegna organizzata di rumori che vengono assemblati insieme a dei suoni orchestrali. Nel quadro convulso e agitato descritto da Evola viene incluso il jazz, espressione di una tendenza che trova largo seguito nel mondo moderno, una tendenza che egli definisce “una voga aberrante superficiale” da inquadrare nel rango della musica puramente fisica e che poco si ferma all’anima. Nel jazz – conclude Evola- al posto della graziosità e dello slancio propri delle precedenti musiche europee come, ad esempio, il valzer viennese “si sostituisce alcunché di meccanico, di disgregatore e, insieme, di primitivisticamente estatico, talvolta di parossistico per l’uso della ostinata reiterazione tematica“. La posizione evoliana sul jazz, che per il suo esplicito diniego e per la sua radicale opposizione dà l’impressione di essere prevenuta, non va presa alla lettera ma va inquadrata in una concezione più vasta dove il fine non è quello di avere consenso ma di delineare le linee guida per l’uomo della Tradizione che si trova a vivere nel mondo della società borghese occidentale e americanizzata. Si tratta di un punto di vista “speciale” che va letto attentamente in quanto Evola riconosce che lo spirito della musica africana nulla ha che fare con quello del jazz che dalla prima ne ha attinto i contenuti grezzi. Ecco cosa scrisse a tal proposito: “Si sa infatti che la musica africana da cui sono stati tratti i principali ritmi dei balli moderni è stata una delle principali tecniche usate per produrre forme di apertura estatica e di invasamento. Il Dauer e lo stesso Ortiz hanno giustamente visto la caratteristica di quella musica nella sua struttura polimetrica, elaborata in modo che degli accenti estatici che marcano il ritmo siano in funzione costante di accenti estatici; così le speciali configurazioni ritmiche generano una tensione intesa ad « alimentare un’estasi ininterrotta »”

Theodor Adorno (1903-1969) fu prima musicista e critico musicale e poi filosofo, eminente esponente della Scuola di Francoforte. Si distinse per una critica radicale alla società e al capitalismo avanzato. Oltre ai testi di carattere sociologico, nella sua opera sono presenti scritti inerenti alla morale e all’estetica, nonché studi critici sulla filosofia di Hegel, Husserl e Heidegger. Allievo ed ammiratore di Alban Berg e amico di Schönberg, i quali rappresentavano l’avanguardia musicale che avrebbe rinnovato la musica del tempo, Adorno scrisse saggi e musica in collaborazione con Hans Eisler, il celebre musicista del teatro di Berthold Brecht. Adorno nella sua rigorosa critica alla società borghese (condotta con basi hegeliane e marxiste), afferma che con il passaggio al capitalismo monopolistico (ma anche ai sistemi collettivistici socialisti), le relazioni interumane si riducono a pura apparenza; la vita individuale diviene pura funzione delle forze oggettive che governano la società di massa; la sfera individuale si riduce all’ambito fittizio del consumo. In tale radicale condizione, la produzione dell’alienazione si manifesta in quanto struttura e sovrastruttura risultano intrecciate in una connessione di accecamento sociale. La condizione umana, mediata dall’ideologia in questo sistema sociale diviene quella dell’alienazione individuale e della disumanizzazione dei rapporti sociali. La cultura si riduce a industria culturale – una categoria “inventata” da Adorno e Max Horkheimer nel libro La dialettica dell’illuminismo-, la scienza è asservita al profitto, diventa cioè strumento di dominio sulle cose e sugli uomini. Di qui la critica condotta al neopositivismo come filosofia dell’asservimento della cultura alla tecnica e all’affermazione della filosofia come pensiero dialettico, che lo conducono a una interpretazione del marxismo in chiave anti-idealistica e antiteleologica. Tale tendenza ideologica fu palese soprattutto nell’era contemporanea. Difatti, la tendenza a produrre beni di consumo di massa esplose letteralmente nel post seconda guerra mondiale. In ambito musicale, ogni abitazione cominciò ad avere mezzi d’ascolto (radio) e la musica non fu più eccezione per critici esteti, ma di consumo per le masse. L’estetica si trasformò da gusto del bello e di qualità artistica ad estetica di “pancia”, cioè di gusto personale. I gusti personali messi assieme portarono alle mode, da seguire dalla stessa massa. Fu l’avvio alla “Pop-art” cioè arte ad uso e consumo del popolo. La conseguenza di questa nuova visione corrisponde ad arte con sempre meno qualità per sfamare il piacere ed il desiderio di popoli che non possiedono mezzi per giudicar in modo critico-estetico un’opera artistica. Adorno fu uno dei primi a percepire tale cambiamento prodotto dal consumismo e dal capitalismo crescente. Opere come Filosofia della Musica Moderna (1949) e La personalità autoritaria (1950) sono da anni tra i capisaldi della musicologia e della sociologia. Studi sulla sua filosofia vengono tuttora pubblicati regolarmente. Fondamentale anche il suo pensiero sulla Dialettica negativa. L’intento di Adorno nella sua Dialettica negativa è di liberare la dialettica dalla sua natura affermativa. Liberare la dialettica da Hegel attraverso una critica al fondamento, e restituire il primato al pensiero legato al contenuto. Il suo antisistema si costruisce grazie a una logica consequenziale che non cerca fondazione ma solo una giustificazione. In risposta all’affermazione di Ludwig Wittgenstein secondo cui “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, Adorno sostiene come compito e sfida della filosofia, proprio l’indagine intorno a ciò di cui non si può parlare, in questo modo egli intende mostrare il carattere antifilosofico della famosa sentenza wittgensteiniana contenuta nel Tractatus Logico-Philosophicus. A differenza che in Hegel, secondo il quale il fenomeno è semplicemente un esempio del suo concetto, per Adorno se il pensiero si estraniasse realmente nella cosa allora l’oggetto stesso inizierebbe a parlare sotto lo sguardo costante del pensiero. La negazione per Adorno è la forza che fa saltare l’indissolubile identità di pensiero e oggetto. Pensare filosoficamente è dunque pensare per modelli, una enciclopedia razionale, discontinua, che contiene elementi di autocritica del pensiero e di critica del sistema. Occorre dunque una dialettica che non resti incollata all’identità ma che si apra al contenuto temporale della verità. Ciò che intendeva superare i dogmi grazie alla certezza di sé è divenuta una conoscenza in cui non accade più nulla. Adorno ammette come Hegel che il primato del soggetto (Spirito) sull’oggetto sia fuori discussione, ma critica la logica hegeliana in quanto espelle da sé l’essente determinato. Vi è dunque bisogno di più soggetto poiché il soggetto, privato della sua sovranità diventa la forma di riflessione dell’oggettività. Insomma tutto perde identità dall’uomo all’arte, dall’artista all’opera.

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Letteratura (Aut-Aut / Soren Kierkegaard)

Aut-Aut (Soren Kierkegaard) 

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AUT-AUT (1843)

ESTETICA ED ETICA NELLA FORMAZIONE DELLA PERSONALITA’

Ma cosa vuol dire vivere esteticamente e cosa vuol dire vivere eticamente? Cosa è l’estetica nell’uomo, e cosa è l’etica? A ciò risponderò: l’estetica nell’uomo è quello per cui egli spontaneamente è quello che è; l’etica è quello per cui diventa quello che diventa. Chi vive tutto immerso, penetrato nell’estetica, vive esteticamente. Non è mia intenzione approfondire lo studio di tutto quell’abbondante materiale che sta nella determinazione che ho data dell’estetica. Pare quasi superfluo voler illuminare su cosa sia il vivere estetico, proprio te che con tanto virtuosismo ne hai fatto pratica, son piuttosto io che avrei bisogno del tuo aiuto. Però voglio abbozzare alcuni stadi per giungere a poco a poco fino al punto in cui realmente è la dimora della tua vita, il che per me è importante perché tu non possa sfuggirmi con una delle tue predilette scappatoie. Inoltre non dubito di essere in grado di illuminarti un poco anch’io intorno a ciò che sia il vivere estetico. Infatti, mentre manderei chiunque desiderasse vivere esteticamente da te, come dalla guida più fidata, non te lo manderei se desiderasse comprendere, in senso più elevato, cosa sia il vivere estetico, poiché su ciò non saresti in grado di illuminarlo, proprio perché tu stesso sei in causa. Questo glielo può spiegare solo chi sta su di un gradino più elevato, chi vive eticamente. Forse, per un attimo, potresti sentirti tentato di mettermi in imbarazzo soggiungendo che nemmeno io potrei dargli una spiegazione degna di fede su quel che sia il vivere etico, perché anch’io sono in causa. Questo però mi darebbe soltanto l’occasione di una ulteriore spiegazione. Chi vive esteticamente non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre solo nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di se stesso. Non è affatto mia intenzione negare che chi vive esteticamente, quando questa vita è al suo massimo, può esibire una quantità di doti spirituali, anzi, che queste devono perfino essere sviluppate in grado insolitamente intenso. Eppure l’esteta non possiede liberamente il suo spirito, manca di limpidezza. Così spesso si trovano degli animali in possesso di sensi molto più acuti, molto più intensi dell’uomo, ma sono legati all’istinto animalesco. Vorrei prender te come esempio. Non ho mai negato le tue ottime doti spirituali, come potrai vedere dal fatto che molto spesso ti ho biasimato perché le hai usate male. Sei spiritoso, ironico, buon osservatore, dialettico, esperto nei piaceri, sai calcolare il momento, sei, secondo le circostanze, sentimentale o senza cuore, ma, con tutto questo, vivi sempre solo nel momento, la tua vita si disfa in una serie incoerente di episodi senza che tu possa spiegarla. Se uno vuole imparare l’arte di godere è giustissimo che vada da te, ma se desidera comprendere la tua vita, non si rivolge alla persona adatta. Forse troverà piuttosto da me quello che cerca, nonostante che io non sia affatto in possesso delle tue doti spirituali. Tu sei imprigionato, ed è quasi come se tu non avessi tempo di staccarti, io non sono imprigionato nel mio giudizio né intorno all’estetica né intorno all’etica. Nell’etica infatti io mi sollevo sopra il momento, e giungo alla libertà; ma è una contraddizione che si possa essere imprigionati nella libertà. Ogni uomo, per quanto poco intelligente sia, per quanto bassa sia la sua posizione nella vita, ha un bisogno naturale di formarsi una concezione di vita, una rappresentazione del significato della vita e del suo scopo. Anche chi vive esteticamente fa questo, e l’espressione comune che, in ogni tempo ed in ogni diverso stadio, si è sempre sentita, è questa: bisogna godere la vita. Questa espressione naturalmente varia molto, poiché le idee intorno al godimento sono varie, ma sull’espressione che si deve godere la vita, tutti sono d’accordo. Ma chi scorge nel godimento il senso e lo scopo della vita, sottopone sempre la sua vita a una condizione che, o sta al di fuori dell’individuo, o è nell’individuo ma in modo da non essere posta per opera dell’individuo stesso. Ti prego, riguardo a quest’ultimo punto, di fissare bene in mente le espressioni, poiché sono state scelte con cura.

Ora passiamo brevemente in rassegna questi stadi per spingerci fino a te. Tu forse sei già un po’ irritato per la formula generale colla quale ho tentato di definire la vita estetica, ma non potrai negarne l’esattezza. Assai spesso ti ho sentito deridere la gente che non capisce il godimento della vita, mentre invece tu credi di averlo raffinatamente capito. È possibile che non lo capiscano, ma nella cosa principale, nel voler godere, sono sul tuo stesso piano. Ora forse cominci a sospettare che in questo stadio verrai a trovarti in compagnia di persone che di solito ti sono abominevoli. Pensi forse che dovrei essere tanto galante da considerarti un artista, il quale è su di un piano infinitamente più elevato di quegli arruffoni che nella vita ti danno tanto fastidio e coi quali non desideri avere in nessun modo alcunché di comune. Pertanto non ti posso accontentare; poiché hai qualche cosa di comune con loro, e qualche cosa di molto essenziale — e cioè la concezione di vita, e quello per cui sei diverso da loro, ai miei occhi, è qualche cosa di non essenziale. Non posso fare a meno di ridere di te; ecco, mio giovane amico, questa è la maledizione che ti segue: i tuoi molti fratelli d’arte che tu non intendi affatto riconoscere come tali. Tu corri il pericolo di entrare a far parte di una compagnia cattiva e volgare, tu che sei tanto aristocratico. Non nego che deve essere antipatico avere in comune la concezione di vita con un qualsivoglia gaudente e con un cacciatore qualunque. Non arrabbiarti, il tuo caso forse non è identico al loro, poiché tu, in un certo senso, stai al di fuori del campo estetico. Per quanto grandi possano essere le differenze entro il campo estetico, pure tutti gli stadi concordano essenzialmente nel fatto che lo spirito non è in essi determinato come spirito, ma determinato immediatamente. Le differenze potranno essere ragguardevoli, dalla completa mancanza di spirito fino al più alto grado di spiritualità, ma anche nello stadio dove brilla la spiritualità, lo spirito non è determinato come spirito, ma come dono di natura. Voglio caratterizzare ogni singolo stadio molto brevemente, e fermarmi più a lungo solo su quanto possa in qualche modo essere adatto a te o su ciò che desidererei ti servisse. La personalità immediatamente determinata non è spirituale, ma fisica. Qui abbiamo una concezione di vita che insegna che la salute è il bene più prezioso, quello intorno al quale ruota tutto il resto. Questa concezione ha un’espressione più poetica se si dice : la bellezza è il valore più alto. Ma la bellezza è un bene molto labile, e perciò è raro che si veda questa concezione di vita tradotta in realtà. Abbastanza sovente s’incontrano delle fanciulle o dei giovani che per un breve tempo puntano sulla loro bellezza, ma ben presto essa li tradisce. Però ricordo che una volta l’ho vista tradotta in realtà, in un caso raro e fortunato. Quando ero studente, frequentavo spesso, durante le ferie, una casa di conti in provincia. Il conte, in passato, aveva tenuto una carica diplomatica, ora, essendo più anziano, viveva agiatamente nella quiete campestre del suo castello. La contessa, da ragazza, era stata straordinariamente bella, ed anche da anziana era la più bella signora che io avessi mai visto. Da giovane il conte, colla sua maschia bellezza, aveva avuto grandi successi presso il bel sesso; alla corte si ricordava ancora il bellissimo gentiluomo. L’età non lo aveva incurvato ed una nobile genuina dignità aristocratica lo rendeva ancor più bello. Chi li aveva conosciuti nella loro gioventù, assicurava che era stata la coppia più splendida che avesse mai visto, ed io, che ebbi la fortuna di conoscerli nella loro vecchiaia, trovavo che fosse verissimo, perché erano ancora la coppia più bella che si potesse immaginare. Tanto il conte quanto la contessa avevano una fine educazione, eppure la concezione di vita della contessa si riassumeva nel pensar che fossero la più bella coppia di tutto il paese. Ricordo ancora benissimo un fatto che me ne accertò. Era una domenica mattina, nella chiesa situata vicino al castello si celebrava una piccola funzione. La contessa era stata un po’ indisposta e non si arrischiava ad uscire. Il conte invece vi si recò, vestito in tutta pompa, colla sua uniforme di gentiluomo di corte, adorna di ordini. Le finestre della grande sala erano rivolte verso il viale che conduceva alla chiesa. La contessa stava presso una di esse; vestiva un elegante abito da mattina ed era veramente deliziosa. Mi ero informato della sua salute ed avevo intavolato con lei una conversazione intorno allo sport della vela, che sarebbe stato praticato il giorno seguente, quando il conte si mostrò in fondo al viale. Essa tacque, divenne più bella di quanto avessi mai visto, assunse una espressione quasi triste — il conte si era avvicinato tanto da vederla alla finestra — ella gli gettò un bacio con grazia e dignità, poi si volse verso me e mi disse: « Non è vero, Guglielmo, che il mio Ditlev è proprio l’uomo più bello di tutto il regno! A dire la verità è un pochino curvo da una parte, ma nessuno se ne accorge quando cammino con lui, e, quando siamo insieme, siamo ancora la coppia più bella di tutto il paese ». Nessuna giovinetta di quindici anni avrebbe potuto essere più entusiasta del suo fidanzato, il bel peggio di corte, di quel che lo fosse Sua Grazia per il già attempato gentiluomo del re. Entrambe le concezioni di vita concordano nel fatto che bisogna godere la vita; la condizione del godimento della vita sta nell’individuo, ma in modo che non è posta dall’individuo stesso.

Andiamo avanti. Incontriamo concezioni di vita che insegnano che bisogna godere la vita, ma metterne la condizione al di fuori dell’individuo. Questo è il caso di ogni concezione di vita in cui ricchezza, onori, nobiltà, ecc. vengono elevati a compito e contenuto della vita. E rientra in questa categoria anche certo genere di amore. Immaginiamo una fanciulla innamorata con tutta l’anima, i cui occhi non conoscano altra gioia che vedere l’amato, la cui anima non abbia altro pensiero che lui, il cui cuore non abbia altro desiderio che quello di appartenere a lui, per la quale nulla, nulla né in cielo né in terra, abbia importanza se non lui; ecco che abbiamo, di nuovo, una concezione di vita estetica, in cui la condizione è posta al di fuori dell’individuo stesso. Naturalmente tu troverai che è una sciocchezza amare in questo modo, penserai che è una cosa che si legge solo nei romanzi. Pertanto la si può pensare, ed è certo che a molti un amore come questo appare meraviglioso.

Più tardi ti spiegherò perché non lo approvo.

Andiamo avanti. Incontriamo una concezione di vita che insegna che dobbiamo godere la vita, ma la condizione di questo godimento la troviamo nell’individuo stesso, però in modo da non esser posta da lui. Qui in generale la personalità è determinata come talento. Si ha un talento pratico, talento mercantile, un talento matematico, un talento poetico, un talento artistico, un talento filosofico: la soddisfazione della vita, il godimento, è cercato nello sviluppo di questo talento. Forse non si rimarrà fermi al talento nella sua spontaneità, lo si educherà in tutti i modi, ma la condizione per la soddisfazione nella vita è il talento stesso, che è una condizione che non è posta dall’individuo. Le persone che hanno questa concezione di vita appartengono spesso a quelli che si solito sono oggetto dei tuoi scherni costanti, a causa della loro infaticabile attività. Tu stesso credi di vivere esteticamente ma non lo vuoi ammettere per loro. Innegabilmente hai un’altra concezione del godimento, ma questo non è l’essenziale, essenziale è voler godere la vita. La tua vita è assai più signorile della loro, ma la loro è anche molto più innocente della tua.

Tutti questi tipi di concezione estetica della vita si assomigliano anche per il fatto che danno alla vita una certa unità, una certa coesione; tutto infatti si aggira intorno a una cosa determinata. Essi costruiscono la loro vita su qualche cosa di particolare, e perciò non la disperdono, come coloro che costruiscono la loro vita su ciò che di per se stesso è molteplice. Così avviene in quella concezione di vita sulla quale mi soffermerò ora un po’ più a lungo. Essa insegna: godi la vita, e spiega così il suo insegnamento: vivi il tuo desiderio. I desideri però in se stessi sono molteplici, e così è facile capire che questa vita si frantuma in una sconfinata molteplicità, ameno che nel singolo i desideri non siano concentrati fin dall’infanzia in un desiderio unico, che si potrebbe piuttosto chiamare inclinazione, propensione, ad esempio per la pesca, o per la caccia o per l’allevamento dei cavalli, ecc. Siccome questa concezione di vita trova il suo soddisfacimento in una molteplicità, è facile vedere che essa sta nella sfera della riflessione; pertanto questa riflessione è sempre solo una riflessione finita e la personalità permane nella sua immediatezza. Nel desiderio l’individuo è immediato, e, per quanto il piacere sia raffinato, ricercato, studiato, l’individuo è pur sempre in esso come immediato. Chi gode è nel momento, e per quanto molteplice sia questo godimento, egli è sempre immediato, perché è nel momento. Pertanto vivere per soddisfare i propri desideri è una posizione molto raffinata nella vita, e, grazie a Dio, è raro vederla realizzata completamente, a causa delle difficoltà della vita terrena che danno altro da pensare all’uomo. Se non fosse così, non dubito che saremmo spessissimo testimoni di questa orribile commedia: perché, certo, si sente molto spesso la gente lamentarsi della vita prosaica, il che, purtroppo, spesso non significa altro se non che essi aspirano a gettarsi nella selvaggia turbolenza in cui il piacere può precipitare l’uomo. Infatti perché questa concezione di vita possa realizzarsi bisogna che l’individuo sia in possesso di una quantità di condizioni esteriori, e questa fortuna, o piuttosto sfortuna, è raro sia concessa ad un uomo: questa sfortuna, poiché è certo che questo dono non viene dagli dei della grazia, ma dagli dei dell’ira. È poco frequente veder tradotta in realtà questa concezione di vita in maniera degna di nota; invece non è raro vedere della gente che brancola un po’ e poi, quando le condizioni vengon meno, pensa che, se le condizioni fossero state in loro potere, avrebbe certo raggiunto quella felicità e quella gioia a cui aspirava nella vita. …

Una intelligenza pronta comprende facilmente che tale concezione non può essere tradotta in realtà, e che per ciò non vale nemmeno la pena di fare il tentativo; un egoismo raffinato comprende che in questo modo si viene privati del culmine del piacere. Abbiamo poi una concezione di vita che insegna: godi la vita, e si esprime così: godi te stesso; nel godimento devi godere te stesso. Questa è una riflessione più elevata. Però essa naturalmente non penetra nella personalità stessa, che continua a rimanere nella sua casuale immediatezza. La condizione per il godimento è anche qui l’esteriore che non è in potere dell’individuo; infatti benché egli, come afferma, goda se stesso, egli gode solo se stesso nel godimento, ma questo godimento è legato a una condizione esteriore. La differenza dunque è solo nel fatto che egli gode in modo riflesso e non immediato. Pertanto anche questo epicureismo dipende da una condizione esterna che non è in suo potere. Un’intelligenza indurita e spavalda consiglia la scappatoia: godi te stesso, respingendo sempre da te le condizioni. Ma è naturale che chi gode se stesso respingendo le condizioni dipende da esse come colui che le gode. Deve pur averle per poter godere del fatto di buttarle via. La sua riflessione ritorna sempre in lui, e poiché il suo godimento consiste nell’avere il godimento il minor contenuto possibile, è come se egli svuotasse se stesso, poiché, naturalmente, una riflessione come questa che ha di mira solo il finito, non è in grado di aprire la personalità.

Con queste considerazioni credo di aver abbastanza chiaramente tracciato il territorio della concezione estetica; tutti gli stadi hanno in comune che si vive per ciò che immediatamente si è; poiché la riflessione non giunge mai tanto in alto, da oltrepassare questo limite. È solo un fugacissimo accenno che ti presento, ma non desideravo nemmeno fare di più; per me non sono importanti i diversi stadi, ma solo il movimento che si deve necessariamente compiere per trarsene fuori, come ti dimostrerò, ed è su di esso che ti prego di fermare la tua attenzione.

Suppongo, per usare una tua espressione, che colui che viveva per la sua salute fosse sano come non mai il giorno della sua morte; che quando quei conti ballarono nel giorno delle loro nozze d’oro, un mormorio d’ammirazione attraversasse la sala, proprio come quando ballarono al loro matrimonio; suppongo che le miniere d’oro del ricco siano inesauribili, che onore e gloria accompagnino il cammino della vita del fortunato; suppongo che la fanciulla sposi colui che ama, che chi ha del talento mercantile abbracci tutte cinque le parti del mondo colle sue relazioni e tenga tutte le borse del mondo nella propria borsa, che il talento meccanico congiunga la terra al cielo, … che l’astuto epicureo possa ogni momento deliziarsi di se stesso, che il cinico abbia sempre qualche bene da gettare lungi da sé per rallegrarsi della propria leggerezza — questo suppongo, e così tutti costoro saranno felici. Tu non puoi giudicare così, ma credo che ammetterai che molti pensano così, anzi alcuni immaginano di aver detto una cosa particolarmente intelligente aggiungendo che quello che manca a costoro è di saper apprezzare la loro felicità. Ora voglio percorrere il cammino inverso. Nulla di tutto questo accade. E allora? Disperano. Tu non lo faresti, forse di resti che non ne vale la pena. Perché tu non voglia ammettere la disperazione, te lo spiegherò più tardi; qui esigo solo che tu ammetta che una gran parte di uomini troverebbe che è il caso di disperare. Guardiamo ora perché disperano. Perché hanno scoperto che quello su cui avevano costruita la loro vita era effimero? Ma è questa una ragione per disperare? È avvenuto un cambiamento sostanziale in quello su cui avevano costruita la loro vita? È un cambiamento sostanziale dell’effimero che questo si mostri come effimero? Non è piuttosto qualche cosa di casuale e di non essenziale il fatto che esso non si mostri nella sua caducità? Non è intervenuto nulla di nuovo che potesse giustificare un cambiamento. Ora siccome disperano, sarà perché disperavano anche prima. La differenza è solo che prima non lo sapevano, ma questa è una differenza del tutto casuale. Appare dunque che ogni concezione estetica della vita è disperazione, e che chiunque vive esteticamente è disperato, tanto se lo sa quanto se non lo sa. Ma quando lo si sa, e tu lo sai, una forma più elevata di esistenza è una esigenza imperiosa.

Voglio ora, in due parole, giustificare il mio giudizio sulla fanciulla e sul suo amore. Saprai che, nella mia qualità di marito, in ogni occasione ho l’abitudine, tanto a voce come per iscritto, di lodare contro te la realtà dell’amore, e anche qui mi atterrò alla mia abitudine, per eliminare ogni equivoco. Una persona intelligente, in senso finito, sarebbe forse un po’ titubante di fronte a un tale amore; forse ne vedrebbe la fragilità ed esprimerebbe così la sua meschina saggezza con la formula opposta: amami poco ma amami a lungo. Come se tutta la sua saggezza di vita non fosse ancor più fragile, o almeno molto più meschina di quell’amore! Comprenderai facilmente che io non potrei che disapprovarlo. Nel campo dell’amore mi ripugna fare esperimenti psicologici: ho amato una volta sola, e sono, ancora e sempre, infinitamente felice di questo amore. Non posso immaginare d’essere amato da altra donna che quella alla quale sono legato, se non nel modo in cui essa mi rende tanto felice, ma tenterò ugualmente di farlo. Supponiamo dunque, in qualunque modo sia accaduto, che io sia diventato oggetto di un tale amore. Non mi renderebbe felice ed io non lo accetterei mai. Non perché lo disdegnerei (Dio sa se non preferirei avere sulla coscienza un assassinio piuttosto che aver mortificato l’amore di una fanciulla); ma non lo permetterei per amore di lei. «Desidero esser amato da tutti »; per conto mio, desidero essere amato da mia moglie tanto intensamente quanto è umanamente possibile, e soffrirei se non fossi amato così; ma non desidero altro, non permetterei che l’animo di qualcuno dovesse soffrire danno per causa mia; l’amerei troppo per permettere che avvilisse se stesso. Per un animo orgoglioso v’è qualche cosa di seducente nell’essere amato così, e v’è qualcuno che conosce l’arte di sedurre una fanciulla tanto bene da farle dimenticar tutto per amor suo — alle responsabilità che assumono pensino loro. Di solito le fanciulle vengono punite anche troppo di questo, ma è ripugnante permettere che esse si innamorino così. Vedi perciò dissi e ripeto che la fanciulla era egualmente infelice, tanto se ebbe il suo amato quanto se non lo ebbe; poiché era una circostanza casuale che colui che essa amava fosse una persona onesta, che l’aiutasse ad uscire dallo smarrimento del suo cuore; e anche se i mezzi che egli usò a questo scopo furono molto duri, nondimeno dirò che egli agì onestamente, lealmente, fedelmente, e cavallerescamente con lei.

Ora abbiamo visto che ogni concezione di vita estetica è disperazione; potrebbe perciò parere giusto intraprendere il movimento col quale viene a galla l’etica. Però rimane ancora uno stadio, una concezione di vita estetica, la più fine ed aristocratica di tutte, e la voglio discutere nel modo più accurato: perché ora viene la volta tua. A tutto quello che ho svolto finora puoi tranquillamente assentire, e, in un certo modo, non è per te che ho parlato e anche approderebbe a poco parlar così con te o dirti che la vita è vanità. Lo sai benissimo anche tu ed hai cercato di aiutarti alla tua maniera. Ho esposto tutto questo perché voglio avere le spalle al sicuro, voglio prevenire una tua fuga improvvisa. Quest’ultima concezione di vita è la disperazione stessa. È una concezione di vita estetica, poiché la personalità rimane nella sua immediatezza: è l’ultima concezione di vita estetica, poiché in un certo senso ha accolto in sé la coscienza della nullità di se stessa. Intanto vi è differenza tra disperazione e disperazione. Si può esser disperati per la perdita di una cosa singola, nella quale l’individuo fa consistere tutto il valore della vita. Se questo singolo bene viene ridonato, allora cessa la disperazione. Un artista, per esempio un pittore, che diventi cieco, se in lui non v’è qualche cosa di più profondo, forse dispererebbe. Dispererebbe dunque per questo singolo fatto, e se la vista gli ritornasse, la sua disperazione cesserebbe. Non è il caso tuo, hai troppe doti spirituali, e la tua anima in un certo senso è troppo profonda perché questo ti possa accadere. Né si sono mai verificate circostanze simili. Tu hai pur sempre in tuo potere tutte le condizioni per una vita estetica, hai una sostanza, sei indipendente, la tua salute è perfetta, il tuo spirito è rigoglioso e non hai ancora sofferto perché una fanciulla non ti ha voluto amare. Eppure sei disperato. Non è una disperazione attuale, per una realtà, ma una disperazione potenziale, per ogni possibilità della vita. Il tuo pensiero ha precorso la vita, hai penetrato la vanità di tutto, ma non sei giunto più in là. All’occasione ti sprofondi nella vita, e mentre in un momento ti abbandoni al godimento, nello stesso tempo ti rendi consapevole che ogni cosa è vana. Così sei costantemente al di fuori di te stesso, cioè nella disperazione. Questo fa si che la tua vita sta tra due enormi contraddizioni: a volte hai una straordinaria energia, a volte una indolenza altrettanto grande.

Altre volte ho notato nella vita che quanto più prezioso è il fluido col quale gli uomini si inebriano, tanto più difficile è la loro guarigione. Quanto più raffinata l’ebbrezza tanto meno corruttrici sembrano le apparenze. Chi si ubriaca di acquavite si accorge presto delle conseguenze nefaste, e si può sperare nella sua salvezza. Chi invece beve champagne è più difficile da guarire. E tu? Tu hai scelto il mezzo più fine; perché nessuna ebbrezza è bella quanto la disperazione, nessuna è così decorativa, esercita tanto fascino, specialmente agli occhi delle fanciulle, (e ne sei molto bene informato) sopratutto quando contemporaneamente si possiede l’arte di saper reprimere le espressioni più incolte, permettendo che la disperazione venga solo presentita come un incendio lontano e traspaia solo segretamente. Essa dà un leggero tocco al cappello ed al portamento di tutto il corpo; lo sguardo diviene orgoglioso e ribelle; il labbro sorride arrogante. Essa dà una indescrivibile leggerezza alla vita, una regale superiorità su tutto. E quando una figura simile si avvicina a una fanciulla, quando questo essere così orgoglioso si inchina solo davanti a lei, per lei sola tra tutti, essa si sente adulata, e, peggio ancora, vi potrebbe essere una fanciulla tanto innocente da credere a questo inchino. Non è vergognoso che un uomo così… — ma no! non voglio farti una ramanzina, ti farei soltanto arrabbiare, ho mezzi più potenti: ho il giovane pieno di speranze che forse è innamorato e viene da te; si è ingannato sul tuo conto, crede che tu sia una persona fidata e leale, vuole consigliarsi con te. Tu in realtà dovresti chiudere la porta a ogni giovane fatale come questo, ma il tuo cuore non lo puoi chiudere, e anche se non desideri che egli sia testimone della tua umiliazione, non per questo essa mancherà, poiché tanto corrotto non sei e quando ti trovi solo con te stesso la tua bonomia è forse più grande di quanto si creda.

Ora, riguardo alla tua concezione, credimi, molte cose nella tua vita ti diverranno chiare, quando con me la considererai come una forma di disperazione intellettuale. Tu detesti ogni attività nella vita; molto bene; infatti, affinché questa abbia un significato, la vita deve avere una continuità, che nella tua vita manca. Tu ti occupi dei tuoi studi, è vero, sei anche assiduo; ma per te è solo un piacere, e non fissi nessuno scopo al tuo studio. Per il resto sei libero, te ne stai ozioso sulla piazza come i lavoratori dell’evangelo e colle mani in tasca osservi la vita. Sei completamente tranquillo nella disperazione; nulla ti occupa, non ti scansi da nulla « anche se buttassero giù delle tegole, dai tetti, non mi scosterei ». Sei come un moribondo, muori ogni giorno, non nel senso profondo e grave che di solito ha questa parola; piuttosto si direbbe che la vita ha perso per te la sua realtà. « Io calcolo sempre la vita da un giorno di licenziamento all’altro. » Lasci che tutto ti passi innanzi, nulla ti fa impressione. Poi improvvisamente arriva qualche cosa che ti attira, un’idea, una situazione, il sorriso di una fanciulla, e stai all’erta. Perché, mentre in certe occasioni non stai all’erta, altre volte stai all’erta, pronto a tutto. Dovunque vi sia un avvenimento, ci sei anche tu. Nella vita ti comporti come nella folla, « ti spingi fino nel folto, cerchi, se possibile, d’esser buttato sopra gli altri, in modo da poter stare sopra, e, una volta lassù, cerchi di accomodarti meglio che puoi; nello stesso modo ti fai portare attraverso la vita ». Ma quando la folla è dileguata, quando l’avvenimento è finito, ti trovi di nuovo all’angolo della via a guardare il mondo. Si sa che i moribondi hanno una energia sovrumana, e così è anche per te. Se vi è un’idea da studiare, un’opera da leggere, un piano da eseguire, una piccola avventura da vivere, perfino un cappello da comprare, tu ti butti nella faccenda con un impeto straordinario. Secondo le circostanze, lavori senza tregua un giorno, un mese, gioisci nell’accertarti di avere sempre la stessa pienezza di forze, non ti riposi, « nessun diavolo ce la fa con te ». Se lavori con altri, lavori fino a ridurli a stracci. Ma quando è trascorso il mese o il tempo che tu sempre consideri come il massimo, i sei mesi, interrompi dicendo che ormai questa storia è finita; ti ritiri e lasci che gli altri pensino al resto; e se sei stato solo nell’iniziativa, non ne parli più con nessuno. Fai credere a te stesso e agli altri d’averne persa la voglia, e ti lusinghi col vanitoso pensiero che avresti potuto continuare a lavorare colla stessa intensità se solo ne avessi avuto voglia. Ma questo è un tradimento colossale. Saresti riuscito a finire, come quasi tutti gli altri, se tu pazientemente l’avessi voluto, ma nello stesso tempo avresti anche sperimentato che per far questo occorre un tutt’altro genere di sopportazione di quella che hai tu. Così hai deluso te stesso, e non hai imparato nulla per la vita avvenire. Qui ti posso servire con una piccola informazione. Non sono all’oscuro di quanto sia traditore il nostro cuore, di quanto sia facile tradire se stessi, specialmente quando si è, come te, maestri di quella dialettica, che non solo dispensa ogni cosa, ma tutto sa annullare e scomporre. Quando nella vita mi è accaduto qualcosa, quando ho preso una decisione che temevo dovesse, coll’andar del tempo, prender per me un altro volto, quando ho fatto qualcosa a cui temevo, coll’andar del tempo, di dover dare un’altra interpretazione, spesso con poche e chiare parole ho scritto ciò che intendevo o quello che avevo fatto e il perché. Quando poi ne sento il bisogno, quando la mia decisione o la mia azione non sono vive davanti a me, prendo il mio scritto e mi giudico. Ti parrà forse una pedanteria, una complicazione, e che non valga la pena di far tante difficoltà. Non ti posso rispondere altro che questo: se non ne senti il bisogno, se la tua coscienza è sempre così indefettibile e la tua memoria così fedele, fanne pure a meno. Ma non lo credo affatto, perché la facoltà dello spirito che veramente ti manca è la memoria, cioè, non la memoria per questa o quella cosa, per le idee, le facezie o i giochi dialettici, mi guardo bene da affermarlo, ma ti manca la memoria per la tua vita intima, per quello che in essa hai vissuto. Se tu l’avessi, lo stesso fenomeno nella tua vita non si ripeterebbe tanto sovente, essa non mostrerebbe tanti di quelli che io chiamerei lavori di mezz’ora, perché li posso chiamare così anche se hai impiegato mezz’anno per compierli, perché non li hai finiti. A te piace illudere te stesso e gli altri. Se tu fossi sempre forte come lo sei nei momenti di passione, saresti, non lo voglio negare, l’uomo più forte che io abbia conosciuto. Ma non lo sei, anche tu lo sai abbastanza bene. Per questo che ti ritiri, ti nascondi quasi a te stesso e ti torni a riposare nell’indolenza. Ai miei occhi, alla cui osservazione non sempre puoi sfuggire, diventi quasi ridicolo pel tuo fervore momentaneo e pel diritto che ti assumi di schernire gli altri. … La forza che hai è la forza della disperazione; è più intensa della comune forza umana, ma di contro dura meno.

Tu aleggi sempre sopra te stesso, ma l’etere superiore, il sublime finissimo, nel quale sei evaporato, è il nulla della disperazione. Ai tuoi piedi vedi una quantità di scienze, nozioni, studi, osservazioni, le quali, purtroppo, non hanno alcuna realtà per te; ne usufruisci, le combini a tuo capriccio, al solo scopo di addobbare, con quanto buon gusto è possibile, quella villa di piacere del tuo spirito, nella quale, per l’occasione, dimori. Non c’è dunque da meravigliarsi se per te l’esistenza è una favola e «se spesso sei tentato a cominciare ogni discorso così: “c’era una volta un re e una regina, che non potevano avere dei figli”; poi dimentichi ogni altra cosa per osservare che questo fatto, strano a dirsi, nella favola è sempre ragione di dolore per il re e la regina, mentre invece nella vita di tutti i giorni ci si addolora perché si hanno dei figli; il che vien dimostrato dagli asili e da tutte le istituzioni del genere. Ma poi ti viene l’idea che “la vita è un’avventura” ». Sei in grado di spendere un intero mese solo per leggere avventure, ne fai uno studio profondo, fai paragoni e prove ed il tuo studio non è senza frutto. Ma a che ti serve? Per divertire il tuo spirito; dissipi tutto in un brillante fuoco d’artificio.

Aleggi sopra te stesso e quello che vedi sotto a te è una quantità di sensazioni e di stati che adoperi per trovare contatti interessanti colla vita. Sai essere sentimentale, spietato, ironico, spiritoso, bisogna riconoscere che in questo hai classe. Non appena qualche cosa riesce a distoglierti dalla tua indolenza, con tutto il tuo ardore sei in piena attività, e la tua attività non manca di arte, perché sei fin troppo fornito di intelligenza, di agilità e di tutte le seducenti doti dello spirito. Non sei mai, come ti esprimi con tanta compiacente ricercatezza, tanto poco galante da mostrarti senza portare con te un mazzetto profumato e appena colto di arguti motti di spirito. Più ti si conosce, più ci si stupisce dell’intelligenza calcolatrice che pervade tutto quello che fai nel breve tempo che dura la tua passione; poiché la passione non ti acceca mai, ti rende solo più avveduto. Dimentichi la tua disperazione e tutto ciò che di solito aggrava il tuo animo e il tuo spirito. Sei occupato completamente dal casuale contatto in cui ti trovi con una persona. Voglio ricordarti un fatterello che accadde a casa mia. Probabilmente devo ringraziare le due giovani svedesi allora presenti per la dissertazione che ci offristi. La conversazione aveva preso una piega piuttosto seria ed era giunta ad un punto che non era piacevo le per te; mi ero espresso un po’ vivacemente contro l’intempestivo rispetto per le doti spirituali che è particolare della nostra epoca: avevo ricordato che è qualche cosa di completamente diverso quello che importa, un certo fervore di tutto l’essere per il quale la lingua non conosce altra espressione che la parola fede. Con ciò, forse, tu venivi posto in una luce meno favorevole, e poiché certamente comprendesti che per la via su cui avevi cominciato a incamminarti non potevi più andare avanti, ti sentisti tentato a provarti in quella che tu stesso chiami follia superiore, ed esclamasti in un tono sentimentale: « Forse che io non credo? Credo che nel più profondo del solitario silenzio della foresta, dove gli alberi si specchiano nelle acque cupe di uno stagno, nella oscura segretezza che regna anche a mezzogiorno, là vive un essere, una ninfa, una fanciulla; credo che sia più bella di ogni immaginazione; credo che di mattino intrecci corone, a mezzogiorno si bagni nelle fresche acque, e alla sera malinconicamente colga le foglie delle corone; credo che sarei felice, l’unico uomo che meriterebbe di esser chiamato così, se la potessi prendere e possedere; credo che nel mio animo alberghi una nostalgia che scruta il mondo e credo che sarei felice se questa potesse esser soddisfatta; credo sopratutto che il mondo abbia un senso, se solo lo si sapesse trovare — ed ora non dite che non sono forte nella fede e ardente nello spirito! ». Forse tu credi che un discorso come questo potrebbe renderti degno di diventar membro di un simposio greco; poiché, tra l’altro, tu ti educhi per questo, tu ritieni sia una vita splendida trovarsi ogni notte con giovanetti greci, sedere con una corona nei capelli inneggiando all’amore o a quello che la fantasia vi ispira, anzi ti sacrificheresti completamente per inneggiare. A me questo parlare sembra cosa da matti, per quanto artistico possa essere, per quanto al momento faccia una certa impressione, specialmente quando tu stesso lo esponi colla tua febbrile eloquenza; ma mi pare, anche, che sia un’espressione del tuo stato d’animo turbato, poiché è naturalissimo che chi non crede a nulla di tutto ciò a cui credono gli altri, creda a simili esseri misteriosi, così come accade spesso nella vita che chi non teme nulla né in cielo né in terra, teme i ragni. Qua sorridi, pensi che sono caduto in trappola, che ho davvero creduto che tu credessi quello che eri più lontano dal credere di chiunque. E giustissimo, poiché le tue dissertazioni finiscono sempre in assoluto scetticismo, ma per quanto intelligente calcolatore tu sia, non puoi proprio negare che tu, per un attimo, scaldi te stesso al calore malaticcio che emana da queste esaltazioni. Forse la tua intenzione è quella di ingannare la gente, ma vi è un momento in cui tu, anche senza rendertene conto, inganni te stesso.

Quello che dico dei tuoi studi vale anche per tutte le tue azioni. Tu sei nell’attimo, e nell’attimo sei di una grandezza soprannaturale; vi sprofondi con tutta la tua anima, anche coll’energia della volontà, poiché nell’attimo hai il tuo essere assolutamente in tuo potere. Chi ti vede solo in un istante come questo, è assai facile che venga ingannato, mentre chi attende l’istante che segue, potrà facilmente trionfare su te. Forse ricordi ancora la nota favola di Museo intorno ai tre valletti di Rolando. Uno di essi, da una vecchia strega che andarono a trovare in un bosco, ebbe in dono un ditale che lo rendeva invisibile. Per mezzo di esso penetrò nella camera della bella principessa Urraca e le dichiarò il suo amore, facendole grande impressione, poiché essa non vedeva mai nessuno e perciò presumeva che chi la onorasse del suo amore fosse almeno un principe azzurro. Pertanto essa pretese da lui che si rivelasse. Qui stava il difficile; non appena egli si fosse mostrato, l’incanto sarebbe svanito; eppure non avrebbe potuto avere nessuna gioia dal suo amore se non si fosse potuto manifestare a lei. Ho proprio la favola di Museo alla mano e ne voglio trascrivere un piccolo passo, che ti prego di leggere attentamente per il tuo vero bene. « Egli acconsenti di mala voglia a mostrarsi e la fantasia della principessa si figurava l’immagine dell’uomo bellissimo ch’essa con vivissima attesa aspettava di scorgere. Ma quale contrasto v’era tra l’originale e l’ideale! Dinnanzi le stava un volto comune, uno dei soliti uomini la cui fisonomia non rivelava né lo sguardo del genio né uno spirito sentimentale! » Quello che tu desideri ottenere dai contatti colla gente, lo otterrai certo, perché sei più intelligente di quel valletto e comprendi facilmente che non ti conviene manifestarti. Quando hai fatto brillare davanti agli occhi di qualcuno una figura ideale — e devo ammettere che ti sai mostrare ideale sotto qualunque aspetto — ti ritiri prudentemente, divertito di averlo gabbato. Realizzi il tuo scopo, ma interrompi anche la coesione della tua vita: hai ottenuto un momento di più che ancora una volta ti costringe a ricominciare da capo.

In senso teorico hai finito col mondo; la finitezza non può esistere per il tuo pensiero; anche praticamente, in un certo senso, hai finito col mondo, cioè in senso estetico. Ciononostante non hai nessuna concezione della vita. Hai qualche cosa che assomiglia ad una concezione, ed è questa che dà alla tua vita una certa tranquillità, che però non va confusa con una confidente e consolante fiducia nella vita. La tranquillità l’hai solo in confronto a chi va ancora a caccia delle chimere del piacere, per mare pauperiem fugiens, per saxa, per ignes. Riguardo al godimento stai in un atteggiamento di orgoglio assolutamente aristocratico. Questo è assai logico, poiché hai chiuso la partita con ogni finitezza. Eppure non sai rinunciare ad essa. Sei soddisfatto nei confronti di coloro che vanno a caccia di soddisfazioni, ma quello per cui tu sei soddisfatto è l’assoluta insoddisfazione. Non ti turba vedere tutti gli splendori del mondo, perché col pensiero sei sopra ad essi;. se te li offrissero diresti come sempre: « Si, una giornatina la potrei dedicare a queste cose ». Non ti preoccupa non esser diventato milionario, e se te lo offrissero probabilmente risponderesti: «Si, sarebbe abbastanza interessante l’esserlo stato, e un mesetto lo potrei occupare così ». Anche se ti offrissero l’amore della più bella fanciulla risponderesti: « Si, per un mezz’annetto potrebbe andar bene ». Io non voglio ora unirmi alle critiche che sento spesso fare sul tuo conto, che sei insaziabile; preferisco dire: in un certo senso hai ragione; nulla di finito, infatti, nemmeno l’intero mondo può soddisfare l’animo umano, che sente il bisogno dell’eterno. Se ti si potesse offrire onore e gloria, l’ammirazione dei contemporanei — anche se questo forse è il tuo debole — risponderesti: « Si, per un breve periodo potrebbe anche andare bene ». Ma tu, a dir la verità, non hai siffatti desideri, non muoveresti un passo per soddisfarli. Se la fama avesse per te un significato, dovresti riconoscerla come vera; ma persino le più elevate doti spirituali ti sembrano pur sempre qualche cosa di effimero. La tua polemica perciò si esprime ancor più profondamente quando tu, nella tua amarezza interiore contro tutta la vita, desideri essere il più sciocco di tutti gli uomini, e d’esser nondimeno ammirato e adorato dai contemporanei come il più saggio di tutti, poiché questo sarebbe un vero sarcasmo su tutta l’esistenza, assai più profondo che se il superiore davvero fosse onorato come tale. Perciò, tu non aspiri a nulla, non desideri nulla; l’unica cosa che potresti desiderare è una bacchetta magica che ti potesse dare tutto, e poi la useresti per pulire la pipa. È così che sei finito per la vita e «non hai bisogno di fare testamento, perché non lasci nulla dopo di te».

Ma su questo vertice non ti puoi mantenere, perché il tuo pensiero ti ha bensí tolto tutto, ma non ti ha dato nulla in cambio. Nell’attimo seguente una cosuccia insignificante ti afferra. La consideri con tutta la signorilità e l’orgoglio del tuo pensiero presuntuoso, la disprezzi come un giocattolo meschino che ti ha quasi stancato già prima di prenderlo in mano, ma pure ti occupa, anche se non è l’oggetto in sé che ti occupa — e questo non è mai — ma pure ti occupa tanto che ti abbassi fino ad esso. A questo riguardo, non appena hai da fare colla gente, il tuo essere mostra un alto grado di slealtà, di cui però eticamente non ti si può incolpare, perché tu stai al di fuori delle determinazioni etiche. Fortunatamente per gli altri, partecipi assai poco ai loro fatti, e perciò la gente se ne accorge poco. Spesso vieni a trovarmi, e sai d’esser sempre benvenuto, ma sai anche che non mi verrebbe mai in mente di invitarti a prender parte a qualcosa, nemmeno a delle inezie. Non andrei nemmeno a fare una gita nei boschi con te, non perché tu non sappia essere allegro e di compagnia, ma perché la tua partecipazione è sempre falsa, perché, se tu ti rallegri veramente, si può star certi che non è per le cose che rallegrano noi o per la gita, ma per qualche cosa che hai « in mente »; e se non ti rallegri, non è perché accadono delle cose spiacevoli che ti mettono di cattivo umore, — questo potrebbe succedere anche a noi altri, — ma perché tu, già dal momento in cui sali in carrozza, hai colto la nullità di questo divertimento. Te lo perdono volentieri, perché il tuo spirito è sempre troppo mosso, ed è vero quello che spesso dici di te stesso, che sei come una puerpera, e quando si è in questo stato non c’è da meravigliarsi se si è un po’ diversi dagli altri.

Pure, non si può schernire lo spirito, esso si vendica su di te, ti lega colle catene della malinconia. Mio giovane amico, qui comincerebbe la via che conduce a diventare un Nerone, se nel tuo animo non vi fosse una sincera serietà, se nel tuo pensiero non vi fosse una innata profondità, se nel tuo spirito non vi fosse della magnanimità, — e se tu fossi diventato imperatore di Roma. Pure, tu vai per un’altra strada. Poi ti appare una concezione di vita che sembra l’unica che possa soddisfarti, quella cioè di sprofondare la tua anima nella malinconia e nella tristezza. Però il tuo pensiero è troppo sano perché questa concezione di vita possa sopportar la sua prova: perché, per una tristezza estetica di questo genere, l’esistenza è vana, come per ogni altra concezione di vita estetica; e se l’uomo non può soffrire più profondamente, dico il vero quando dico che la sofferenza finisce non meno della gioia, poiché tutto ciò che è soltanto finito perisce. Molti trovano che sia una consolazione che la sofferenza passi; a me pare sconfortante quanto il dire che passa la gioia. Cosí il tuo pensiero annulla di nuovo anche questa concezione di vita. Quando si è annullata la sofferenza, si tiene la gioia; ma invece della sofferenza tu scegli una gioia che è un cattivo sostituto della sofferenza. La gioia che hai scelto è il riso della disperazione. Tu ritorni di nuovo alla vita; sotto questo aspetto l’esistenza assume un nuovo interesse per te. Come tu provi una gran gioia nel parlare ai bambini in modo che quello che tu dici sia compreso da loro con chiarezza, facilità e naturalezza, mentre per te significa qualche cosa di ben diverso, cosí tu provi gioia nell’ingannare la gente col tuo riso. Quando riesci a far ridere, giubilare e cantare per opera tua, trionfi sul mondo, dici a te stesso: « se sapeste di cosa ridete!»…

Guarda, mio giovane amico, questa vita è disperazione. Nascondilo agli altri, ma a te stesso non lo puoi nascondere: è disperazione. Sei troppo frivolo per disperare, e troppo malinconico per non venir a contatto colla disperazione. Sei come una partoriente, eppure continui a procrastinare il momento e rimani sempre colle doglie. Se una donna, nel momento delle doglie, fosse colta dal dubbio di poter partorire un mostro o se volesse ragionare con se stessa cosa è che deve veramente partorire, essa avrebbe una certa somiglianza con te. Il suo tentativo di fermare il corso della natura sarebbe infruttuoso, ma il tuo è possibile; poiché quello che l’uomo partorisce in senso spirituale è il nisus formativus della volontà, ed esso è in potere dell’uomo. Cosa temi dunque? Tu non devi partorire un altro uomo, devi solo partorire te stesso. Eppure, lo so, in ciò è una serietà che scuote tutta l’anima; divenir coscienti di se stessi nel proprio eterno valore è il momento più importante di tutta la vita. È come se tu venissi preso e legato e non potessi mai più svincolarti, né nel tempo né nell’eternità; è come se tu perdessi te stesso, come se tu cessassi di essere; è come se tu nel momento seguente dovessi pentirtene, ma non potessi più tornare indietro. È un momento terribilmente serio e importante quello in cui ci si lega per l’eternità a una potenza eterna, in cui si accetta se stesso come colui il cui ricordo non sarà mai cancellato in nessun tempo, in cui, in senso eterno ed inalterabile, si diventa coscienti di se stessi come quello che si è. Eppure, si può farne a meno! Ecco, qui, v’è un aut-aut. Lascia che ti parli come non ti parlerei mai se qualcun altro ci ascoltasse, perché in un certo senso io non ho il diritto di farlo e perché parlo piuttosto solo del futuro. Se non vuoi scegliere, se vuoi continuare a divertire la tua anima colla frivolezza e colla vanità delle spiritosaggini, fallo pure; abbandona la tua casa, emigra, va a Parigi, datti al giornalismo, fa la corte al sorriso di donne sdolcinate, rinfresca il loro sangue ardente colla frescura delle tue battute di spirito, fa che l’orgoglioso compito della tua vita sia di scacciare la noia delle donne senza cuore o gli oscuri pensieri dei gaudenti smidollati; dimentica di essere stato un fanciullo, un fanciullo devoto, innocente, sii sordo a ogni voce più elevata nel tuo petto, assopisci la tua vita nella brillante meschinità delle serate di gala, dimentica che in te abita uno spirito immortale, dissipa la tua anima fino all’estremo; e quando poi le battute di spirito taceranno, rimane ancora acqua nella Senna, polvere da sparo nelle botteghe e neppure la compagnia di viaggio ti mancherà. Ma se non puoi farlo, se non vuoi farlo — e né lo puoi né lo vuoi fare — allora tirati su, soffoca ogni pensiero ribelle che osi l’alto tradimento contro il tuo essere migliore, disprezza ogni meschinità che ti invidia le tue doti di spirito perché le desidera per sé, per farne un uso ancor peggiore; disprezza l’ipocrita profondità che sopporta di mala voglia il peso della vita e pretende ancora di essere onorata per questo; ma non disprezzare la vita, onora ogni sforzo lodevole, ogni modesta attività, che umile si nasconde; e abbi, sopratutto, un po’ più di rispetto per la donna; credimi, è proprio da lei che viene la salvezza, come è certo che la perdizione viene dall’uomo. Sono un marito, e quindi parte in causa; ma è mia ferma convinzione che se alcune donne hanno gettato l’uomo nella corruzione, esse hanno anche lealmente ed onestamente cercato di rimediare e continuano a farlo; poiché di cento uomini che si sviano nel mondo, novantanove vengono salvati dalle donne, uno solo vien salvato da immediata grazia divina. È dell’uomo sviarli in un modo o nell’altro; eppure anch’egli deve tornare a riposarsi nella pace pura e innocente dell’immediatezza, che è caratteristica della donna. Se qualche volta la donna lo allontana, essa compensa largamente il danno recato.

Cosa ti rimane dunque da fare? Un altro forse ti consiglierebbe: « sposati ed avrai altro da pensare! ». È vero; ma bisogna chiedersi se la cosa ti giova. Qualunque sia il modo in cui tu giudichi l’altro sesso, so che sei troppo cavalleresco per sposarti per questa sola ragione. Inoltre se non puoi tenere a freno te stesso, difficilmente troverai qualcun altro che sia in grado di farlo. O ti si potrebbe anche consigliare: « cerca una posizione, gettati nella vita degli affari, lavora; questa è la cosa migliore, ti distrarrà, facendoti dimenticare la tua malinconia ». Forse ti riuscirebbe di arrivare al punto di credere d’averla dimenticata; ma non l’hai dimenticata; improvvisamente proromperà più terribile che mai; e forse allora sarà in grado di fare quello che non ha saputo fare finora : prenderti di sorpresa. Inoltre: qualunque cosa tu pensi della vita e del lavoro, tu sei troppo cavalleresco con te stesso per sceglierti una posizione per questa ragione; sarebbe una specie di falsità come sarebbe una falsità quella di sposarsi per questa ragione. Allora che ti rimane da fare? Ho una risposta sola: « dispera! ».

Io sono un marito, la mia anima è attaccata fermamente e irremovibilmente a mia moglie, ai miei figli, a questa vita di cui loderò sempre la bellezza. E se dico, dispera, non sono un giovane esaltato che ti vuole gettare nel vortice delle passioni, né un demone sarcastico che beffa i naufraghi con questo conforto. Non lodo la disperazione come una consolazione, o come uno stato in cui tu debba rimanere. Essa è una missione per la quale occorre tutta la forza, la serietà e la coerenza dell’anima ed è la mia convinzione, la mia vittoria sul mondo, che, chi non abbia assaporato l’amarezza della disperazione, non ha compreso il significato della vita, anche se la sua vita è stata quanto mai bella e quanto mai ricca di gioie. Tu non commetti nessun tradimento verso quel mondo nel quale vivi, non sei perso, per esso, anche se l’hai superato colla disperazione; così anch’io confido di essere un buon marito nonostante che abbia disperato io pure.

Quando considero la tua vita in questo modo ti stimo felice; poiché in verità è della massima importanza che un uomo nel momento della disperazione non sbagli nel considerare la vita; commettere uno sbaglio è altrettanto pericoloso per lui come per la partoriente. Colui che dispera per qualche cosa di particolare, corre il pericolo che la sua disperazione non sia vera e profonda, che sia un disappunto, un dolore per il particolare. Non devi disperare cosí, poiché non sei stato defraudato di nulla di particolare, tu hai ancora tutto. Se chi dispera si inganna, se crede che l’infelicità stia nel molteplice al di fuori di lui, la sua disperazione non è vera e lo condurrà ad odiare il mondo, non ad amarlo; poiché come è vero che il mondo per te è ora un peso, perché è come se volesse essere per te qualche cosa di diverso da quello che può essere, cosí è anche vero che quando tu nella disperazione hai trovato te stesso, l’amerai, perché è quello che è. Se è colpa, peccato o una cattiva coscienza che conduce l’uomo alla disperazione, forse egli avrà delle difficoltà a ritrovare la sua gioia. Disperati dunque, con tutta la tua anima e con tutto il tuo spirito; più rinvii, più dure saranno le condizioni, e l’esigenza rimane sempre la stessa. …

Scegli dunque la disperazione, poiché la disperazione stessa è una scelta. Si può dubitare senza scegliere il dubbio, non si può disperare senza scegliere la disperazione. E mentre si dispera, si sceglie di nuovo. E cosa si sceglie? Si sceglie se stessi, non nella propria immediatezza, non come questo individuo casuale, ma si sceglie se stessi nel proprio eterno valore. Mi sforzerò di spiegare meglio questo punto riguardo a te. Nella nuova filosofia si è parlato, più che a sufficienza, del fatto che tutta la speculazione comincia col dubbio; d’altra parte io, quando occasionalmente mi son potuto occupare di queste meditazioni, ho inutilmente cercato degli schiarimenti per sapere in che cosa il dubbio sia diverso dalla disperazione. Qui cercherò di mettere in evidenza questa di differenza, sperando che essa giovi ad orientarti in senso teorico e pratico. Son ben lontano dal credere di avere un vero estro filosofico, non ho il tuo virtuosismo nello scherzare colle categorie, ma quello che in senso più profondo è il significato della vita, potrà certo esser compreso anche da chi è più ingenuo. Il dubbio è la disperazione del pensiero, la disperazione è il dubbio della personalità; e per questo tengo tanto alla determinazione della scelta, che è diventata il mio motto, il nerbo della mia concezione di vita; e ho una concezione di vita, anche se non pretendo affatto di avere un sistema. Il dubbio è il movimento interno del pensiero stesso, e nel mio dubbio mi comporto più impersonalmente che posso. Supposto che il pensiero, quando il dubbio si completa, trovi l’assoluto e si riposi in lui, esso riposa in lui non in seguito ad una scelta ma in seguito alla stessa necessità per cui dubitava; poiché il dubbio stesso è una determinazione di necessità, e così pure il riposo. Questo è il sublime del dubbio: ciò per cui esso tanto spesso è stato vantato e lodato da gente che non capisce nemmeno quello che dice. Ma proprio il fatto che sia una determinazione di necessità dimostra che non tutta la personalità è compresa nel movimento. Dice perciò qualche cosa di molto vero chi dice: crederei volentieri, ma non posso, bisogna che dubiti. Perciò si vede anche spesso che chi dubita può tuttavia possedere in sé un valore positivo, che sta fuori di ogni rapporto col suo pensiero; questi può, ad es., essere una persona coscienziosissima, che non dubita affatto del valore del dovere come regola della sua azione e i cui sentimenti di umana simpatia non sono affatto toccati dal dubbio. D’altra parte si vedono, specialmente ai nostri giorni, persone che hanno la disperazione in cuore, anche se hanno vinto il dubbio. Questo mi fu palese specialmente nel considerare alcuni dei filosofi tedeschi. Il loro pensiero è tranquillo, il pensiero logico oggettivo si è acquietato nella sua corrispondente oggettività; eppure essi sono disperati anche se si distraggono colla speculazione oggettiva. L’uomo infatti può distrarsi in molti modi, e non vi è un narcotico migliore della speculazione astratta, perché ciò che in essa è necessario è di mantenersi più impersonali che sia possibile. Il dubbio e la disperazione stanno dunque di casa in due sfere completamente diverse; sono corde assai diverse dell’anima che vengono messe in movimento. Ma questa conclusione non mi soddisfa affatto, perché il dubbio e la disperazione vengono in questo modo coordinati, e questo non deve avvenire. La disperazione è un’espressione molto più profonda e completa, il suo movimento è molto più ampio di quello del dubbio. La disperazione è l’espressione di tutta la personalità, il dubbio solo del pensiero. La presunta obiettività del dubbio, che lo rende tanto aristocratico, è proprio un’espressione della sua imperfezione. Il dubbio sta perciò nella differenza, la disperazione nell’assoluto. Per dubitare occorre del talento, ma per disperare non ne occorre affatto. Ma il talento come tale è una differenza, e quello che per farsi valere esige una differenza, non sarà mai l’assoluto; perché l’assoluto può solo essere l’assoluto per l’assoluto. L’uomo più insignificante, meno intelligente può disperare, una fanciulla, che è tutto meno che un pensatore, può disperare, mentre ognuno capisce facilmente quanto sia sciocco dire che essi sono dei dubbiosi. Se il dubbio di un uomo si acquieta, e egli però dispera e rimane in questo stato, questo significa che egli non vuole la disperazione in senso più profondo. Non si può assolutamente disperare senza volerlo; ma per disperare per davvero si deve per davvero volere la disperazione; ma quando la si vuole veramente, allora per davvero si è fuori dalla disperazione; quando veramente si ha scelto la disperazione, si ha scelto per davvero quello che la disperazione sceglie: si ha scelto se stessi nel proprio valore eterno. Solo nella disperazione la personalità è acquietata; non con necessità (perché non dispero mai necessariamente), ma con libertà, e solo così vien conquistato l’assoluto. A questo riguardo, penso che la nostra epoca farà un progresso, se posso permettermi una opinione sulla nostra epoca, dato che la conosco solo dalla lettura dei giornali e da qualche libro o dai miei colloqui con te. Non è lontano il giorno in cui, forse a caro prezzo, si esperimenterà che il vero punto di partenza per trovare l’assoluto non è il dubbio ma la disperazione.

Pure, ritorno alla mia categoria (non sono un logico, e ho solo una categoria, ma ti assicuro che è la scelta del mio cuore e del mio pensiero, la delizia della mia anima e la mia beatitudine): ritorno all’importanza dello scegliere. Quando dunque scelgo in modo assoluto, scelgo la disperazione, e nella disperazione scelgo l’assoluto poiché io stesso sono l’assoluto; io pongo l’assoluto e sono l’assoluto stesso; ma come perfettamente identico ad esso devo dire: io scelgo l’assoluto che sceglie me, io pongo l’assoluto che pone me; poiché se non ricordo che quest’altra espressione è altrettanto assoluta, la mia categoria dello scegliere è falsa, perché è proprio l’identità di ambedue. Quello che scelgo non lo pongo, perché se non fosse posto non lo potrei scegliere; eppure, se non lo ponessi nell’atto della scelta, non sceglierei realmente. Esso è, poiché se non fosse, non lo potrei scegliere; non è, perché diventa solo in quanto lo scelgo: altrimenti la mia scelta sarebbe illusione. Ma che cosa è dunque che scelgo? E questa cosa o è quell’altra? No, perché io scelgo in modo assoluto, e scelgo in modo assoluto proprio in quanto ho scelto di non scegliere questa o quella cosa. Io scelgo l’assoluto. Ma cos’è l’assoluto? Sono io stesso nel mio eterno valore. Altro all’infuori di me stesso non potrò mai scegliere come assoluto; poiché se scelgo qualche cosa d’altro lo scelgo come una cosa finita, e perciò non lo scelgo in modo assoluto. …

Ma cosa è questo me stesso? Se volessi parlare di un primo momento, di una sua prima espressione, la mia risposta sarebbe : è la cosa più astratta di tutte, che nello stesso tempo in sé è la più concreta — è la libertà. Lasciami introdurre una piccola osservazione psicologica. Si sente spesso la gente esprimere la propria insoddisfazione e lamentarsi della vita; spesso la si sente desiderare qualche cosa. Immagina ora un povero diavolo (lasciamo da parte i desideri capricciosi che qui non hanno nulla da insegnarci, perché sono completamente immersi nel casuale). Ecco i suoi desideri : avessi lo spirito del tale, od il talento del talaltro, ecc., anzi per arrivare al massimo: avessi la fermezza di quel tale. Simili desideri si sentono pronunciare assai spesso, ma hai mai sentito che alcuno desiderasse seriamente di poter diventare un altro? Ne è anzi talmente lontano che è proprio caratteristico di quelle che si chiamano individualità infelici di aggrapparsi tenacissimamente a se stesse, tanto che, nonostante tutte le loro sofferenze, per nessuna ragione al mondo vorrebbero essere degli altri. Ciò ha il suo motivo nel fatto che queste individualità sono molto vicine alla verità e sentono l’eterno valore della personalità, non nella sua benedizione, ma nel suo tormento. Anche se devono rinunciare alla gioia, preferiscono tuttavia rimanere se stessi. Ma anche colui che ha molti desideri intende sempre rimanere se stesso, anche se le circostanze mutano. Dunque in lui vi è qualche cosa di assoluto in rapporto a tutto il resto, qualche cosa per cui egli è quello che è, anche se il cambiamento sopraggiunto col realizzarsi del suo desiderio sia stato il più grande immaginabile. L’espressione più astratta di questo « se stesso » che lo rende quello che è non è altro che la libertà. Per questa via si potrebbe realmente giungere ad una plausibilissima dimostrazione dell’eterno valore della personalità. Perfino un suicida propriamente non vuole sbarazzarsi di se stesso; quello che lui desidera è solo un’altra forma di se stesso. Perciò si potrà anche trovare un suicida che sia convinto al massimo grado dell’immortalità dell’anima. Ma il suo essere è così accecato che con questo passo egli crede di trovare la forma assoluta per il suo spirito.

Pure, la ragione per cui ad un individuo può parere che egli si possa costantemente trasformare, pur rimanendo sempre se stesso, come se il suo essere più profondo fosse una grandezza algebrica che potesse indicare quello che si vuole, è che egli si trova in una posizione falsa, che non ha scelto se stesso e non ne ha una idea; eppure anche nella sua incomprensione vi è un riconoscimento dell’eterno valore della personalità. Per chi invece si trova in una posizione giusta le cose vanno diversamente. Egli sceglie se stesso, non in senso finito, poiché allora questo «io» diventerebbe una cosa finita che si mescolerebbe colle altre cose finite, ma in senso assoluto: eppure egli sceglie se stesso e non un altro. Questo « io », che egli così sceglie, è infinitamente concreto, poiché è lui stesso; eppure è assolutamente diverso dal suo «io» precedente, poiché egli l’ha scelto in modo assoluto. Questo « io » non esisteva prima, poiché venne creato colla scelta; eppure esisteva poiché era « lui stesso ».

La scelta qui rende i due movimenti dialettici in una volta: quello che vien scelto non esiste e vien creato dalla scelta; quello che vien scelto esiste, altrimenti non sarebbe una scelta. Infatti, se quello che io scelgo non esistesse ma divenisse in modo assoluto colla scelta, non sceglierei, ma creerei; ma io non creo me stesso, scelgo me stesso. Mentre perciò la natura è creata dal nulla, mentre io stesso come personalità immediata sono creato dal nulla, come spirito libero sono nato dal principio fondamentale della contraddizione, nato per il fatto di aver scelto me stesso.

Chi sceglie se stesso scopre che quell’io che egli sceglie ha una infinita molteplicità in sé. Esso ha una storia; una storia nella quale egli riconosce la sua identità con se stesso. Questa storia presenta diversi aspetti, poiché in questa storia egli sta in relazione con altri individui della stirpe e con tutta la stirpe; e questa storia contiene qualche cosa di doloroso. Eppure egli è ciò che è solo attraverso questa storia. Perciò ci vuole del coraggio per scegliere se stesso; poiché, mentre pare che egli si isoli più intensamente che mai, nello stesso tempo egli si sprofonda più che mai in quella radice per la quale è congiunto al tutto. Questo lo preoccupa eppure deve essere così: infatti quando l’ardore della libertà si è risvegliato in lui (e si è risvegliato nella scelta, così come esso presuppone se stesso nella scelta), egli sceglie se stesso e la lotta per questo possesso come per la propria suprema salvezza, e questa è la sua suprema salvezza. Egli non può rinunciare a nulla di tutto questo, né al dolore più forte, né alle fatiche più gravi; eppure l’espressione di questa lotta, di questa conquista è il pentimento. Col pentimento ritorna in se stesso, ritorna nella famiglia, ritorna nella stirpe, finché trova se stesso in Dio. Sceglie se stesso mentre si rinnega, rinnega se stesso mentre si sceglie. Solo a questa condizione egli può scegliere se stesso; e questa è l’unica condizione che egli vuole, perché solo così può scegliere se stesso in modo assoluto. Cosa è mai l’uomo senza amore? Ma vi sono molte qualità di amore; amo mio padre diversamente da mia madre, mia moglie diversamente ancora, ed ogni diverso amore ha una sua diversa espressione; ma vi è anche un amore col quale amo Dio, e questo ha un’espressione sola nella lingua : il pentimento. Se non l’amo cosí, non lo amo in modo assoluto con tutto il mio essere più profondo. Ogni amore diverso per l’assoluto è un malinteso. Quando io tento di cogliere l’assoluto con la passione del pensiero (anche questo è un amore per l’assoluto, che io lodo), non è più l’assoluto che io amo, non amo in modo assoluto. Questo amore per Dio è infatti necessario. Ma non appena amo liberamente, e amo Dio, non posso far altro che pentirmi. E se non vi fosse nessun’altra ragione perché l’espressione del mio amore per Dio fosse pentimento, basterebbe il fatto che egli mi ha amato per primo. Ma anche questa è una definizione imperfetta, poiché solo quando scelgo me stesso come colpevole scelgo me stesso in modo assoluto, se la mia scelta deve essere una scelta e non coincidere con una creazione. Anche se fosse il peccato del padre ad andare in eredità al figlio, egli si pente anche di quello, perché soltanto così può scegliere se stesso, scegliersi in modo assoluto; e anche se le lacrime dovessero quasi distruggerlo, egli continua a pentirsi, poiché solo così sceglie se stesso. E come se il suo io fosse fuori di lui e dovesse essere conquistato, il pentimento è il suo amore per esso, perché lo sceglie in modo assoluto dalla mano del Dio eterno. …

Non si conviene amare una fanciulla come se fosse la propria madre, e la propria madre come fosse una fanciulla; ogni amore ha la sua particolarità. L’amore per Dio ha la sua assoluta particolarità e la sua espressione è il pentimento. E, cosa è mai ogni altro amore a paragone di questo? Solo un balbettio infantile. Non sono un giovane eccitato che cerchi di raccomandare le sue teorie, sono un marito e certo non tremo se mia moglie mi sente dire che ogni amore a paragone col pentimento è solo un balbettio; eppure so di essere un buon marito, « io che come marito ancora lotto sotto le vittoriose bandiere del primo amore ». So che essa condivide la mia convinzione, e per questo l’amo ancor di più; e perciò non vorrei essere amato da quella tale fanciulla, perché essa non condivide la mia convinzione. …

Nella scelta della disperazione scelgo dunque « me stesso ». Mentre io dispero, come dispero di ogni altra cosa, dispero anche di me stesso; ma l’io di cui dispero è una cosa finita, come ogni altra cosa finita, e l’io che scelgo è l’io assoluto, o il mio io secondo il suo valore assoluto. Questo è il motivo profondo per cui io dicevo e continuo a dire che l’aut-aut tra la vita estetica e la vita etica non è un dilemma perfetto, perché solo un termine può venir scelto e l’altro sorge dal fatto di non scegliere. …

Dispera dunque, e la tua leggerezza non ti farà più vagabondare come uno spirito incostante, come un fantasma, tra le rovine di un mondo che pure è perso per te; dispera, e il tuo spirito non sospirerà mai più nella malinconia, poiché il mondo diventerà nuovamente bello e pieno di gioie per te, anche se lo vedrai con occhi diversi da prima, e il tuo spirito divenuto libero si innalzerà fino al mondo della libertà.

Qui potrei interrompere; perché ti ho condotto al punto che volevo; ormai dipende da te. Vorrei che tu ti liberassi dalle illusioni dell’estetica e dai sogni di una mezza disperazione per risvegliarti alla serietà dello spirito. Potrei interrompere, ma non ne ho l’intenzione, poiché voglio farti considerare la vita da questo punto di vista e presentarti la concezione etica. Sono solo cose modeste che ho da offrirti, in parte perché il mio talento non è affatto all’altezza del compito, in parte perché la modestia è una delle principali qualità di ogni etica, una qualità che è molto appariscente per chi viene dall’abbondanza dell’estetica. Qui vale il detto: nihil ad ostentationem, omnia ad conscientiam. Se qui mi interrompessi, potrebbe essere sospetto, anche per il motivo che facilmente sembrerebbe che anch’io finisco in una specie di quietismo, in cui la personalità deve riposare, colla medesima necessità del pensiero, nell’assoluto. Cosa importerebbe allora aver conquistato se stesso, cosa importerebbe aver ricevuta una spada che può conquistar tutto il mondo, quando non se ne vuol fare altro uso che infilarla nel fodero? …

Avviciniamoci ora di più ad alcune delle condizioni di vita, specialmente a quelle in cui etica e estetica si toccano, per riflettere se la considerazione etica ci derubi di qualche bellezza, o se piuttosto non doni a tutto una più alta beltà. Immagino perciò un determinato individuo, un uomo comunissimo, ma un uomo nella sua particolare concretezza. Voglio proprio essere prosaico. Quest’uomo deve mangiare e bere, vestirsi, avere un’abitazione, in breve, deve esistere. Forse si rivolgerà a un esteta per poter sapere come si debba comportare nella vita. E le informazioni non gli mancheranno. Questi gli direbbe forse: « Quando si è soli occorrono circa 3.000 talleri all’anno per vivere comodamente; se si dispone di 4.000 talleri si adoperano anche questi; se ci si vuole sposare occorrono per lo meno 6.000 talleri. Il denaro è e sarà sempre nervus rerum gerendarum, la vera conditio sine qua non. È bello leggere della parsimonia campestre, della modestia idilliaca; questi scritti mi piacciono ma di questo modo di vivere ci si stanca presto; e quelli che vivono in questo modo, non godono la loro vita nemmeno la metà di quelli che hanno del denaro e se ne stanno con tutta comodità a leggere i poemi degli scrittori. Il denaro è e sarà sempre la condizione assoluta per vivere. Non appena si è senza denaro, si vien esclusi dal numero dei patrizi, e si diventa e si rimane plebei. La condizione è il denaro, ma non ne consegue affatto che ognuno che abbia del denaro lo sappia adoperare. Quelli che lo sanno fare sono i veri ottimati tra i patrizi ». Ma evidentemente il nostro eroe non è soddisfatto di questa spiegazione; tutta la saggezza degli altri non lo commuove, ed egli si sente come un passero a un ballo di gru. Se infatti egli dicesse all’esteta : « questo va bene, ma io non ho né 3.000 né 6.000 talleri all’anno, non ho proprio nulla, né capitale né rendita, nulla del tutto, quasi nemmeno un cappello da mettere in testa », questi scrollerebbe le spalle e direbbe: « questo è un altro discorso, non vi rimane altro da fare che mettervi a lavorare ».

Se l’esteta fosse molto bonario, forse con un cenno richiamerebbe il povero diavolo e gli direbbe: « non voglio che vi diate alla disperazione prima di aver tentato le ultime risorse; vi sono alcuni mezzi di salvezza che non bisogna lasciare intentati, prima di dire addio per sempre alla gioia, di fare i voti e di mettersi la camicia di forza. Sposate una ragazza ricca, giocate al lotto, andate nelle colonie, cercate in due anni di accumulare del denaro, cercate di attirarvi il favore di un vecchio scapolo perché vi faccia suo erede. Per il momento i nostri cammini sono divisi; procuratevi il denaro ed in me troverete sempre un amico che saprà dimenticare che una volta eravate senza denaro ». Ma in una concezione di vita come questa vi è qualche cosa di terribilmente spietato; è odioso spegnere a sangue freddo ogni gioia di vivere in tutti coloro che non hanno denaro. Ed è questo che fa l’uomo avido di denaro, perché egli pensa che senza denaro non vi sia nessuna gioia nella vita. Se io ora ti volessi mettere in un fascio con questi esteti, se ti accusassi di nutrire o di esprimere simili pensieri, ti farei un grave torto. Infatti il tuo cuore è troppo buono per dar dimora a tali bassezze, e la tua anima è troppo generosa per esprimere questi pensieri, anche se tu li avessi.

Non penso che chi non ha denaro abbia bisogno di esser commiserato, ma mi pare che il meno che si possa pretendere da chi crede di essere favorito dalla fortuna, è che non se ne inorgoglisca, e non senta il desiderio di mortificare gli altri che non sono stati altrettanto favoriti. Lascia pure che l’uomo sia orgoglioso; in nome di Dio, sarebbe meglio che non lo fosse, ma lascia pure che lo sia; ma che non sia orgoglioso del suo denaro, poiché non vi è nulla che degrada tanto l’uomo. Ora tu sei abituato ad avere del denaro e sai bene cosa voglia dire. Tu non offendi nessuno, in questo sei diverso da quegli esteti. Aiuti volentieri dove puoi, anzi, quando fai risaltare quanto sia miserevole non avere del denaro, lo fai spinto da simpatia. Il tuo scherno perciò non è diretto agli uomini, ma all’esistenza in genere nella quale è stato disposto che non tutti abbiano del denaro. Tu dici: « Innegabilmente Prometeo ed Epimeteo erano molto intelligenti, ma è incomprensibile che mentre rifornivano gli uomini tanto abbondantemente, non sia loro venuto in mente di fornirli di denaro ». Se tu fossi stato presente allora, e avessi saputo quello che sai adesso, ti saresti fatto avanti e avresti detto: «O buoni Dei, vi ringraziamo per tutto questo, ma — perdonatemi se parlo tanto francamente con voi — non avete conoscenza del mondo; perché l’uomo possa essere felice gli manca ancora una cosa — ed è il denaro. A che serve ch’egli sia stato creato per comandare tutto il mondo, se non ha il tempo di farlo per colpa delle preoccupazioni materiali? Cosa significa mettere al mondo una creatura razionale per poi farla lavorare e sfacchinare? Che modo è questo di trattare l’uomo?» Su questo punto sei inesauribile. « La maggior parte degli uomini », dici, « vive per avere il pane quotidiano; quando l’ha avuto vive per avere un buon pane quotidiano; e quando ha ottenuto anche questo, muore. » Con genuina commozione perciò lessi qualche tempo fa nel giornale un annuncio col quale una moglie annunciava la morte di suo marito. Invece di lamentarsi prolissamente sul doloroso fatto di aver perduto il migliore dei mariti e il padre più affettuoso, si esprimeva molto brevemente: questa morte era tanto dolorosa perché suo marito proprio da poco tempo era riuscito a procurarsi una buona posizione. In questo sta molto più di quello che la vedova addolorata o il solito lettore di annunci sul giornale vi veda. Questa considerazione si lascia sviluppare come una dimostrazione dell’immortalità dell’uomo. La si potrebbe enunciare cosí : la missione di ogni uomo è quella di trovare un buon sostentamento. Se egli muore prima di averlo trovato, non ha realizzato la sua missione, e ognuno è indotto a credere che egli, in un altro mondo, debba realizzarla. Se egli invece raggiunge una buona posizione, e realizza la sua missione, la sua stessa missione non può volere ch’egli muoia, ma anzi, che egli viva e goda della sua buona posizione: ergo l’uomo è immortale. Questa dimostrazione la si potrebbe chiamare la dimostrazione popolare o la dimostrazione coll’argomento della posizione. Se questa dimostrazione la si aggiunge a tutte le precedenti, ogni dubbio assennato intorno all’immortalità dovrebbe esser liquidato. Questa dimostrazione la si può benissimo mettere in relazione colle precedenti, anzi, qui si mostra proprio nella sua piena gloria, perché come conclusione si allaccia alle altre e le dimostra. Le altre dimostrazioni partono dal principio che l’uomo è un essere ragionevole; se qualcuno dovesse dubitarne, la dimostrazione coll’argomento della posizione gli verrebbe in aiuto e dimostrerebbe questo postulato col seguente sillogismo: Dio dà la ragione a colui al quale concede una buona posizione; all’uomo cui concede una buona posizione Dio dà, ergo, la ragione. Tutto questo la vedova addolorata l’ha sentito confusamente, ha sentito quanto di profondamente tragico vi sia nelle contraddizioni della vita. » Riguardo a questo problema non sai far altro che tirar fuori dello scherno. Probabilmente non pensi nemmeno che la tua concezione possa essere utile o istruttiva per qualcuno. Ma neppure immagini che con queste tirate tu possa fare del male. Un uomo infatti che già sente disgusto abbastanza per esser costretta a lavorare per vivere, sentendo l’ardore non privo di spirito, col quale tu difendi il suo segreto pensiero, ascoltando il tuo scherno piccante, diventerebbe ancora più impaziente, ancor più indignato. Dovresti perciò star bene attento a quello che dici.

Sulla via battuta fin qui il nostro eroe cercherà invano dei consigli. Sentiamo ora cosa gli risponderebbe un moralista. La sua risposta sarebbe la seguente: è dovere di ogni uomo lavorare per vivere. Se non avesse altro da dire probabilmente interloquiresti: « ecco le vecchie chiacchiere intorno a l’eterno dovere; dappertutto e sempre dovere! non ci si può immaginare nulla di più noioso di questo letto di Procuste che soffoca e opprime ogni forma di vita ». Ricordati, di grazia, che il nostro eroe non ha denaro, che quell’esteta senza cuore non ne aveva da donargli, e che anche tu non ne hai di troppo, da potergli assicurare l’avvenire. Se egli dunque non vuol mettersi a sedere a pensare cosa avrebbe fatto se avesse avuto denaro, bisogna che pensi a un’altra via d’uscita. Osserva inoltre che l’uomo etico gli si rivolge con tutta cortesia, non lo tratta come una eccezione, non gli dice: « Dio buono, dato che siete tanto sfortunato, cercate di abituarvi ». Al contrario, considera l’esteta un’eccezione, e afferma: è dovere di ogni uomo lavorare per vivere; se per un uomo questo non è necessario, è un’eccezione, ma il fatto di essere un’eccezione non è qualcosa di grande ma una cosa meschina. Perciò quando l’uomo vuol considerare la questione eticamente, vedrà il fatto di avere del denaro come un’umiliazione. Quando egli lo vede in questo modo, egli non si ingannerà circa i favori del destino. Egli si umilierà dei favori ricevuti, e fatto questo, sarà nuovamente elevato dal pensiero che l’esser stato favorito gli impone un più alto compito.

Quando l’individuo etico, presso il quale il nostro eroe cercò degli schiarimenti, sa personalmente quel che significhi lavorare per vivere, le sue parole hanno un peso anche maggiore. Sarebbe desiderabile che gli uomini, a questo riguardo, avessero maggior coraggio; la ragione per cui si sente tanto spesso difendere ad alta voce la spregevole opinione che il denaro sia la cosa principale, risiede nel fatto che coloro che devono lavorare mancano della forza etica che occorre per riconoscere l’importanza del lavoro, mancano della convinzione etica della sua importanza. Quelli che nuocciono al matrimonio non sono i seduttori, ma i mariti vili. Così anche qui. Quei discorsi spregevoli non fanno del male, ma fanno del male coloro che, costretti a lavorare per vivere, un momento riconoscono l’utilità del lavoro, e poi, subito dopo, si lamentano, invidiano la vita oziosa, sospirano e dicono: « la cosa più bella però è di essere indipendenti ». Che stima può avere per la vita un giovane, quando sente gli anziani parlare in questo modo! Anche qui hai danneggiato te stesso con tutti i tuoi esperimenti, perché sei venuto a sapere molte cose che non sono affatto buone né allegre. Tu sai molto bene tentare l’uomo per fargli confessare che nel profondo del suo cuore egli preferirebbe di non lavorare, e così trionfi. …

Il dovere di lavorare per vivere esprime l’universale umano, e lo esprime anche nel senso che è una manifestazione della libertà. Proprio col lavoro l’uomo si rende libero; col lavoro signoreggia la natura, col lavoro mostra che sta più in alto della natura.

Perde forse la vita la sua bellezza, perché l’uomo deve lavorare per vivere? Sono ancora al vecchio punto: cosa si intende per bellezza? È bello vedere che i gigli nei campi, benché non filino e non tessano, sono vestiti più splendidamente di Salomone in tutta la sua pompa; è bello vedere gli uccelli trovare senza affanno il loro nutrimento; è bello vedere Adamo ed Eva nel paradiso, dove potevano avere tutto quello che volevano; ma è più bello ancora vedere un uomo che col suo lavoro conquista quello che gli abbisogna. E bello vedere la provvidenza che sazia tutti e pensa a tutto; ma è più bello ancora vedere un uomo che è, per così dire, la propria provvidenza. In questo modo l’uomo è più grande di ogni altra creatura, nel provvedere a se stesso. E bello vedere un uomo che ha dell’abbondanza di cui si è provveduto da sé; ma è bello anche vedere un uomo che opera il miracolo più grande, di trasformare il poco in molto. E una espressione della perfezione umana che l’uomo sappia lavorare; ed è un’espressione anche più alta, che egli debba lavorare.

Se il nostro eroe vorrà adottare questa concezione, egli non si sentirà indotto a desiderare una sostanza acquistata dormendo, non si sbaglierà sulle condizioni della vita, sentirà la bellezza del lavorare per vivere, sentirà in ciò la sua dignità di uomo: non costituisce la grandezza della pianta che essa non tessa, ma è la sua imperfezione, che essa non possa tessere. Egli non sentirà il desiderio di stringere amicizia con quel ricco esteta. Mediterà sulla vera grandezza e non si lascerà impressionare dalle persone danarose. …

Allora forse il nostro eroe si deciderà a lavorare, ma vorrebbe esser liberato dalle preoccupazioni materiali. Io non ho mai avuto preoccupazioni materiali; sebbene in certo modo io debba lavorare per vivere, ho sempre avuto dei proventi abbondanti; perciò non posso parlare per esperienza, ma ho sempre avuto gli occhi aperti per quello che in questo v’è di triste, ma anche gli occhi aperti per quello che v’è di bello, di educativo, di nobilitante; perché credo che non vi sia preoccupazione altrettanto educativa. Ho conosciuto uomini che io non chiamerei affatto vili o effeminati; uomini che non pensano affatto che la vita debba trascorrere senza lotta, che sentono d’aver forza, coraggio e voglia di lottare là dove altri cederebbero; ma ho anche sentito che dicono: purché Dio mi liberi da preoccupazioni materiali! Non vi è nulla che maggiormente soffochi ciò che di più elevato è nell’uomo. In occasione di questi discorsi ho spesso pensato (ciò che anche la mia vita tanto spesso mi ha dato occasione di riconoscere) che non vi è nulla di così infido come il cuore umano. Si ha il coraggio di arrischiarsi nelle lotte più pericolose, ma non si vogliono affrontare le preoccupazioni materiali; ciò nonostante si pretende che sia merito più grande vincere questa lotta piuttosto di quella. Ma questo è troppo facile; si sceglie una lotta più facile che agli occhi della gente sembra più pericolosa; si fa credere a se stessi che sia vero; si vince e si è un eroe, e un eroe ben diverso da chi vince in quell’altra lotta meschina, indegna di un uomo. Davvero, quando oltre alle preoccupazioni materiali si ha nel proprio intimo un nemico nascosto come questo con cui lottare, non è meraviglia se si desidera farla finita con questa lotta. Però bisognerebbe essere tanto onesti verso se stessi da confessare il motivo per cui si voleva schivare questa lotta: che essa è molto più dura di ogni altro combattimento; ma se è così, anche la vittoria è molto più bella. …

La lotta per il sostentamento materiale ha questo di sommamente educativo, che la ricompensa è assai meschina, anzi, non esiste; si lotta per procurarsi la possibilità di poter continuare a lottare. Più è grande, esteriore, la ricompensa della lotta, tanto più il lottatore s’affida a tutte le ambigue passioni che albergano in ogni uomo. Ambizione, vanità, orgoglio, sono forze che hanno una elasticità enorme e possono spingere l’uomo lontano; chi lotta per le preoccupazioni materiali vede presto che queste passioni lo abbandonano, perché come può credere che una lotta come la sua possa interessare gli altri, o destare la loro ammirazione? Se egli non possiede altre forze è perduto. La ricompensa è molto piccola; perché quando ha lavorato, servito e faticato, sarà riuscito soltanto a procacciarsi il necessario — il necessario per mantenersi in vita, per poter di nuovo lavorare e faticare. Ecco perché le preoccupazioni materiali sono tanto nobilitanti ed educative, perché non permettono che l’uomo inganni se stesso. …

Dunque il nostro eroe ora è pronto a lavorare, non perché per lui è una necessità, ma perché egli la ritiene la cosa più bella e perfetta. (Che egli giudichi a questo modo perché dopo tutto, non può cambiare la sua sorte, è uno degli equivoci sciocchi e maligni, che pongono il valore dell’uomo fuori di lui, nel casuale.) Ma proprio perché vuol lavorare, il suo lavoro potrà diventare un lavoro e non una schiavitù. Egli perciò esige un’espressione più alta per il suo lavoro, un’espressione che indichi la relazione del suo lavoro colla sua persona e con quella degli altri uomini, un’espressione che caratterizzi il lavoro come la sua gioia e, nello stesso tempo, come la sua dignità. Qui è necessaria un’altra, riflessione. Certo il nostro giovane troverà che è al di sotto della sua dignità rivolgersi all’esperto gentiluomo dei 3.000 talleri : ma il nostro eroe non è diverso dalla maggior parte degli uomini. Egli è stato si preso per tempo, ma però ha assaporato le prime dolcezze del vivere estetico, ed egli è, come la maggior parte degli uomini, ingrato. Cosí nonostante che sia stato il moralista ad aiutarlo nelle sue precedenti difficoltà, non è a lui che si rivolge per primo. Forse, nel suo intimo è fiducioso che il moralista, alla fin fine, lo potrà aiutare di nuovo a tirarsi d’impaccio; perché il nostro eroe non è poi tanto meschino da non riconoscere di buon grado che il moralista veramente l’ha aiutato ad uscire dalle sue difficoltà, benché non avesse del denaro da dargli. Egli, dunque, si rivolge a un esteta un po’ più umano. Forse anche questi saprà esporgli qualche cosa intorno all’importanza del lavoro: senza lavoro alla fine la vita diventa noiosa. « Il proprio lavoro però », egli osserva, « non dev’essere lavoro nel senso più stretto, ma deve sempre poter venire considerato come piacere. Si scopre in sé qualche talento aristocratico, col quale distinguersi dalla massa. Questo lo si educa non alla leggera (perché altrimenti ci si stanca troppo presto), ma con ogni serietà estetica. Così la vita acquista un nuovo significato, perché uno ha trovato il proprio lavoro, un lavoro che, a dir la verità, è il proprio piacere. Colla propria indipendenza lo si cura, perché esso, indisturbato dalla vita, si possa sviluppare in tutto il suo rigoglio. Questo talento pertanto non lo si fa diventare un legno che ci tiene a galla nel naufragio della vita, ma un’ala colla quale ci si eleva sopra la terra; non lo si fa diventare un robusto cavallo da soma, ma un cavallo da parata. » Il nostro eroe purtroppo, non ha nessun talento aristocratico: è un uomo comunissimo, come tutti gli altri. Allora l’esteta non sa trovare nessun’altra via d’uscita per lui che quella « di accontentarsi di trovarsi coinvolto nel triviale destino della massa di essere una macchina da lavoro. Non si perda di coraggio; anche questo ha la sua importanza ed è molto dignitoso e lodevole. Divenga un uomo bravo e laborioso, un membro utile della società. Fin d’ora mi compiaccio di vederla nel suo lavoro perché quanto più è varia la vita, tanto più è interessante per lo spettatore. E per questo che io e tutti gli esteti detestiamo l’uniforme: sarebbe troppo noioso veder tutti vestiti alla stessa maniera! Così se ognuno sceglie la sua professione nella vita, questa diventa tanto più bella per me e per i miei compagni che per professione osserviamo la vita ». Spero che il nostro eroe diventi un po’ impaziente a essere trattato in questo modo, che si indigni della sfacciataggine di una simile suddivisione degli uomini. Si aggiunga poi che anche la concezione di questo esteta presupponeva quell’indipendenza che egli non ha.

Forse non si saprà ancora decidere a rivolgersi al moralista e farà ancora un altro tentativo. Incontra un tale che dice: « bisogna lavorare per vivere, ormai la vita è stata stabilita così ». Qui gli pare di aver trovato quello che cerca, perché questa è proprio anche la sua opinione. E farà attenzione alle sue parole. Quello continua: « Bisogna lavorare per vivere, ormai la vita è stata stabilita così; questo è l’aspetto banale dell’esistenza. Si dormono sette ore al giorno, è tempo perso, ma dev’essere così; si lavorano cinque ore al giorno, è tempo perso, ma dev’essere così. Con cinque ore di lavoro si ha di che sostentarsi, e, risolto questo problema, si comincia a vivere. E preferibile che il proprio lavoro sia quanto mai noioso ed insignificante; deve infatti solo bastare per il sostentamento. Se si hanno delle doti speciali, non si commetterà mai verso di queste il peccato di farle divenir sorgente di lucro. No, bisogna accarezzare il proprio talento, lo abbiamo per noi stessi, esso ci dà più gioie di quante un bambino ne dia alla propria madre; lo si educa, lo si sviluppa nelle dodici ore del giorno, si dorme per 7 ore, si è inumani per cinque; e così la vita diventa abbastanza sopportabile, anzi quasi bella; perché non saranno poi tanto terribili quelle cinque ore di lavoro, poiché, dato che i propri pensieri non sono mai nel lavoro, si raccolgono le forze per quell’occupazione che è il proprio piacere ».

Il nostro eroe è sempre allo stesso punto. Non ha nessuna dote speciale per riempire le 12 ore che è in casa; inoltre ha già una concezione più bella del lavoro, una concezione che non vuole abbandonare. Allora forse si deciderà a cercar di nuovo l’aiuto del moralista. Questi parla brevemente : «è un dovere di ogni uomo avere un mestiere». Di più non può dire. L’etica come tale è sempre astratta; ma un mestiere in abstracto non esiste per tutti gli uomini; al contrario ogni uomo, secondo la concezione etica ha un mestiere particolare. Quale mestiere debba scegliere il nostro eroe? Su questo il moralista non lo può illuminare. Per far questo è necessaria una conoscenza profonda dell’estetica in tutta la sua personalità; e anche se il moralista avesse questa conoscenza si asterrebbe dallo scegliere per un altro, poiché egli, a questo modo, rinnegherebbe la sua concezione di vita. Il moralista insegna soltanto che esiste una vocazione per ognuno, e quando il nostro eroe ha scelto la sua, egli gli raccomanda di sceglierla eticamente. Quello che l’esteta infatti diceva intorno ai talenti aristocratici, è un parlare confuso e scettico di quello che l’etica chiama mestiere. La concezione dell’esteta vede la vita dal punto di vista della differenza: alcuni hanno talento, altri non l’hanno. Eppure quello che li divide, a guardar bene, è un più o un meno, una determinazione quantitativa. Per questo è una arbitrarietà, in questo più o meno, voler fermare un punto nel quale il talento dovrebbe cominciare a cessare; eppure il nerbo della loro concezione di vita sta proprio in questa arbitrarietà. La loro concezione di vita perciò mette in tutta l’esistenza una discordia, che essi non si sentono in grado di togliere, mentre con leggerezza e freddezza tentano di armarsi contro ad essa. L’etica, al contrario, cerca di conciliare l’uomo colla vita, poiché dice: ogni uomo ha un mestiere. Essa non annulla le differenze, ma dice: in tutte le differenze v’è un universale, e in esso si fondano i vari mestieri. Il talento più eminente è un mestiere, e l’individuo che lo possiede non può perder di vista la realtà, non può porsi fuori dell’universale umano, perché il suo talento è un mestiere. Anche l’individuo più insignificante ha un mestiere; egli non dev’essere espulso, non dev’essere mandato a vivere tra le bestie, non sta al di fuori dell’universale umano, perché ha un mestiere.

Il principio etico, che ogni uomo ha un mestiere esprime l’esistenza di un ordine razionale delle cose in cui ognuno, se vuole, riempie il suo posto in modo da esprimere insieme l’universale umano e l’individuale. Con questa considerazione è diventata meno bella la vita? No di certo. Al posto di una aristocrazia il cui significato è fondato arbitrariamente sulla differenza casuale del talento, abbiamo piuttosto un regno di Dei. In quale concezione la vita ci mostra un aspetto più bello e più lieto?

Non appena il talento non è più concepito come mestiere (se viene concepito come mestiere, ogni uomo ha un mestiere) esso diviene assolutamente egoistico. Perciò ognuno che giustifica il suo modo di vivere in virtù di un talento, difende, come meglio può, un’esistenza da usurpatore. Egli non ha un’espressione più alta per il talento se non quella che è un talento. Questo talento vuol dunque mettersi in mostra come qualcosa di particolare, di eccezionale. Ogni talento perciò propende a divenire il centro dell’esistenza, e ogni condizione deve esser utilizzata per favorirlo; perché solo in questa selvaggia corsa in avanti sta il vero godimento estetico del talento. …

Il nostro eroe cosí ha trovato quello che cercava, un lavoro di cui vivere. Nello stesso tempo questo lavoro ha acquistato un significato più profondo per la sua personalità: è il suo mestiere e il suo perfezionamento soddisfa tutta la sua personalità. Egli infine è entrato, mediante il suo lavoro, in un rapporto ben più importante cogli altri uomini; siccome il suo lavoro è il suo mestiere, egli con questo è messo sullo stesso gradino, in quello che è essenziale, con tutti gli altri uomini; egli cosí, col suo lavoro, esercita il suo mestiere, come tutti gli altri. Egli esige questo riconoscimento, altro non esige, perché questo è l’assoluto. «Se il miomestiere è meschino » dice, « pure posso essere fedele al mio mestiere, e cosí, per l’essenziale, sono grande come il più grande, senza per questo essere, anche un solo istante, tanto sciocco da voler dimenticare le differenze; io stesso lo sconterei più degli altri, perché se le dimenticassi, vi sarebbe un mestiere astratto per tutti, ma un mestiere astratto non è un mestiere, e io avrei di nuovo perduto tanto quanto i più grandi. Se il mio mestiere è meschino, pure posso essergli infedele, e se lo sono, commetto un peccato altrettanto grande di quello che commette l’uomo più grande. Non sarò tanto sciocco da dimenticare le differenze o da credere che la mia infedeltà debba avere delle conseguenze tanto corruttrici per il tutto come l’infedeltà del più grande; finirei con scordarlo, perché io stesso sarei quello che con ciò perderebbe di più. »

La concezione etica, che ogni uomo ha un mestiere, ha perciò due vantaggi nei confronti della teoria estetica del talento. Essa mostra che non vi è nulla di casuale nell’esistenza, ma solo l’universale, e quest’ultimo lo mostra nella sua vera bellezza. Perché il talento è bello solo quando è interpretato come mestiere, e la vita è bella solo quando ognuno ha un mestiere. Siccome le cose stanno cosí, ti pregherei di non disdegnare una piccola osservazione empirica, che tu in rapporto alla concezione principale avrai la bontà di considerare superflua. Quando qualcuno ha un mestiere, è lieto di avere nella vita una norma al di fuori di sé, che, senza renderlo uno schiavo, pure approssimativamente gli mostra quello che deve fare. Egli sa come suddividere il suo tempo, sa quando deve cominciare. Se una volta non ha successo, spera di poter far meglio un’altra volta, e la prossima volta non è molto lontana nel tempo. Chi invece non ha nessun mestiere, se vuole porsi un compito, molto sovente deve lavorare ben altrimenti. Non ha nessuna interruzione nel lavoro, a meno che voglia interrompersi da sé. Se non vi riesce, tutto va a monte, e fa grandissima fatica a ricominciare di nuovo, poiché gli manca l’occasione. Allora è facilmente portato a diventare un pedante, per non diventare un fannullone. E assai comune accusare di pedanteria le persone che hanno dei compiti determinati, di regola persone del genere non possono assolutamente diventare pedanti. Chi invece non ha compiti determinati, è portato a diventarlo, per far da contrappeso alla troppo grande libertà, nella quale facilmente si può sperdere. Gli si perdona facilmente la sua pedanteria, perché è segno di qualche cosa di buono: ma d’altra parte deve essere considerata una punizione, perché ha voluto emanciparsi dall’universale. …

Ritorniamo al nostro eroe. E strano, ma né tu, né io, né egli stesso, né il perspicace esteta abbiamo osservato che il nostro eroe possiede un talento straordinario. La spiritualità nell’uomo può esser latente per un lungo periodo, fino a che la sua silenziosa crescita è giunta a un certo punto in cui improvvisamente si annuncia in tutto il suo rigoglio. L’esteta dirà: « ormai è troppo tardi, ormai è rovinato, peccato per lui! ». Il moralista invece direbbe: «è stato proprio un bene, poiché ora che ha capito il vero, il suo talento non potrà più diventare una trappola davanti al suo piede; vedrà che non occorre né indipendenza né cinque ore di lavoro da schiavi per lasciarlo crescere in pace, ma che il suo talento è proprio il suo mestiere ».

Il nostro eroe lavora dunque per vivere; questo lavoro è anche il suo piacere; egli attua il suo mestiere, compie il suo lavoro, e, per dirla in parole che a te fan orrore, ha di che sostentarsi. Non perdere la pazienza: invece dei doni alati della poesia egli ha ottenuto un buon stipendio con cui vivere dignitosamente. E poi? Sorridi; pensi che io abbia ancora qualche cosa da dire; inorridisci già temendo la mia prosaicità ed esclami: « ora non rimane altro che farlo sposare; ecco, prego, fategli subito le pubblicazioni, io non avrò nulla da obiettare al suo ed al tuo pio proposito. È incredibile quale logica assennata vi sia nella esistenza: di che vivere e una moglie; perfino quel poeta ci canta a chiare note che dopo il pane quotidiano ci vuole la moglie. Voglio protestare per una cosa sola, che tu chiami eroe il tuo cliente. Sono stato molto docile e compiacente, non l’ho voluto condannare irrevocabilmente, ho sempre sperato in lui, ma ora mi devi proprio scusare se me ne vado per la mia strada e non ho più voglia di ascoltarti. Ho ogni stima per l’uomo che si guadagna da vivere e per il marito, ma non chiamarlo eroe, e speriamo che nemmeno lui pretenda di esserlo ». Con ciò vorresti dire che per poter esser chiamato eroe sia necessario qualche cosa di straordinario. In questo caso hai veramente delle magnifiche probabilità. Supponiamo che ci voglia molto coraggio per fare le cose più comuni (chi mostra molto coraggio è un eroe, lo sappiamo). Perché uno possa essere chiamato un eroe, non bisogna tanto riflettere a quello che fa quanto al modo in cui lo fa. Uno può conquistare regni e paesi senza essere un eroe, un altro invece nel signoreggiare il suo carattere può rivelarsi un eroe. Uno può mostrare coraggio facendo cose straordinarie, un altro facendo cose comuni. Ciò che importa è il modo in cui agisce. Non vorrai negare che il nostro eroe ha mostrato finora una certa inclinazione per fare cose straordinarie; anzi non oso ancora garantire del tutto per lui. Su questo, probabilmente, hai fondato la tua speranza che egli divenga un vero eroe; per questo io ho temuto che egli divenga un buffone. Io ho mostrato per lui la stessa indulgenza tua, fin dal principio ho sperato in lui, l’ho chiamato eroe benché parecchie volte avesse dato segno di volersi rendere indegno di questo titolo. Perciò se riesco a farlo sposare, lo lascio tranquillamente scappar dalle mie mani e lo affido contento a quelle di sua moglie. A causa della sua precedente insubordinazione egli si è qualificato in modo da essere messo sotto particolare sorveglianza. Questo lavoro lo assumerà sua moglie, e tutto andrà bene; poiché ogni volta che si sentirà tentato ad essere una persona straordinaria sua moglie immediatamente lo orienterà di nuovo, e cosí egli, in tutta calma, meriterà il nome di eroe, e la sua vita non sarà senza prodezze. E cosí io non ho più altro da fare con lui; a meno che egli non si sentisse attratto verso di me, cosí come anch’io mi sentirei attratto verso di lui, se egli persegue nel suo eroico cammino. Così in me vedrà un amico, e la nostra relazione avrà il suo significato. Egli si saprà rassegnare quando tu ti ritirerai da lui, tanto più che facilmente potrebbe diventargli un po’ sospettoso, il tuo compiacimento e il tuo interessamento. A questo riguardo gli faccio i miei auguri ed auguro la medesima fortuna ad ogni marito.

Ma siamo ancora ben lontani da quella conclusione. Tu puoi ancora sperare un pochino e io, per parte mia, devo ancora temere un pochino. Il nostro eroe infatti è un uomo come tutti gli altri, e ha perciò una certa tendenza per lo straordinario; nello stesso tempo è un po’ ingrato, e perciò vorrà di nuovo cercare la sua fortuna presso gli esteti, prima di cercar rifugio presso il moralista. Egli sa, naturalmente, abbellire la sua ingratitudine; poiché, egli dice : « il moralista veramente mi tolse dal mio imbarazzo; la concezione che vede il senso della vita nell’agire la devo a lui e mi soddisfa pienamente; la sua serietà mi eleva. Invece per quel che riguarda l’amore, mi piacerebbe godere la mia libertà, seguire del tutto gli impulsi del mio cuore; all’amore non piace la grave serietà, esso esige la grazia e la leggerezza dell’esteta ».

Vedi, ho ancora parecchi guai da sormontare con lui. Pare quasi che non abbia capito quanto precede. Egli continua a credere che l’etica stia al di fuori dell’estetica, e questo, nonostante che egli stesso debba confessare che è per la concezione etica che la vita acquista la sua bellezza. Ma stiamo a vedere! ed ora soffia un po’ nel fuoco, così a me non mancheranno le deviazioni.

Benché tu non abbia mai risposto a una mia lettera precedente, né verbalmente né per iscritto, credo che ricorderai il suo contenuto. Cercai di mostrare che il matrimonio, proprio per il suo carattere etico, è l’espressione estetica più esatta dell’amore. Probabilmente mi farai credito se io spero di poter persuadere il nostro eroe con assai minor fatica di quella che impiegai per renderti comprensibile questa mia concezione. Egli si è rivolto agli esteti e li ha poi abbandonati; da loro ha imparato non quello che deve fare, ma piuttosto quello che non deve fare. È stato per breve tempo testimone dell’astuzia di un seduttore, ha ascoltato i suoi viscidi discorsi, ma ha imparato a disprezzare la sua arte, ha imparato a indovinare i suoi pensieri, a vedere che è un bugiardo, un bugiardo quando finge amore, quando si diletta di sentimenti nei quali forse una volta c’era della verità, quando appartenevano a un’altra; egli è due volte mentitore, verso quella alla quale vuol far credere di nutrire questi sentimenti, e verso quella alla quale appartengono di diritto; ed è un bugiardo quando fa credere a se stesso che nel suo piacere vi sia qualche cosa di bello. Ha imparato a disprezzare l’astuto scherno che dell’amore vuol fare un gioco da bambini, che fa solo ridere. …

Per breve tempo si è lasciato cullare dalla sfiducia nella vita, che gli vuol insegnare che tutto è vanità, che il tempo cambia ogni cosa, e che non bisogna fidarsi di costruire in nessun luogo, e perciò non far mai dei piani per tutta la vita. La pigrizia e la viltà in lui trovarono questa saggezza accettabilissima : è un abito comodo con cui rivestirsi, e non disdicevole agli occhi degli uomini. Ma quando l’ha considerata più a fondo, vi ha visto dentro l’ipocrisia, la frenesia del piacere nelle vesti dell’umiltà, la bestia da preda vestita da pecora, e ha imparato a disprezzarla. Ha compreso che è offensivo, e perciò non bello, voler amare una persona seguendo le forze oscure nel proprio essere, e non seguendo la coscienza; voler amare in modo che si possa pensare la possibilità della fine di questo amore, e che poi si osi dire: io non ci posso fare nulla, i sentimenti non sono in potere dell’uomo. Ha capito che è offensivo, e perciò brutto, voler amare con una parte dell’anima, e non con tutta l’anima; far del proprio amore un momento, e ciononostante prendere tutto l’amore di un altro; voler essere in un certo grado, un mistero e un segreto. Ha compreso che sarebbe brutto se avesse cento braccia per poterne in una volta abbracciare molte; egli ha un petto solo e desidera abbracciare solo una donna. Ha compreso che sarebbe un’offesa volersi legare a un’altra persona come ci si lega alle cose finite e casuali, condizionatamente, perché si possa, qualora si mostrassero delle difficoltà, togliersi d’impiccio. Egli non crede che sia possibile che colei ch’egli ama possa cambiarsi se non in meglio; e se questo dovesse succedere, egli crede nella potenza della relazione perché tutto ritorni ad essere come prima. Riconosce che quello che l’amore esige è come la tassa del tempio, un’imposta sacra che si paga con una moneta siffatta che tutta la ricchezza del mondo non basta a far da contrappeso se il conio è falso.

Come vedi, il nostro eroe è sulla buona strada. Ha perso la fede nella indurita assennatezza degli esteti e non crede più al mito degli oscuri sentimenti, che sarebbero troppo delicati per venir tradotti in dovere. Si è accontentato della spiegazione datagli dal moralista, che è dovere di ogni uomo sposarsi; e ha compreso bene, che colui che non si sposa, non è colpevole se non in quanto rifiuta liberamente il matrimonio; in questo caso egli pecca contro ciò che è universalmente umano, che anche per lui costituisce un compito da tradurre in realtà; e ha compreso che l’universale si realizza nel matrimonio. Il moralista non può portarlo oltre, perché l’etica, come dicemmo, è sempre astratta, e può indicargli solo l’universale. Cosí non gli può affatto dire con chi si debba sposare. Per far ciò dovrebbe avere una esatta conoscenza di tutta l’estetica in lui; ma il moralista non l’ha e, anche se l’avesse, si guarderebbe bene dal distruggere le proprie teorie coll’assumersi lui la scelta. Perciò quando ha scelto, l’etica sanzionerà la scelta e darà al suo amore la consacrazione più alta. In un certo grado può essergli d’aiuto anche nello scegliere, poiché lo libererà dalla superstizione della casualità (una scelta soltanto estetica è propriamente una scelta infinita e quindi casuale). Inconsciamente l’etica è d’aiuto ad ogni uomo, ma siccome agisce inconsciamente, l’aiuto dell’etica prende l’aspetto di una svalutazione, quasi esprimesse solo la meschinità della vita, mentre è un elevamento, che mette in valore la divinità della vita.

« Un uomo con questi ottimi principi » dici, « lo si potrà certo lasciar andare per conto suo; da lui non ci si può più attendere nulla di grande. » Anch’io sono di questa opinione, e spero che i suoi principi siano tanto solidi da non venir scossi dal tuo scherno. Però vi è ancora una pericolosa scogliera intorno alla quale dobbiamo navigare, prima di essere in porto. Il nostro eroe infatti ha sentito un uomo del cui giudizio e del cui sapere egli ha grande stima, dire: siccome col matrimonio ci si lega per tutta la vita ad una persona, bisogna esser molto prudenti nella scelta; bisogna cercare una ragazza fuori dell’ordinario, che proprio per le sue doti straordinarie ci dia affidamento per tutto il nostro avvenire. Questo ragionamento ha fatto il suo effetto. Non ti vien voglia di sperare ancora un po’ per il nostro eroe? Io per conto mio temo per lui.

Esaminiamo la cosa fino in fondo. Tu credi che nel solitario silenzio del bosco abiti una ninfa, un essere, una fanciulla. Orbene, questa ninfa, questa fanciulla, questo essere abbandona la sua solitudine ed appare qui a Kopenhagen. .. Quando essa è apparsa, il nostro eroe è diventato il fortunato al quale essa ha donato il proprio amore. Dobbiamo trovarci d’accordo su questo? Io non ho nulla da obiettare, perché sono già sposato. Tu invece forse ti sentirai un poco offeso perché un uomo tanto comune è stato preferito a te. Ma siccome ti interessi anche del mio cliente, e questa è l’unica via che gli rimanga per diventar un eroe ai tuoi occhi, gli concedi il tuo consenso. Vediamo ora se il suo amore, il suo matrimonio diventano anch’essi una cosa bella. L’essenza del suo amore e del suo matrimonio sta nel fatto che la fanciulla è l’unica in tutto il mondo. L’essenza sta dunque nella sua eccezionalità; felicità pari alla sua non la si può trovare al mondo, e proprio in questo sta la sua felicità. Egli è tentato a non volersi affatto sposare con lei: non sarebbe una profanazione di questo amore cosí eccezionale dargli un’espressione cosí comune e volgare come il matrimonio? Non sarebbe impudente esigere che due amanti come questi debbano entrare nella grande compagnia del matrimonio, di modo che, in un certo senso, non vi sarebbe altro da dire di loro, se non quello che si dice di ogni coppia di sposi, cioè che sono sposati? Questo probabilmente lo troverai molto ben detto, e l’unica obiezione che avresti da fare sarebbe che è ingiusto che un pezzente come il mio eroe debba portar via una fanciulla come quella; se egli invece fosse stato un uomo straordinario, come sei per esempio tu, o un uomo straordinario quanto lo è lei, tutto sarebbe a posto, e la loro relazione amorosa sarebbe la più perfetta che si possa pensare.

Il nostro eroe si è messo in una situazione critica. Intorno alla fanciulla vi è un parere solo: è una fanciulla straordinaria. Ma però, il nostro eroe ha egli stesso riconosciuto la bellezza del matrimonio. Cosa ha dunque da obiettare al matrimonio? Lo deruba forse di qualche cosa? Toglie bellezza a lei? Toglie qualche differenza tra lei e le altre donne? Niente affatto. Ma gli mostra tutto questo come casualità fin che non si è sposati. Solo quando si scorge anche nell’eccezione l’espressione dell’universale, se ne prende saldamente possesso. L’etica gli insegna che la relazione è l’assoluto. La relazione è infatti l’universale. Gli toglie la gioia vanitosa di essere lo straordinario, per dargli la vera gioia di essere l’universale. Lo mette in armonia con tutta l’esistenza; gli insegna a rallegrarsi di essa. Come eccezione, egli è in conflitto con l’esistenza: se la sua felicità è quella di essere fuori dell’universale, egli deve divenir cosciente della propria esistenza come di un tormento per l’universale — e deve in verità essere una sfortuna essere tanto fortunato che la propria fortuna, vista propriamente, è diversa da quella di tutti gli altri. Come eccezione egli acquista la bellezza casuale e perde la vera bellezza. Egli lo comprenderà e ritornerà al postulato etico, che è dovere di ogni uomo lavorare e sposarsi; e vedrà così che non solo ha la verità dalla sua, ma anche la bellezza. Lascia dunque che egli abbia quella meraviglia; non verrà ingannato dalle differenze. Si rallegrerà intimamente per la bellezza, per la grazia, per la ricchezza dello spirito, e per il calore dei sentimenti che essa possiede, sentirà di essere felice, ma essenzialmente, dirà, non sono diverso da qualunque altro marito; « perché la relazione è l’assoluto ». Supponiamo che abbia una fanciulla meno dotata; sarà ugualmente contento della sua fortuna, perché dirà: « anche se essa sta molto al di sotto di tante altre, essenzialmente mi rende altrettanto felice, poiché la relazione è l’assoluto ». Egli non vuol disconoscere l’importanza della differenza. Come ha compreso che non esiste un mestiere astratto, ma che ognuno ha il suo, cosí comprenderà che non esiste nessun matrimonio astratto. Il moralista gli dice soltanto che si deve sposare, non gli può dire con chi. Il moralista gli indica l’universale nella differenza; egli accoglie la differenza nell’universale.

La concezione etica del matrimonio ha perciò diversi vantaggi di fronte ad ogni visione estetica dell’amore. Essa illumina l’universale non il casuale. Non mostra come una coppia di persone eccezionali possano diventar felici in virtù della loro eccezionalità, ma come lo può diventare ogni coppia di sposi. Vede la relazione come l’assoluto e non cerca nella differenza una garanzia, ma la concepisce come un compito. Vede la relazione come l’assoluto e perciò vede l’amore secondo la sua vera bellezza, cioè secondo la sua libertà, e cosí comprende anche la bellezza storica.

Il nostro eroe vive dunque del suo lavoro; il suo lavoro è anche il suo mestiere, perciò lavora con piacere; il suo mestiere lo mette in relazione con altre persone, e mentre compie il suo lavoro, compie quello che gli potrebbe desiderare di compiere nel mondo. È sposato, soddisfatto della sua casa, ed il tempo passa benissimo per lui, egli non capisce come il tempo possa essere un peso per l’uomo, o possa diventare un nemico della sua felicità, anzi, il tempo gli sembra che sia una vera benedizione. A questo riguardo egli confessa di dover moltissimo a sua moglie. E vero, credo di aver dimenticato di raccontarlo, è stata un equivoco la storia della ninfa della foresta; egli non fu il fortunato prescelto, dovette accontentarsi di una fanciulla come sono le fanciulle di solito, nello stesso senso in cui anch’egli è un uomo come tutti gli altri. Pertanto egli è molto contento ugualmente, anzi una volta mi confessò che crede che sia stata una fortuna non aver sposato quella meraviglia; il suo compito forse sarebbe stato troppo grande per lui; dove tutto è già perfetto prima di cominciare, è tanto facile combinare dei guai. Ora invece è pieno di coraggio, di fiducia e di speranza, è addirittura entusiasta, e mi dice con entusiasmo: è la relazione che è l’assoluto; egli è convinto sopratutto che la relazione avrà il potere di sviluppare in questa comune fanciulla tutto quello che vi è di bello e di grande; sua moglie con tutta modestia è dello stesso parere. Proprio, mio giovane amico, le cose di questo mondo sono ben strane; io non credevo proprio che vi fosse al mondo una meraviglia come quella di cui parli tu, ed ora quasi mi vergogno di non aver voluto credere, poiché questa comune fanciulla, colla sua grande fede, è una meraviglia, e la sua fede è più preziosa di tutto l’oro del mondo. Riguardo a una sola cosa rimango il vecchio incredulo, non credo cioè che una meraviglia come questa si possa trovare nella solitudine delle foreste.

Il mio eroe, — o vuoi negargli ancora il diritto a questo nome? Non ti pare che il coraggio che osa credere alla trasformazione di una semplice fanciulla in una meraviglia, sia un coraggio eroico? — ringrazia specialmente sua moglie perché il tempo ha preso un significato tanto bello per lui, e anche questo egli lo attribuisce, in un certo grado, al matrimonio, ed in questo siamo completamente d’accordo noi due mariti, lui ed io. Se avesse avuto quella ninfa dei boschi e non avesse osato sposarla, avrebbe temuto che il loro amore divampasse in pochi e rari momenti belli, ai quali sarebbero però seguiti dei fiacchi intervalli. Forse avrebbero desiderato vedersi solo quando la vista reciproca avrebbe potuto diventare veramente significativa; se questo qualche volta non si fosse verificato, egli teme che tutta la relazione, poco a poco, si sarebbe dileguata nel nulla. Invece il modesto matrimonio, che fa loro dovere di vedersi giornalmente, sian essi ricchi o poveri, ha avvolto tutta la relazione di una intimità e cordialità che lo rendono felice. Il prosaico matrimonio ha nascosto nel suo meschino incognito un poeta, che non solo illumina la vita in certe occasioni, ma che è sempre alla mano e colle sue fini note echeggia delicatamente anche nelle ore più squallide.

A questo riguardo, io condivido pienamente le idee del mio eroe intorno al matrimonio. Risultano bene evidenti i suoi vantaggi, non solo nei confronti del celibato, ma anche nei confronti di ogni relazione soltanto erotica. Quest’ultimo punto l’ha messo in luce in questo momento il mio nuovo amico, perciò io mi limito solo a commentare con due parole il primo punto. Per quanto intelligenti, attivi, entusiasti di un’idea si possa essere, giungono pure dei momenti in cui il tempo pare lungo. Tu schernisci molto spesso l’altro sesso; ti ho pregato sovente di farne a meno; considera pure una fanciulla come un essere quanto mai imperfetto; mi piacerebbe dirti: mio bravo sapientone, va dalla formica e diventa saggio, impara da una fanciulla a far passare il tempo, perché essa ha un virtuosismo innato per questo. Essa forse non ha una concezione del lavoro duro e continuo come l’uomo, ma non è mai disoccupata, è sempre affaccendata e non si annoia mai. Ne posso parlare per esperienza. A volte mi accade (ora però più raramente, perché ritengo dovere di un marito sforzarsi di essere, per quanto possibile, dell’età della moglie), a volte mi accade di starmene a oziare incantato. Ho finito il mio lavoro, non ho voglia di nessuna distrazione, uno sfondo melanconico nel mio temperamento ha il sopravvento su me; divento di molti anni più vecchio di quel che sono, divento quasi estraneo alla vita familiare, vedo bene che essa è bella, ma la vedo con occhi diversi dal solito; è come se io fossi un vecchio e mia moglie una mia sorella più giovane, sposata felicemente, nella casa della quale io sono un ospite. In momenti come questi le ore quasi cominciano a parermi assai lunghe. Se mia moglie fosse un uomo, forse accadrebbe a lei quello che accade a me, e forse ci fermeremmo tutti e due (il fermarsi di un orologio !); ma essa è una donna, ed in buoni rapporti col tempo. È una perfezione della donna, questo segreto rapporto in cui essa si trova col tempo, o è un’imperfezione? E perché essa è un essere più terreno dell’uomo, o perché ha più dell’eternità in sé? Rispondimi, tu che sei una testa filosofica. …

Quando sono nel mio studio, quando mi sento stanco, quando il tempo comincia a pesarmi, sguscio in salotto, mi siedo in un angolo, non dico una parola per timore di disturbarla nel suo lavoro, poiché benché questo sembri un gioco, procede con una dignità ed una convenienza che incutono rispetto, ed essa è ben lontana dall’essere quello che tu dici della signora Hansen, cioè una trottola, che gira intorno e che col suo rumore amplifica nel salotto la musica coniugale. …

La donna ha sopratutto un altro talento innato, una dote originaria : un assoluto virtuosismo per dar senso al finito. Quando fu creato l’uomo, eccolo signore e padrone di tutta la natura; tutto lo splendore e la magnificenza della natura, tutta la ricchezza delle cose finite non attendevano che il suo cenno, ma egli non sapeva cosa dovesse fare di tutto questo. Le guardava, ma era come se tutto sparisse allo sguardo dello spirito, era come se muovendosi con un solo passo dovesse passar oltre a tutto. Così egli stava, figura imponente, pensieroso, sprofondato in sé, eppure comico, poiché fa ridere questo uomo cosí ricco che non sa come usare la sua ricchezza; ma è anche tragico non poter usare ciò che si ha. Allora fu creata la donna. Essa non fu imbarazzata, seppe subito come affrontare questo problema; senza far difficoltà, senza preparativi, essa fu subito pronta per cominciare. Questa fu la prima consolazione che fu donata all’uomo. Essa si avvicinò all’uomo, felice come un bambino, umile come un bambino, triste come un bambino. Voleva soltanto essere un conforto per lui, lenire la sua nostalgia, una nostalgia che essa non capiva, che essa neppure pensava di colmare; voleva solo fargli passare il tempo. Ed ecco che il suo umile conforto divenne la gioia più ricca della vita, il suo innocente passatempo la bellezza più dolce della vita, il suo gioco infantile divenne il significato più profondo della vita. La donna capisce il finito, lo comprende fin nelle radici : per questo essa è adorabile, e tale, a guardar bene, è ogni donna; per questo è graziosa, e nessun uomo lo è; per questo è felice, come nessun uomo può o deve essere; per questo è in armonia coll’esistenza, come nessun uomo può o deve essere. Perciò si può dire che la sua vita è più felice di quella dell’uomo, poiché colui che spiega qualche cosa sarà più perfetto di colui che va in cerca di una spiegazione. La donna spiega le cose finite, l’uomo va a caccia di quelle infinite. Cosí deve essere, e ognuno ha il suo dolore; la donna partorisce con dolore, ma l’uomo concepisce le idee con dolore; la donna non conosce il terrore del dubbio o le pene della disperazione, essa non sta al di fuori delle idee, ma le riceve di seconda mano. Ma siccome la donna cosí spiega la finitezza, essa è la vita più profonda dell’uomo, una vita che deve esser nascosta e segreta, come è sempre la vita delle radici. Ecco perché odio quelle orribili chiacchiere sull’emancipazione della donna. Dio non permetta che ciò avvenga mai. Non ti posso dire quale dolore mi rechi questo pensiero quando penetra nel mio animo, e nemmeno che appassionata amarezza, che odio io nutra per tutti coloro che ardiscono pronunciare queste cose. Mi consolo vedendo che i difensori di questa sapienza non sono astuti come serpi, ma solo comuni imbecilli, le cui vuote chiacchiere non possono far del male. Perché se il serpe potesse inocularle questo veleno, se la potesse tentare con questo frutto apparentemente attraente, se questa epidemia dilagasse, se penetrasse fino a colei che io amo, fino a mia moglie, mia gioia, mio rifugio, radice della mia vita, il mio coraggio sarebbe spezzato, la passione per la libertà sarebbe infiacchita nel mio animo; e so cosa farei allora, mi siederei sulla piazza a piangere, a piangere come quell’artista il cui capolavoro era stato distrutto, e che non sapeva ricordare cosa rappresentasse. Ma questo non succederà, non può e non deve succedere; lascia che gli animi cattivi tentino, lascia che lo facciano quegli stupidi che non hanno nessuna idea di cosa sia un uomo, né della sua grandezza né della sua miseria, nessuna intuizione della perfezione che la donna realizza proprio nella sua imperfezione! …

Intanto io me ne sto a predicare e dimentico quello di cui dovrei veramente parlare, dimentico che è con te che devo parlare. Scusami; ti avevo completamente dimenticato a causa del mio nuovo amico. Vedi, con lui parlo volentieri di queste cose; perché egli non è uno schernitore ed è un marito, e solo chi ha occhi per la bellezza del matrimonio capisce la verità delle mie asserzioni.

Ora ritorno al nostro eroe. Credo che meriti questo titolo, però per l’avvenire non voglio più adoperarlo per lui; preferisco un’altra denominazione che mi è più cara, e con tutto il cuore lo chiamo mio amico, come con gioia io mi chiamo amico suo. Vedi, la sua vita l’ha provveduto di «quell’articolo superfluo che si chiama un amico». Tu credevi forse che avrei passato sotto silenzio l’amicizia, perché non ha nessuna importanza etica, ma cade completamente sotto determinazioni estetiche. Forse ti meraviglierà che io, volendone parlare, la menzioni solo ora: poiché l’amicizia è il primo sogno della gioventù; è proprio nella giovinezza che l’anima la ricerca, nella sua tenerezza e nel suo entusiasmo. Sarebbe perciò stato più giusto parlare dell’amicizia prima di permettere al mio amico di entrare nella condizione sacra del matrimonio. Potrei rispondere che, riguardo al mio amico, le cose stavano in un modo tanto strano che veramente egli, prima di sposarsi, non si era sentito attratto da nessuno al punto da chiamare amicizia quella relazione; potrei aggiungere che questo mi è stato caro, perché volevo trattare dell’amicizia per ultimo, perché non credo che l’etica in essa abbia lo stesso valore come nel matrimonio; e proprio in questo vedo la sua imperfezione. Questa risposta potrebbe parere insufficiente, perché si potrebbe pensare che il mio amico fosse casualmente anormale; per questo devo soffermarmi un po’ più diffusamente su questo argomento. Tu che sei un osservatore, confermerai la mia osservazione che le individualità si differenziano in modo caratteristico a seconda del periodo in cui cadono le loro amicizie, se nella primissima giovinezza o soltanto nell’età più avanzata. Le nature più incostanti non hanno difficoltà a trovarsi a loro agio in se stesse. Il loro io è, sin dal principio, moneta corrente, e subito avviene quella circolazione che si chiama amicizia. Le nature più profonde non hanno tanta facilità a trovare se stesse e, fintanto che non hanno trovato il loro io, non possono desiderare che qualcuno offra loro un’amicizia che non possono ricambiare. Queste nature in parte sono sprofondate in loro stesse, in parte sono osservatrici; ma un osservatore non è un amico. In questo modo si potrebbe spiegare come le cose sono andate per il mio amico. Non vi sarebbe nulla di anormale, e non sarebbe nemmeno un cattivo segno. Però s’è sposato. Ora ci chiediamo se non è una cosa anormale che l’amicizia sia apparsa soltanto dopo; poiché in quanto precede fummo d’accordo nel ritenere che è giusto che l’amicizia possa subentrare nell’età più matura; ma non parlammo della sua relazione col matrimonio. Approfittiamo ancora una volta delle tue e delle mie osservazioni. Dobbiamo accogliere nel nostro studio anche la relazione coll’altro sesso. A quelli che cercano la relazione d’amicizia nell’età molto precoce, sovente accade che, quando comincia a farsi valere l’amore, l’amicizia impallidisce completamente. Trovano che l’amicizia è una forma più imperfetta, rompono i rapporti precedenti e raccolgono tutta la loro anima esclusivamente nel matrimonio. Il contrario accade ad altri. Coloro che gustarono troppo presto le dolcezze dell’amore, forse ebbero una concezione errata dell’altro sesso, e forse divennero ingiusti. Colla loro leggerezza forse acquistarono amare esperienze, forse cedettero a sentimenti in loro che poi si mostrarono incostanti; o cedettero a sentimenti negli altri che scomparvero come un sogno. Così abbandonarono l’amore che era per essi, insieme, troppo e troppo poco, perché erano venuti in contatto colla dialettica dell’amore senza poterla sciogliere. Scelsero perciò l’amicizia. Ambedue queste formazioni devono esser considerate anormali. Il mio amico non è in nessuno di questi due casi. Egli non ha fatto giovanili tentativi nell’amicizia prima di imparare a conoscere l’amore, ma non ha neppure fatto del male a se stesso, col godere troppo presto il frutto acerbo dell’amore. Nel suo amore trovò la soddisfazione più profonda e completa; ma proprio perché egli stesso aveva raggiunto una quiete cosí completa, gli apparve la possibilità di altre relazioni che, in un modo diverso, potevano ricevere un significato profondo e bello per lui; poiché a chi ha, verrà dato, e avrà in sovrabbondanza. A questo riguardo, egli di solito ricorda che vi sono degli alberi in cui il fiore viene dopo il frutto oppure è anche contemporaneo ad esso. Egli paragona la sua vita a queste piante.

Ma proprio perché nel matrimonio, e per esso, egli imparò a vedere la bellezza dell’amicizia, non ha dubitato nemmeno un attimo su come bisogna considerare l’amicizia, e ha capito che questa perde la sua importanza quando non la si considera eticamente. Se le sue precedenti esperienze avevano quasi completamente annientata la sua fede negli esteti, il matrimonio ne ha estirpato anche l’ultima traccia nel suo animo. Egli perciò non ha sentito nessun bisogno di lasciarsi sedurre dai miraggi dell’estetismo, ma si è subito acquietato nella concezione dell’etica.

Se il mio amico non fosse stato di questo avviso, avrei provato piacere di mandarlo da te per punizione; quello che tu dici dell’amicizia è talmente contorto che probabilmente gli avresti fatto girare la testa. Ti accade coll’amicizia quello che ti accade con tutto. La tua anima manca talmente di concentrazione etica, che si possono aver da te, intorno alla stessa questione, opposte spiegazioni, e le tue osservazioni dimostrano perfettamente l’esattezza del detto che sentimentalismo e mancanza di cuore sono una cosa sola. La tua concezione dell’amicizia si può paragonare a una lettera magica : chi la vuole adoperare deve diventar pazzo come chi la cede, e fino ad un certo punto bisogna supporre che lo sia. Se ti si sente declamare quel che ti passa per il cervello, sulla divina gioia di amare i giovani, sulla bellezza dell’accordo delle anime che si incontrano, si è quasi tentati a temere che la tua sentimentalità ti costi la tua giovane vita. In altri momenti parli di nuovo come un vecchio praticante che abbia imparato abbastanza a conoscere il vuoto e la vacuità del mondo. «Un amico », dici allora, «è una cosa misteriosa, lo si vede, come una nebbia, solo a distanza, poiché soltanto quando si è infelici si comprende di aver avuto un amico. » È facile vedere che base di un simile giudizio sull’amicizia è una esigenza ben diversa da quella che avevi prima. Prima parlavi dell’amicizia intellettuale, della bellezza dell’amore spirituale, di una comune passione per le idee : ora parli di un’amicizia pratica nelle cose di questo mondo, di una reciproca assistenza nelle difficoltà della vita terrena. In entrambe queste esigenze vi è qualche cosa di vero, ma se non si può trovare il loro punto di unione, si è costretti a concludere con te che l’amicizia è un non senso. Questo è sempre il risultato al quale arrivi, sia che tu consideri singolarmente i diversi aspetti dell’amicizia, sia che tu provi la loro reciproca esclusione.

Condizione assoluta per l’amicizia è l’unità della concezione di vita. Quando essa esiste, non ci si sente tentati a voler giustificare la propria amicizia con sentimenti oscuri e con inspiegabili simpatie. E non succederà che l’amicizia sia, come il tempo, mutevole di giorno in giorno. Non si vuole disconoscere l’importanza dell’inspiegabile simpatia; infatti in senso rigoroso non si è amici di chiunque condivida la nostra concezione di vita. Ma non ci si deve nemmeno limitare alla mera simpatia in tutto il suo mistero. Una vera amicizia esige sempre la coscienza, ed è questo che la mette a un piano ben più alto dell’esaltazione.

La concezione di vita in cui si è concordi deve essere però una concezione positiva. Così il mio amico ed io abbiamo in comune una concezione positiva. Perciò, quando ci vediamo, non ci accade quello che accadeva a quegli auguri che si mettevano a ridere, quando si incontravano; noi ci guardiamo con serietà negli occhi. Era giustissimo che gli auguri ridessero, perché la concezione di vita che avevano in comune era negativa. Questo lo comprendi molto bene, perché è uno dei tuoi desideri esaltati di trovare un’anima in armonia alla tua colla quale ridere di tutto; «perché è terribile e angoscioso nella vita, che quasi nessuno si accorga di quanto è penoso stare al mondo; e di questi pochi solo pochissimi sanno mantenersi di buon umore e ridere di tutto ». Se non riesci ad appagare la tua aspirazione, ti sai rassegnare: « Il vero pessimista riconosce come conseguenza di tutta quanta la sua visione della vita, che egli, solo con se stesso, può ridere del mondo; se trovasse compagnia, il mondo non sarebbe poi tanto brutto ». Con questo ragionamento il tuo pensiero è messo in gran movimento, e non conosce limiti. Pensi che «perfino il ridere è solo un’espressione imperfetta del vero scherno sulla vita. L’irrisione più completa dovrebbe avvenire in serietà. Sarebbe lo scherno più perfetto del mondo se chi ha esposto la verità più profonda non fosse un esaltato, ma uno scettico. E non sarebbe nemmeno assurdo: nessuno sa esporre verità positive con tanto garbo come lo scettico, solo che egli stesso non vi crede. Se fosse un ipocrita ad esporle, finirebbe collo schernire se stesso; ma se è uno scettico, che forse desidererebbe credere a quello che espone, lo scherno è assolutamente obiettivo: l’esistenza schernirebbe attraverso se stessa. Egli espone una dottrina che potrebbe spiegare tutto, l’intero genere umano ci si potrebbe affidare; ma questa dottrina non può spiegare il proprio creatore. Se un uomo fosse tanto furbo da poter nascondere di esser pazzo, potrebbe far impazzire tutto il mondo ». Ecco, quando si ha una concezione di vita come questa, è difficile trovare un amico che la condivida. …

L’amicizia dunque esige una concezione di vita positiva. Ma non si può pensare una concezione positiva della vita che non abbia un momento etico in sé. Ai nostri giorni si trovano spesso delle persone che hanno adottato un sistema in cui l’etica non si trova affatto. Lascia che abbiano anche dieci sistemi, ma non hanno una concezione di vita. …

Se si considera l’amicizia eticamente, essa acquista nello stesso tempo bellezza e significato. Devo citare un’autorità per me contro te? Orbene, come concepiva l’amicizia Aristotele? La fece punto di partenza per tutta la concezione etica della vita, poiché coll’amicizia, dice, si amplifica il concetto del diritto, cosicché amicizia e diritto van per la stessa strada. Egli fonda così il concetto del diritto sull’idea dell’amicizia. La sua concezione è così, in un certo senso, più perfetta di quella moderna che fonda il diritto sul dovere, su di un astratto come l’imperativo categorico; egli lo fonda sulla società. Da questo è facile vedere che l’idea dello Stato diventa per lui il valore più alto; ma questo è un lato imperfetto della sua concezione.

Però non mi azzarderò ad entrare in ricerche così sottili come lo studio del rapporto tra la concezione etica aristotelica e quella kantiana. Citai Aristotele soltanto per ricordarti che anch’egli capiva che l’amicizia contribuisce a realizzare una visione etica della realtà.

Chi considera l’amicizia eticamente, la considera dunque come un dovere. Potrei perciò dire che è dovere di ognuno avere un amico. Però preferisco adoperare un’altra espressione, che mette in evidenza i comuni aspetti etici nell’amicizia e nel matrimonio, e insieme fa rilevare nettamente la differenza che passa tra etica e estetica : è dovere di ogni uomo manifestarsi. La Scrittura dice che ad ogni uomo tocca morire e poi apparire in giudizio, dove tutto diventerà manifesto. L’etica dice che il significato della vita e della realtà è che l’uomo diventi manifesto. Se egli non lo diventa, il suo manifestarsi apparirà come un castigo. L’esteta invece non vuol dar importanza alla realtà; egli rimane costantemente nascosto, poiché per quanto spesso e intensamente egli si dedichi al mondo, non lo fa mai totalmente, rimane sempre qualche cosa che egli tiene indietro; se lo facesse totalmente, sarebbe in un atteggiamento etico. Pure il voler giocare a nascondersi si sconta sempre e nel modo più naturale, col diventar misteriosi a se stessi. E per questo che tutti i mistici, quando non riconoscono l’esigenza che la realtà pone di diventar manifesti, si incontrano con difficoltà e tribolazioni quali nessun altro conosce. E come se scoprissero un mondo completamente diverso, come se il loro essere fosse sdoppiato. Chi non vuol combattere con le realtà, deve combattere coi fantasmi.

Con questo ho finito per questa volta. Non è mai stata mia intenzione esporti una dottrina del dovere. Volevo solo mostrarti come l’etica, nei diversi casi, non toglie affatto alla vita la sua bellezza, ma gliela dona. Dona pace, sicurezza, fiducia nella vita, perché ci grida costantemente: quod petis, hic est. Salva da ogni fantasticheria che voglia indebolire l’anima, e le dona salute e forza. Le insegna a non sopravalutare il casuale e a non idolatrare la felicità. Insegna ad esser contenti nella felicità, e, con una saggezza che l’esteta non conosce, insegna ad esser contenti nell’infelicità.

Considera ciò che ho scritto come insignificante, come delle note marginali agli elementi dell’arte di vivere; non importa. Ma ciò che ti ho scritto ha ugualmente un’autorità, che spero vorrai rispettare. O forse ti pare che io me la sia voluta accaparrare ingiustamente? Che io abbia fatto valere, senza tatto, la mia posizione borghese in questa faccenda? Che mi sia eretto giudice, mentre non son che una parte? Rinuncio volentieri ad ogni pretesa; di fronte a te non rappresento nemmeno una parte. Riconosco di buon grado che l’estetica potrebbe benissimo darti la procura per agire per conto suo, ma io sono ben lontano dal sentirmi cosí importante da agire quale procuratore per l’etica. Io non sono che un testimone e solo in questo senso attribuisco a questa lettera una certa autorità; poiché chi parla di quello che ha esperimentato può sempre parlare con autorità. Sono solo un testimone, e qui hai la mia testimonianza in ottima forma.

Esercito la professione di assessore in tribunale, sono contento del mio mestiere, credo che corrisponda alle mie facoltà ed a tutta la mia personalità, so che esige tutte le mie forze. Cerco di perfezionarmi sempre più, e, mentre lo faccio, sento anche che mi evolvo sempre più. Amo mia moglie, sono felice nella mia casa; ascolto le nenie che mia moglie canta alla culla, e il suo canto mi pare più bello di ogni canto, senza per questo credere che essa sia una cantante; sento gli strilli del piccolo che al mio orecchio non sono disarmoniosi; vedo il suo fratellino maggiore che cresce e progredisce e guardo contento e fiducioso verso il suo avvenire; non sono impaziente, perché ho tempo da attendere, e questa stessa attesa è una gioia per me. La mia opera ha importanza per me stesso e credo che, in un certo senso, l’abbia anche per altri, anche se non ne posso determinare e misurare esattamente la portata. Provo gioia perché la vita personale degli altri ha importanza per me, e spero e desidero che anche la mia ne possa avere per coloro i quali simpatizzano con tutta la mia concezione di vita. Amo la mia patria natale, e non posso immaginare di potermi trovare bene in nessun altro paese. Amo la mia lingua, che libera il mio pensiero, trovo che quello che posso avere da dire nel mondo lo posso esprimere magnificamente con essa. In questo modo la vita ha significato per me, tanto da sentirmene contento e soddisfatto. Nello stesso tempo vivo una vita più alta, e quando a volte accade che io respiri questa vita più alta nel respiro della mia vita terrena e familiare, mi stimo beato, e si fondono per me l’arte e la grazia. E così che io amo l’esistenza, perché è bella e ne spero una ancor più bella.

Ecco la mia spiegazione come testimone. Se dovesse sorgermi un dubbio se ho fatto bene a darla, sarebbe per riguardo a te: perché temo quasi che ti possa far male sentire che la vita nella sua semplicità possa esser tanto bella. Accetta però la mia testimonianza, lascia che ti cagioni un po’ di dolore, ma lascia anche che ti cagioni della gioia; ha una certa qualità di cui purtroppo è priva la tua vita: la fedeltà. Su di essa puoi costruire confidente.

Soren Kierkegaard (Aut-Aut), estratti pag. 56-65, 71-101,160- 209

Letteratura (art. Nietzsche contro Wagner – Friedrich Nietzsche)

Nietzsche contro Wagner (Friedrich Nietzsche)

Immagine nit-wag

PREMESSA.

I capitoli seguenti sono stati scelti e non senza cautela, dai miei scritti antecedenti (alcuni risalgono al 1877), resi qua e là più intelligibili, forse, e sopratutto abbreviati. Letti di sèguito non lasceran dubbio alcuno né su Riccardo Wagner né su me: noi siamo antipodi. Vi si vedrà ancor altro: si comprenderà, per esempio, che questo è un saggio per gli psicologi, ma punto pei tedeschi… Io ho i miei lettori per ovunque, a Vienna, a Pietroburgo, a Copenaghen, a Stoccolma, a Parigi, a New York – non li ho nel paese basso dell’Europa, in Germania… E avrei forse anche una parola da dire all’orecchio dei signori Italiani che io amo… Quosque tandem, Crispi… Triplice alleanza: con l’«Impero» un popolo intelligente non fa mai altro che una mésalliance…

DOVE AMMIRO.

Credo che spesso gli artisti non sanno quel che possono far di meglio: son troppo vanitosi per questo. La loro attenzione è diretta verso qualcosa di più fiero che non sembrino essere quelle piccole piante che, nuove rare e belle, san crescere sul loro suolo come vera perfezione. Essi vantano superficialmente quel che v’ha di veramente buono nel loro giardino, nella loro vigna, e il loro amore non è del medesimo ordine della loro intelligenza. Ecco un musicista il quale, maggiore di tutti gli altri, è maestro nell’arte di trovare accenti per esprimere le sofferenze, le oppressure e le torture dell’anima, ed anche per dare un linguaggio alla desolazione muta. Egli non ha eguali per render la colorazione d’una fine d’autunno, la felicità indicibilmente toccante d’ un’ultima gioia, veramente ultima e veramente breve; egli conosce un accento per quelle notti dell’anima, segrete ed inquietanti, ove causa ed effetto sembran disgiungersi, ove a ciascun istante qualcosa può sorgere dal «nulla». Meglio di qualsiasi altro egli attinge alle profondità dell’umana gioia e, in qualche modo, nella sua coppa già vuota, ove le gocce più amare finiscono per confondersi con le più dolci. Conosce quelle stanche oscillazioni dell’anima che non sa più balzare o volare, e neppure esaltarsi; ha lo sguardo timoroso del dolore nascosto, della comprensione che non consola, degli addii senza parola; si, anche come l’Orfeo di tutte le intime miserie, egli è più grande di ciascun altro, ed anche ha aggiunto all’arte delle cose che finora sembravano inesprimibili e pur indegne dell’arte, – le ciniche rivolte, ad esempio, delle quali è solo capace colui che ha raggiunto il colmo delle sofferenze, così come di tutti gl’infinitesimali dell’anima che formano in qualche modo le scaglie della sua natura anfibia, – giacché nell’arte dell’infinitamente piccolo egli è veramente maestro. Ma egli non vuole cotesta maestria! Si compiace al contrario, de’grandi pannelli, dell’ardita pittura murale. Non comprende che il suo spirito ha un altro gusto e un’altra tendenza – un’ottica opposta – e che preferirebbe rannicchiarsi tranquillamente in recessi di case in ruina: è là che nascono a sé stesso, egli compone i suoi veri capolavori, che son tutti assai brevi, spesso non più lunghi d’una sola misura; allora soltanto egli è superiore, assolutamente grande e perfetto. Wagner è un di quelli che hanno profondamente sofferto – superiorità tutta sua propria su gli altri musicisti. – Io ammiro Wagner ovunque egli si mette in musica.

DOVE FO DELLE OBIEZIONI.

Ciò non implica ch’io tenga cotesta musica per sacra, sopratutto quand’essa parla di Wagner. Le mie obiezioni contro la musica di Wagner son di ordine fisiologico: a che scopo mascherarle ancora sotto formule estetiche? L’estetica non è che una fisiologia applicata. – Io mi fondo sul «fatto» (ed è il mio piccolo fatto vero) che difficilmente respiro quando quella musica comincia ad agire su me, che il mio piede s’inquieta e le si ribella: il mio piede ha bisogno di cadenza, di danza e di marcia – al ritmo della Kaisermarsch di Wagner neppure il giovine Imperatore riesce a marciare -, il mio piede chiede alla musica innanzi tutto il rapimento procurato da un buon incedere, da un passo, da un salto, da una piroetta. Ma non c’è anche il mio stomaco che protesta? Il mio cuore? La circolazione del mio sangue? Non s’attristano le mi viscere? Per sentire Wagner io ho bisogno di pastiglie di Géraudel… E dunque io mi pongo la domanda: cosa chiede il mio corpo, in fin dei conti, alla musica? Poiché non v’è anima… io credo ch’esso chieda un alleggerimento: come se tutte le funzioni animali dovessero essere accelerate da ritmi leggeri, arditi, sfrenati ed orgogliosi; quasi che la vita dovesse perdere ogni sua gravezza sotto l’azione di melodie dorate, delicate e dolci come l’odio. La mia melanconia vuol aver riposo ne’ nascondigli e negli abissi della perfezione: ed è per ciò che ho bisogno di musica. Ma Wagner rende malato. – Che importa a me del teatro? Che importano i crampi delle sue estasi «morali» delle quali il popolo – e chi non è «popolo» – si soddisfa? Che importano tutte le smorfie del commediante? – Si vede chiaro ch’io ho una natura essenzialmente antiteatrale; in fondo all’animo io ho contro il teatro, contro quest’arte delle masse per eccellenza, lo sdegno profondo che sente oggi ogni artista. Successo al teatro – con ciò si scende nella mia estimazione fino a non esister più; insuccesso – io drizzo l’orecchio e comincio a considerare… Ma Wagner, invece, accanto al Wagner che fa la musica più solitaria che vi sia, era essenzialmente uomo di teatro e commediante, il mimomane più entusiasta che mai forse sia esistito, anche in quanto musicista... E, sia detto di passaggio, se la teoria di Wagner è stata «il dramma è lo scopo, la musica non altro è mai che il mezzo» – la sua pratica è stata invece, dal principio alla fine, «l’atteggiamento è lo scopo, il dramma ed anche la musica non son altro mai che i mezzi». La musica serve ad accentuare, afforzare, interiorizzare il gesto drammatico e l’esteriorità del commediante; il dramma wagneriano non è che pretesto a parecchi atteggiamenti interessanti! – Wagner aveva, accanto agli altri istinti, quelli di comando d’un grande attore, ovunque e sempre, e, come ho già detto, anche in quanto musicista. E quel che una volta ho chiaramente dimostrato a un Wagner puro sangue; chiarezza e wagnerismo! Non dico una parola di più. Avevo qualche ragione per aggiungere ancora: «siate dunque un po’ più onesto verso voi stesso! Non siamo a Bayreuth». A Bayreut non si è onesti che in quanto massa: come individuo si mentisce, si mentisce a sé stesso. Quando si va a Bayreuth si lascia a casa la propria individualità, si rinunzia al diritto di parlare e di scegliere, si rinunzia al proprio gusto, ed anche alla propria bravura così come la si possiede e la si esercita verso dio e gli uomini fra le quattro mura della propria casa. Nessuno porta al teatro il più gentile senso della propria arte, neppure l’artista che lavora per il teatro, – vi manca la solitudine; tutto quel ch’è perfetto non tollera testimoni… Al teatro si diventa popolo, gregge, femmina, fariseo, elettore, fondatore-patrono, idiota – wagneriano: è quivi che la più personale coscienza soccombe al fascino livellatore del più gran numero, è quivi che regna il «vicino» e che si diventa «vicino»

WAGNER CONSIDERATO COME DANNO.

1.

La finalità cui tende la musica moderna in quel che oggi si chiama, con parola assai forte ma oscura, la «melodia infinita» può essere espressa così: si entra nel mare, si perde piede a poco a poco fin che ci si abbandona all’elemento; – bisogna nuotare. Nella leggera solenne ed ardente cadenza della musica antica, nel suo moto ora lento ed ora vivo, bisogna cercare tutt’altro – bisognava danzare. La misura che v’era necessaria, l’osservanza di talune gradazioni di tempo e di forza, costringevano l’animo dell’osservatore a una riflessione continua, è sull’opposizione di correnti refrigeranti, provenienti dalla riflessione e dal caldo soffio dell’entusiasmo, che si fondava il fascino d’ogni buona musica. – Riccardo Wagner volle cercare un’altra specie di moto, capovolse le condizioni fisiologiche della musica esistente. Nuotare, ondeggiare, – non più camminare né danzare… Per questo forse la parola decisiva è stata detta? La «melodia infinita» vuol rompere appunto ogni unità di tempo e di forza; le accade anche talvolta di ridersene: essa trova la sua ricchezza d’invenzione precisamente in ciò che per orecchi d’altri tempi suona come un paradosso ritmico e come una bestemmia. Dall’imitazione, dalla preponderanza di un gusto siffatto deriverebbe alla musica un danno che non si potrebbe imaginare più grande – la degenerazione completa del sentimento ritmico, il caos in luogo del ritmo… Il danno è completo quando una tal musica s’appoggia sempre più fortemente sopra un’arte teatrale e una mimica assolutamente naturalistiche, non rette da alcuna legge della plastica, ricercatrici dell’effetto e nulla più… L’espressione a ogni costo, e la musica servente e schiava dell’atteggiamento – ecco la fine…

2.

Come? La prima virtù dell’esecuzione sarebbe veramente, come i musicisti esecutori sembrano credere ai giorni nostri, di raggiungere ad ogni costo un altorilievo che non possa più esser superato? Questa teoria, applicata per esempio a Mozart, non sarebbe un vero peccato contro lo spirito di Mozart, contro il genio gaio, entusiasta, tenero ed amoroso di Mozart? Il quale, per buona ventura, non era tedesco, e la sua serietà era una serietà benevolente e dorata e per nulla la serietà di un buon borghese tedesco… per non parlare della serietà del «convito di pietra»… Ma vi credete che ogni musica è musica del «convito di pietra», – che ogni musica deve escire dalle mura e sbranare l’auditore fin nelle sue visceri?… E’ solo così che la musica agisce? Su qualcosa che l’artista nobile deve lasciar fuori il dominio della propria azione – sulla massa! Sugl’impuberi! Sui malati! Sugl’idioti! Sui wagneriani!

UNA MUSICA SENZA AVVENIRE.

Di tutte le arti che riescono a fiorire sul suolo di una determinata cultura, la musica fa la sua apparizione come pianta ultima, forse perché è un’arte anteriore, ultima venuta per conseguenza – quando la cultura dalla quale deriva s’approssima all’autunno e comincia a disfarsi. Solo nell’arte dei maestri Olandesi l’anima del medioevo cristiano ha trovato la sua espressione -, la sua architettura musicale è sorella maggiore, ma legittima ed autentica, del gotico. Soltanto nelle musica di Haendel può ricercarsi un’eco dell’anima di Lutero e dei suoi simili, il carattere giudeo-eroico che dette alla Riforma un tratto di franchezza – il Vecchio Testamento fatto musica e non il nuovo. Soltanto Mozart rese l’epoca di Luigi XIV, l’arte di Racine e di Claudio di Lorena in oro sonante. Soltanto nella musica di Beethoven e di Rossini si ripercosse il secolo XVIII, secolo di esaltazione , d’ideale spezzato e di felicità fuggitiva. Ogni musica vera, ogni musica originale è un canto del cigno. – Forse la nostra ultima musica, quale che sia il dominio ch’essa esercita e vuole esercitare ancora, non ha dinanzi a sé che un lasso di tempo assai breve: giacché essa è sbocciata da una cultura il cui suolo ha rapidamente reso – da una coltura subitamente dilapidata. Un certo cattolicismo del sentimento e un gusto spiccato per qualche antico spirito d’attaccamento al suolo (attaccamento che vien detto «nazionale») sono le sue condizioni prime. I prestiti contratti da Wagner a vecchie leggente e canti, ove il pregiudizio sapiente ha voluto vedere qualcosa di germanico per eccellenza (- oggi ne ridiamo -), la resurrezione di quei mostri scandinavi, con una sete di sensualità in estasi e di spiritualizzazione – questa maniera di prendere e di dare, tutta propria a Wagner, per quanto riguarda i soggetti, le persone, le passioni e i nervi, tutto questo esprime chiaramente lo spirito della sua musica, ammettendo che tal musica, come ogni musica, parlando di sé, non lasci sorgere equivoci: giacché la musica è femmina… Non bisogna lasciarci sviare su questo stato di cose pel fatto che attualmente noi viviamo nella reazione, nel seno stesso della reazione. L’epoca delle guerre nazionali, del martirio ultramontano, tutto quel carattere d’intermezzo fra un atto e l’altro particolare alla attuale situazione dell’Europa, può difatti procurare un’improvvisa gloria a un’arte come quella di Wagner, senza garentirle per questo un avvenire. Gli stessi Tedeschi non hanno un avvenire…

NOIALTRI ANTIPODI.

E’ noto, almeno fra i miei amici, ch’io ho cominciato per accanirmi contro il mondo moderno con qualche errore e qualche esagerazione, ma, ad ogni modo, con molte speranze. Consideravo – chi sa per quali esperienze personali? – il pessimismo filosofico del secolo decimonono come sintomo d’una superior forza del pensiero e d’una plenitudine di vita più vittoriosa di quella espressa da Hume, da Kant, da Hegel. Considerai la conoscenza tragica come il più bel lusso della nostra civiltà, come la sua più preziosa, più nobile, più pericolosa prodigalità, ma tuttavia, in ragione della sua opulenza, come un lusso che le era consentito. Così anche interpretai la musica di Wagner come l’espressione di una potenza dionisiaca dell’anima; e in essa credei sorprendere il lavorìo sotterraneo d’una forza primordiale da secoli repressa e che alfine appare alla luce, indifferente d’altronde a che tutto quanto si chiama oggi cultura potesse essere distrutto. Si vede che interpretai male; ed egualmente si vede di che arricchii Wagner e Schopenhauer – di me stesso… Ciascuna arte, ciascuna filosofia van considerate come rimedi e incoraggiamenti alla vita in ascendenza o in decadenza: esse suppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma v’ha due specie di sofferenti: dapprima quelli che soffrono di soprabbondanza di vita, che vogliono un’arte dionisiaca ed anche una visione tragica della vita interiore ed esteriore – e poi quelli che soffrono d’un ammiserimento della vita, e all’arte e alla filosofia chiedono la calma, il silenzio, un mare piatto, od anche l’ebrezza, la convulsione, la frenesia. Vendicarsi sulla stessa vita – è questa, per siffatti ammiseriti, la più voluttuosa qualità d’ebrezza!… Al duplice bisogno di questi ultimi Wagner risponde così bene quanto Schopenhauer. Essi negano la vita, la calunniano, e appunto per ciò sono i miei antipodi. – L’essere nel quale s’ha la maggior abbondanza di vita, Dionisio, l’uomo dionisiaco, non si compiace soltanto dello spettacolo del terribile e dell’inquietante, ma ama il fatto terribile in sé stesso, ed ogni lusso, di distruzione, di disgregamento, di negazione; – la cattiveria, l’insania, la bruttezza gli sembrano in qualche modo consentite, così come nella natura, per una sovrabbondanza atta a far d’ogni deserto una fertilità. E’ invece l’uomo più sofferente, più povero di forza vitale, che avrebbe più gran bisogno di dolcezza, di amenità, di bontà – di ciò che si chiama oggi umanità -, in pensiero così come in azione; e possibilmente di un dio che fosse in ispecie un dio di malati, un Salvatore; e che anche avrebbe bisogno di logica, di astratta intelligibilità dell’esistenza, accessibile anche agli idioti (- i «liberi pensatori» tipici, come gli idealisti e le «belle anime» sono tutti decadenti -) e insomma di una certa stretta e calda intimità che dissipasse il timore, e d’un imprigionamento fra gli orizzonti ottimisti che consentisse l’imbestiamento… Così imparai, a poco a poco, e comprendere Epicuro, l’opposto d’un greco dionisiaco, ed anche il cristiano che, nel fatto, non è che una specie di epicureo, e che, col suo principio «la fede salva» non fa che seguire il principio dell’edonismo: per quanto è possibile – fin oltre ogni probita intellettuale… Se io ho qualche vantaggio sugli altri psicologi e che posseggo un po’ più d’acume in questo genere così difficile e capzioso di conclusioni, nel quale si commettono gli errori maggiori – la conclusione dell’opera al creatore, del fatto all’autore, dell’ideale a colui per il quale esso è una necessità, di ogni modo di pensare e valutare al bisogno che lo reclama. – Quanto agli artisti d’ogni specie, io mi servo ora di questa distinzione capitale: è l’odio della vita o l’abbondanza della vita che è divenuta creatrice? In Goethe, per esempio, l’abbondanza divenne creatrice; in Flaubert, l’odio: Flaubert reedizione di Pascal, ma in figura di artista avente questa base di giudizio istruttivo: «Flaubert è sempre odioso: l’uomo è nulla, l’opera è tutto»… Egli si torturava quando scriveva, proprio come Pascal si torturava quando pensava – essi sentivano entrambi d’una maniera «altruista»«Disinteresse» – ecco il principio di decadenza, la volontà dell’annientamento nell’arte così come nella morale.

DOVE WAGNER E’ IN CASA SUA.

Ancor oggi la Francia è il rifugio della più intellettuale e raffinata cultura che vi sia in Europa: essa resta pur sempre la grande scuola del gusto. Ma bisogna sapere scoprirla questa «Francia del gusto». La «Gazzetta della Germania del Nord», per esempio, o almeno coloro dei quali essa è l’organo, vedon nei Francesi altrettanti «barbari» -, per conto mio, io vado cercando il continente nero ove si dovrebbero liberar gli schiavi in prossimità della Germania del Nord… Coloro i quali fan parte di quella Francia han cura di tenersi nascosti: sono un piccolo numero, e in questo piccolo numero ve n’ha ancora, forse, che non sono abbastanza saldi sulle loro gambe, fatalisti, melanconici, malati, magari snervati e artificiosi che pongono il loro amor proprio nell’essere artificiosi, – ma hanno in loro possesso tuttavia quanto resta nel mondo di fine e di elevato. In questa Francia dello spirito, che è anche la Francia del pessimismo, Schopenhauer è più in casa sua di quanto fosse mai in Germania: la sua opera maggiore, due volte tradotta, la seconda volta con tanta perfezione ch’io preferisco ora di leggere Schopenhauer in francese (- egli non fu tedesco che per caso, allo stesso modo ch’io lo sono accidentalmente – i tedeschi non hanno attitudine a maneggiarci, e d’altronde essi non hanno mani, non hanno che zampe). Non parlo di Enrico Heine – l’adorable Heine, come si dice a Parigi – che da tempo è passato nella carne e nel sangue dei più delicati e preliosi lirici parigini. Che farebbe il cornuto bestiame tedesco con delicatezze di siffatta natura! Per quanto infine riguarda Riccardo Wagner, più la musica francese s’adatterà alle reali esigenze dell’anima moderna, più, si può presagire, essa wagnerizzerà, – lo fa già abbastanza! A tal proposito non bisogna lasciarci ingannare dallo stesso Wagner – fu una vera cattiva azione da parte sua ridere di Parigi durante la sua agonia del 1871… In Germania, ciò nonostante, Wagner non è che un malinteso: chi, per esempio, sarebbe atto a capir tanto poco di Wagner quando il giovine imperatore? Nondimeno, per quanto conoscitore del movimento della cultura in Europa, non resta meno certo il fatto che il romanticismo francese e Riccardo Wagner sono strettamente legati fra di loro. Dominati dalla letteratura, che finanche riempiva l’occhio dei pittori e gli orecchi dei musicisti, i francesi furono i primi ad avere una cultura letteraria universale – quasi tutti scrittori o poeti essi stessi, quasi tutti versatili in più arti e in più sensi, e interpretando l’una a mezzo dell’altra; tutti fanatici dell’espressione ad ogni costo; tutti grandi inventori nel campo del sublime, come anche del brutto e del laido, più grandi inventori ancora in fatto di messa in iscena; tutti ricchi di un ingegnosità oltrepassante il loro genio: tutti virtuosi fin nelle midolla esperti di ciò che seduce, che incanta, che afferra, che soggioga; tutti nemici nati della logica della linea retta, assetati dello strano, dell’esotico, del mostruoso e di tutti gli oppi dei sensi e della ragione. Furono insomma una specie di artisti audaci sino alla follia, magnificamente violenti, trascinati essi stessi e trascinati gli altri con slancio superbo, destinati a insegnare al loro secolo – è il secolo delle «masse» – quel che è un artista. Ma malati

WAGNER APOSTOLO DELLA CASTITA’.

1.

Fra la sensualità e la castità non v’è contrasto necessario: ogni buon matrimonio, ogni seria passione del cuore è al di sopra di un contrasto di tal genere. Ma quando cotesto contrasto effettivamente esiste, ce ne vuole, per fortuna, perché sia un contrasto tragico. Sembra esser così per tutti i mortali di buona salute e di spirito ponderato, i quali son lungi dal giudicar senza valore quell’equilibrio instabile tra l’angelo e la bestia, fra i principii contradittori dell’esistenza, – i più fini, i più chiari, come Hafis, come Goethe vi han visto finanche un’attrazione di più… Sono appunto opposizioni siffatte che fanno amare la vita… D’altra parte, non occorre dire che, quando gli sventurati animali di Circe son portati ad adorare la castità essi non vedono e non adorano che l’opposto, – ah! Con che tragici grugniti e con quale ardore! È facile imaginarlo – essi adorano quel contrasto doloroso e assolutamente superfluo che Riccardo Wagner, alla fine della sua vita, ha voluto incontestabilmente mettere in musica e portar sulla scena. A quale scopo? Si chiederà giustamente.

2.

Non bisognerebbe, intanto, voler evitare quest’altra questione: che veramente gl’importasse quella virile (ahimè! Così poco virile) «semplicità dei campi», quel povero diavolo, quel figlio della natura, che si chiamava Parsifal e ch’egli finisce per far cattolico con mezzi così insidiosi. Come? Wagner prendeva sul serio quel Parsifal? Che se ne sia riso, io son l’ultimo a contestarlo, e, al pari di me, Goffredo Keller… A dir vero si sarebbe sperato che il Parsifal di Wagner fosse stato concepito gaiamente, in qualche modo come epilogo e come dramma satirico, a mezzo del quale Wagner il tragico avesse voluto, in maniera conveniente e degna di lui, congedarsi da noi, da sé stesso, innanzi tutto dalla tragedia, e ciò per un eccesso di alta e maliziosa parodia dello stesso tragico, di tutta quella terribile gravità terrestre e delle miserie terrestri d’altri tempi, parodia d’una forma alfine vinta, la forma più grossolana di quanto v’è di antinaturale nell’ideale ascetico. Parsifal è per eccellenza un soggetto d’operetta. Il Parsifal di Wagner non è il sorriso nascosto del maestro? Quel sorriso di superiorità che s’infischia di sé stessa, il trionfo della sua ultima, della sua suprema libertà d’artista, del suo «al di là» di artista – non è Wagner che sa ridere di sé stesso?… Si potrebbe, lo ripeto ancora, augurarselo. Giacché, cosa sarebbe Parsifal preso sul serio? È veramente necessario di vedere in lui (per usare un’espressione adoperata in mia presenza) «il prodotto d’un feroce odio contro la scienza, lo spirito e la sensualità», un anatema contro i sensi e lo spirito concentrato in un solo soffio d’odio? Un’apostasia e un voltafaccia verso l’ideale d’un cristianesimo malato e oscurantista? E infine una negazione di sé, una cancellazione di sé, da parte d’un artista che, fin allora, con tutta la potenza della sua volontà, avea lavorato al fine opposto, e cioè alla spiritualizzazione e sensualizzazione suprema dell’arte sua? E non solo della sua arte ma anche della sua vita? Si ricordi con quale entusiasmo Wagner aveva già seguito le orme del filosofo Feuerbach. La parola di Feuerbach, «la sana sensualità», risuonò durante gli anni trenta e quaranta di questo secolo, per Wagner come per molti Tedeschi – si chiamavano la giovine Germania – come la parola redentrice per eccellenza. Finì per cambiar di parere a tal riguardo? Sembra almeno ch’egli avesse alla fine la volontà di mutar la sua dottrina… L’odio della vita è stato vittorioso in lui come in Flaubert? Poiché Parsifal, è un’opera di rancore, di vendetta, un attentato segreto contro ciò ch’è la prima condizione della vita, una cattiva opera. Predicare la castità e una provocazione all’antinaturale: io disprezzo tutti coloro i quali non considerano Parsifal come un attentato contro la morale.

COME MI DISTACCAI DA WAGNER.

1.

Già durante l’estate del 1876, nel periodo stesso delle prime Feste di Bayreuth, io mi congedai da Wagner. Non sopporto nulla che sia equivoco: da quando Wagner era in Germania, a poco a poco, andava condiscendendo a tutto ciò ch’io disprezzo – finanche all’antisemitismo. E nel fatto, era veramente tempo di congedarsi: ne ebbi subito la prova. Riccardo Wagner, il più vittorioso in apparenza, in realtà un decadente, caduco e disperato, si mostrò d’un tratto, irrimediabilmente annientato innanzi la santa croce… Nessun tedesco ebbe allora occhi per vedere, e pietà nella conscienza per deplorare quell’orribile spettacolo? E dunque io sono stato il solo ch’egli abbia fatto soffrire? Non importa: l’inatteso avvenimento proiettò una subitanea luce, per me, sul luogo che avevo allora lasciato, – ed anche mi dette quel fremito di terrore che si sente dopo aver corso inconsapevolmente un immenso pericolo. Quando da solo io proseguii pel mio cammino mi misi a tremare. Poco dopo fui malato, più che malato, stanco, – stanco per la continua delusione a riguardo di tutto ciò che ancora entusiasmava noi altri uomini moderni: della forza, del lavoro, della speranza, della giovinezza, dell’amore, inutilmente prodigati, per ovunque; stanco pel disgusto di tutto questa bugiarderia idealista e di questo rammollimento della conscienza che ancora una volta aveano vinto uno dei più bravi; stanco infine – e non fu la minore delle mie stanchezze – per la tristezza d’un implacabile sospetto: il presentimento di dover esser condannato oramai a diffidare ancora più, a disprezzare più profondamente, a essere più assolutamente solo che non mai. Poiché non altri aveva avuto che Riccardo Wagner… Fui sempre condannato a gente tedesca. Solitario oramai e pur diffidente di me io presi allora partito, e non senza collera, contro me stesso e per tutto ciò che giustamente mi faceva male e m’era di pena: e così ch’io ho ritrovato il cammino di quel pessimismo intrepido ch’è il contrario di tutte le gonfiature idealistiche, ed anche, come a me sembra, il cammino verso me stesso, il cammino della mia mèta… Quel non so che d’occulto e dominante che resta a lungo senza nome per noi fin quando ci è dato discoprire che quivi è la nostra mèta – quel tiranno prende una terribile rivincita in noi ad ogni tentativo che facciamo per evitarlo e per sfuggirlo, ad ogni decisione prematura, ad ogni prova di assimilazione con coloro cui siamo estranei, ogni volta che ci diamo ad un’occupazione la quale, per quanto laudabile, ci devia dal nostro scopo principale, – ed anche si vendica di ciascuna delle nostre virtù che vorrebbe proteggerci contro la durezza della nostra più intima responsabilità. La malattia è sempre il contraccolpo dei nostri dubbi, quando il nostro diritto e il nostro compito ci paiono incerti, quando noi cominciamo a rilasciarci un poco. Cosa strana e terribile nello stesso tempo! Sono i nostri alleggerimenti che ci tocca espiare con maggior durezza! E se più tardi noi vogliam tornare alla salute non abbiamo da scegliere: ci è necessità portare pesi maggior che per l’innanzi…

LO PSICOLOGO PRENDE LA PAROLA.

1.

Quanto più uno psicologo, psicologo di nascita, divinatore di anime, si volge allo studio degli uomini e dei casi d’eccezione, più grande è per lui il pericolo di sentirsi soffocare dalla pietà. Più di ciascun altro egli ha bisogno di durezza e di sincerità. Giacché la corruzione, la corsa degli uomini superiori verso l’abisso, constituiscono una norma consueta, ed è terribile avere una norma siffatta innanzi agli occhi. Le molteplici torture dello psicologo che ha scoperto una tal ruina, che scopre una volta e poi quasi sempre di nuovo, traverso la storia, quello «stato disperato» che l’uomo superiore porta nella sua anima, quell’eterno «troppo tardi!» per tutte le cose, – quelle torture potranno forse un giorno divenir la causa della sua propria perdita… Si scorgerà quasi sempre, nello psicologo, una perfida predilezione a frequentare uomini ordinari e bene equilibrati: e da ciò si comprende ch’egli ha sempre bisogno di guarigione, che gli occorre una specie di sfuggita e di oblio, lungi da ciò che le analisi e le dissezioni del suo mestiere hanno imposto alla sue propria conscienza. Gli è speciale la paura ch’egli ha della sua memoria. Il giudizio altrui spesso lo spinge a tacere: egli ascolta, col viso immobile, come gli altri venerano, ammirano, amano, glorificano, là dov’egli si è contentato di vedere, – od anche ci nasconde il suo stupore accontentandosi a bella posta d’una opinione superficiale. Forse il lato paradossale della sua situazione tocca così da presso lo spaventevole ch’egli è preso d’una grande pietà e d’un grande disprezzo dove le genti «istruite» hanno imparato a porre la loro grande venerazione… E chi sa se in tutti i casi importanti non accadde che si volle adorare un dio e che questo dio non era che una povera bestia da sacrificio… Il successo fu sempre il più gran mentitore – e l’opera, l’azione, sono, anch’esse, dei successi… Il grand’uomo di Stato, il conquistatore, l’esploratore sono mascherati dalle loro creazioni fino od essere irriconoscibili; l’opera, quella dell’artista, del filosofo, inventa soltanto quegli che l’ha creata, quegli che si suppone l’abbia creata… I «grandi uomini», così come li si venera, non sono, dopo tutto, che cattive favolette; – nel mondo dei valori storici regna il conio di monete false…

2.

Quei grandi poeti, ad esempio, Byron, de Musset, Poe, Leopardi, Kleist, Gogol – non oso pronunciar nomi più grandi ma è ad essi ch’io penso, – così come sono, così come debbono essere: uomini del momento. Sensuali, assurdi, molteplici, leggeri ed impulsivi nella diffidenza e nella confidenza; con anime delle quali spesso voglion nascondere qualche piega: spesso vendicandosi, a mezzo delle loro opere, di una sozzura interiore; spesso cercando nei loro slanci l’oblio d’una ricordanza troppo fedele;idealisti perché si trovano assai prossimi al pantano! Qual sofferenza non cagionan essi a chi li ha capiti, questi grandi artisti e in generale tutti quelli che vengon detti uomini superiori! Noi siamo tutti avvocati della mediocrità… E’ facile comprendere che la donna, chiaroveggente nel mondo della sofferenza ed avida di aiutare e soccorrere ahimé! Ben oltre le sue forze, prova giustamente per essi quegli slanci di pietà sui quali la folla, e innanzi tutto la venerazione della folla, fa gravare tante interpretazioni indiscrete e presuntuose… Quella pità s’inganna regolarmente sulla portata della sua forza: la donna vorrebbe credere che l’amore può tutto, – è questa la sua superstizione. Ahimé! Chi conosce il cuore umano comprende che anche il migliore e più profondo amore è povero, disaccorto, presuntuoso, suscettibile d’errore – e fin quanto esso è fatto piuttosto per distruggere che per salvare…

3.

Il disgusto e l’orgoglio spirituale i ciascun uomo che abbia profondamente sofferto (è la capacità di sofferenza che determina il rango), la fremente certezza della quale egli è tutto penetrato, quella certezza di sapere, mediante il suo dolore, più di quanto possano i più intelligenti e i più saggi, d’essere stato familiare e padrone di mondi distanti e terribili dei quali «voi non sapete nulla»… quell’orgoglio spirituale e tacito, quella fierezza dell’eletto della conoscenza, di quegli che è «iniziato» e quasi vittima, ha bisogno d’ogni sorta di travestimento per preservarsi dal tocco di mani importune e compassionevoli, e innanzi tutto di ciò che non lo eguaglia per la sofferenza. Il profondo dolore rende nobile; è separatore. – Una delle più sottili forme di travestimento è l’epicureismo e una certa affettata bravura che considera leggermente il soffrire e tutto ciò che è triste e profondo. Vi sono «uomini gai» che si servono della gaiezza perché essa li fa mal comprendere – essi vogliono essere mal compresi. Vi sono «spiriti scientifici» che si servono della scienza perché essa li fa sembrare gai, e perché il carattere scientifico fa sembrar l’uomo superficiale – essi vogliono indurre a una conclusione erronea… Vi sono spiriti liberi ed audaci che vorrebbero nascondere e negare che in fondo essi son cuori irremediabilmente spezzati, – è il caso di Amleto: e allora la stessa follia può esser maschera di una conoscenza fatale e troppo certa. –

EPILOGO.

1.

Mi sono spesso chiesto se io non dovevo assai più agli anni maggiormente difficili della mia vita che a tutti gli altri. Ciò che v’è in me di più intimo m’insegna che tutto ciò ch’è necessario, considerato dall’alto e interpretato nel senso d’una economia superiore, è anche utile in sé, non bisogna soltanto sopportarlo, bisogna anche amarloAmor fati: tale è il fondo della mia natura. – E per quanto riguarda la mia lunga malattia, non le debbo forse assai più che alla mia sanità? Le debbo una sanità superiore, una sanità che si fortifica di tutto ciò che non la uccide! Io le debbo anche la mia filosofia… La grande sofferenza è l’ultima liberatrice dello spirito; essa insegna il grande dubbio che d’ogni U fa un X, un X vero e verace, ciò è dire la penultima lettera innanzi l’ultima… Il grande dolore, il dolore lungo e assiduo che ci consuma in qualche modo a fuoco lento, il dolore che prende tempo, ci forza, noialtri filosofi, a discendere nella nostra ultima profondità e ad allontanare da noi ogni fiducia, ogni bonomia, ogni attenuazione, ogni tenerezza, ogni meditazione, nella quale, forse, altra volta, avevamo posta la nostra umanità. Io dubito che una tale speranza «renda migliore»; ma so ch’essa ci rende più profondi. Già che noi impariamo ad opporle la nostra fierezza, il nostro dileggio, la nostra forza di volontà, simili a quell’indiano che, per quanto crudelmente torturato, si considera vendicato del suo carnefice dalla cattiveria della sua lingua; sia che ci rifugiamo, di fronte al dolore, nel nulla, nella rassegnazione muta, inflessibile e sorda, nell’oblio e nell’abolizione di sé, si è altro uomo uscendo da quei lunghi e perigliosi esercizi della dominazione di sé, si ritorna con qualche punto interrogativo in più – e sopra tutto con la volontà di porre per l’innanzi più numerose domande, più profonde, più severe,più dure, più cattive e più silenziose, di quante mai ne furon poste fin allora, nel mondo… La fiducia nella vita è sparita, la vita stessa è divenuta un problema. – Ma non si creda che per questo sia stato necessario divenire oscurantista! L’amore della vita è tuttavia possibile, – ma si ama in altro modo… E’ l’amore per una donna che ci inspira dei dubbi.

2.

Cosa assolutamente strana è che dopo cotesto primo gusto ve ne viene un altro – un secondo gusto. Da simili abissi, anche dall’abisso del grande dubbio, si ritorna rigenerato. Come se si fosse fatta pelle nuova, si diventa più suscettibile e più cattivo, con un più sottile gusto per la gioia, con lingua più delicata per tutte le buone cose, con sensi più gioiosi, con una seconda e più perigliosa innocenza nella gioia, nello stesso tempo più infantile e cento volte più raffinato che per il passato. Quanto ci ripugna ora il godimento, il grossolano sordo ed oscuro godimento, come generalmente lo intendono i gaudenti, le nostre «persone istruite», i nostri ricchi, i nostri governanti! Con quale milizia noi ora ascoltiamo tutto quel fracasso da fiera, in mezzo al quale l’uomo istruito e il cittadino si lasciano oggi violentare dall’arte, dal libro, dalla musica, per giungere al «godimento spirituale» inaffiato da bevande spiritose! Quanto fan male ora ai nostri orecchi quei clamori teatrali; quanto son fatti estranei a noi il tumulto romantico, il solletico dei sensi che piace alla plebaglia istruita, e tutte quelle aspirazioni all’ideale, al sublime, all’anfigorico! No: se noi che siamo guariti abbiamo ancora bisogno d’un’arte, e di tutt’altra arte – d’un’arte gioiosa, leggera, fuggitiva, divinamente fittizzia e piena d’una divina certezza, di un’arte che come una pura fiamma aleggi verso un cielo senza nubi! Innanzi tutto un’arte per artisti, solamente per artisti! Allora ci intenderemo meglio su ciò che importa per questo, la gaiezza, tutta la gaiezza, amici miei!… Vi son cose che noi sappiamo troppo bene, ora, noi che possediamo la conoscenza: ah come impariamo oramai a ben dimenticare, a ben ignorare, da artisti!… E per quanto riguarda il nostro avvenire: non ci si incontrerà certo su le orme di quei giovani egizi che infestavano i templi nella notte, abbracciando le statue e volendo a viva forza svelare, scoprire, porre in piena luce tutto ciò che, per buone ragioni, è tenuto nascosto. No, per questo cattivo gusto, questo voler raggiungere la verità, «la verità ad ogni costo», questa mania di adolescenti per l’amore della verità – tutto questo non c’importa più: noi siamo troppo esperti, troppo seri, troppo gai, troppo induriti, troppo profondi… Noi non crediamo più che la verità resti verità quando le si strappa il velo – ed abbiamo vissuto abbastanza per esserne persuasi… Oggi è per noi quistione di convenienza che non si voglia tutto vedere nella sua nudità, e trovarsi ovunque presente, e tutto comprendere, e tutto «sapere». Tutto comprenderesignifica tutto disprezzare… «E’ vero che il buon Dio vede tutto?» chiedeva una bambina a sua madre: «mi sembra una sconvenienza» – avvertimento ai filosofi!… Bisognerebbe aver maggior rispetto del pudore, rifugio della natura che si tien nascosta dietro enigmi ed incertezze multiple. Forse la verità è femmina, ed ha delle ragioni per non lasciar vedere le sue ragioni?… Forse il suo nome, per parlare greco, è Baubò?… Ah quei Greci! Se ne intendevano essi del vivere! Per ciò è necessario fermarsi bravamente alla superficie, all’epidermide, di adorare l’apparenza, di credere alle forme, ai suoni, alle parole, a tutto l’Olimpo delle apparenze. Quei Greci erano superficiali – per profondità… E non torniamo ad essi, noialtri rompicolli dello spirito che abbiam salito le più alte e pericolose sommità del pensiero moderno, e che di qui abbiam guardato intorno a noi, al disotto di noi? Non siamo, anche in questo, greci? Adoratori di forme, di suoni, di parole? E appunto per questo – artisti?

Friedrich Nietzsche (Nietzsche contro Wagner)

Letteratura (art. Il caso Wagner – Friedrich Nietzsche)

Il caso Wagner (Friedrich Nietzsche)

Immagine wagner

PREMESSA

Mi alleggerisco un poco. Non è per semplice cattiveria che in questo scritto io lodo Bizet a spese di Wagner. Io metto innanzi, fra molte piacevolezze, una cosa con la quale non v’è da scherzare. Volgere le spalle a Wagner, fu per me una fatalità; amare qualcosa di poi, una vittoria. Nessuno forse è stato mischiato alla «wagneria» più perigliosamente di me; nessuno se n’è più aspramente difeso; nessuno ha tanto gioito di sfuggirle. E’ una lunga istoria! – Si vuole una parola per caratterizzarla? – Chi sa come la chiamerei, s’io fossi un moralista! Forse vittoria su se stesso. Ma il filosofo non ama i moralisti – e non ama né pure le parole grosse… Qual è la prima e l’ultima esigenza d’un filosofo di fronte a sé stesso? Vincere il tempo suo, e mettersi «fuori del tempo». Con chi, dunque, dovrà egli durare la lotta più rude? Con tutto ciò che lo fa essere figlio del suo tempo. Bene! Io sono quanto Wagner figlio dell’età presente, e quindi decadente. Con questa differenza: che io me ne son reso conto e mi son messo in istato di difesa. Il filosofo, in me, protestava contro il decadente. In verità, quel che mi ha occupato di più è il problema della decadenza: ed ho avuto le mie buone ragioni per questo. La questione del «bene» e del «male» non è che una verità di quel problema. Se si è visto chiaro nei sintomi della decadenza si comprenderà anche l’essenza della morale, – si comprenderà quel che si nasconde sotto i suoi nomi più sacri e le sue più sante formule di valutazione: la vita ammiserita, la volontà di morire, la grande stanchezza. La morale è la negazione della vita… Per adempiere un còmpito siffatto m’era necessaria una disciplina personale: – prender partito contro tutto quanto v’à di malato in me, Wagner compreso, compreso Schopenhauer, compresavi tutta l’«umanità» moderna. Allora io sentii un profondo distacco, un senso di gelo e di disincantamento per tutto ciò ch’è temporale e del nostro tempo; e il mio più alto desiderio divenne lo sguardo di Zaratustra, uno sguardo che abbraccia il fenomeno, «uomo» da una distanza infinita, – e lo vede al di sotto di sé… Di qual sacrificio non sarebbe degna una finalità siffatta? Di quale «vittoria su sé stesso»? Di quale «negazione di sé»? Il maggior episodio della mia vita è stata una guarigione. Wagner fu una delle mie malattie. Non ch’io voglia mostrarmi ingrato verso cotesta malattia. Se in questo scritto io intendo dichiarare che Wagner è nocivo, affermo non di meno ch’egli è indispensabile a qualcuno: – al filosofo. Se no, si potrebbe forse fare a meno di Wagner. Il filosofo tuttavia non è libero di rifiutare i suoi servigi. Egli dev’essere la cattiva coscienza del suo tempo, – e dunque gli è necessario conoscere il suo tempo. Ma dove, per questo labirinto dell’anima moderna potrebb’egli trovare una guida meglio iniziata di Wagner, un più eloquente conoscitore d’anime? La modernità parla il suo linguaggio più intimo a mezzo di Wagner: essa non dissimula né il suo bene né il suo male: ha perduto ogni pudore di fronte a sé stessa. E reciprocamente: si è molto vicini ad aver fatto il computo di ciò che lo spirito moderno vale, quando si è giunti ad esser d’accordo con sé stessi per quanto riguarda il bene e il male di Wagner. Capisco perfettamente che un musicista d’oggi ci dica: «Io detesto Wagner, ma non posso più sopportare una musica che non sia la sua». Ma capirei anche un filosofo che dichiarasse: «Wagner riassume la modernità. Necessariamente, bisogna cominciare dall’esser wagneriano…».

LETTERA DA TORINO – MAGGIO 1888

1.

Ho assistito ieri – mi credereste? – per la ventesima volta alla rappresentazione del capolavoro di Bizet. Ancora una volta ho perseverato fino alla fine in un dolce raccoglimento; ancora una volta non sono fuggito. Questa vittoria sulla mia impazienza mi stupisce. Come vi rende perfetto un’opera siffatta! A sentirla si diventa un «capolavoro». E in verità ciascuna volta che ho sentito Carmen mi è sembrato d’essere più filosofo, miglior filosofo che nei tempi ordinari: divenivo così indulgente, così felice, così tranquillo… Restar seduto cinque ore: prima tappa verso la santità! E posso dire che l’orchestrazione di Bizet è quasi la sola ch’io tolleri ancora. Quell’altra orchestrazione, che tiene oggi il primato, – quella di Wagner – brutale, e nello stesso tempo artificiosa ed ingenua, la qual cosa le consente di parlare ai tre sensi dell’anima moderna – ah, quanto mi è nefasta! La paragono al vento di scirocco. Un sudore contrariante si spande sopra me: e addio buon umore del bel tempo. Cotesta musica di Bizet mi pare perfetta. Avanza con un incedere leggero, agile, composto. E’ amabile. Non mette in sudore: «Tutto quel che è buono è leggero, tutto quel ch’è divino corre su piedi lievi»: prima tesi della mia Estetica. E’ una musica perfida, raffinata, fatalista: resta tuttavia popolare, – la sua raffinatezza è quella d’una razza, non di un individuo. E’ ricca. E’ precisa. Costruisce, organizza, s’adempie: per ciò forma un contrasto col polipo nella musica, con la «melodia infinita». Si sentiron mai accenti più tragici, più dolorosi, sulla scena? E come sono ottenuti! Senza smorfia! Senza falsa caricatura! Senza la menzogna del grande stile. Cotesta musica, insomma, suppone l’auditore intelligente, anche se è musicista; ed anche in questo è l’antitesi di Wagner, che, quale che sia per il resto, era il genio più mal imparato del mondo. (Wagner ci prende per – -; dice una cosa fino a far disperare; fino a che ci si creda). E ancora: io mi sento diventar migliore quando questo Bizet mi parla. Ed anche miglior musicista, miglior autore. Sarebbe possibile ascoltar meglio? Il mio udito si profonda in quella musica; ne percepisco le origini. Mi par di assistere al suo nascere; tremo ai pericoli che accompagnano non importa quale audacia; sono incantato dai felici trovamenti dei quali Bizet è inconsapevole. E, cosa curiosa! In fondo io non ci penso, o meglio ignoro fino a qual punto io ci pensi. Giacché pensieri svariatissimi mi traversano il cervello in quel momento… Avete mai pensato che la musica rende lo spirito libero? Ch’essa dà le ali al pensiero? Che si diventa tanto più filosofo per quanto si è più musicista? Il cielo grigio dell’astrazione par solcato dal fulmine; la luce diventa intensa abbastanza per cogliere la «grana» delle cose; i grandi problemi si fanno abbastanza prossimi per esser colti; abbracciamo il mondo come se fossimo sull’altitudine di una montagna. In questo io ho appunto definito il phatos filosofico. E, senza ch’io me ne accorga, sorgono risposte nel mio spirito, (una piccola grandinata di ghiaccio e di saggezza) di problemi risoluti… Ove sono? Bizet mi rende fecondo. Tutto ciò che ha valore mi rende fecondo. Non ho altra gratitudine; non ho altra prova del valore d’una cosa. L’opera di Bizet, anch’essa, è redentrice. Wagner non è il solo «redentore». Con quell’opera ci si congeda dal nord umido, da tutte le brume dell’ideale wagneriano. Già l’azione ce ne sbarazza. Essa tiene anche di Mérimée la logica nella passione, la linea retta, la dura necessità. Possiede innanzi tutto quel ch’è proprio dei paesi caldi, la secchezza dell’aria, la sua limpidezza. Eccoci, in ogni senso, sott’altro clima. Un’altra sensualità, un’altra sensibilità, un’altra serenità vi si esprimono. Questa musica è gaia: ma non d’una gaiezza francese o tedesca. La sua gaiezza è africana; la fatalità fluttua sovr’essa; la sua gioia è breve, subitanea, senza scampo. Invidio Bizet poi ch’egli possiede il coraggio di cotesta sensibilità; una sensibilità che finora non avea trovato espressione nella musica dell’Europa incivilita; – voglio dire quella sensibilità meridionale, infocata, ardente… Che bene ci fanno gli occasi dorati della sua gioia! Il nostro sguardo va lontano: abbiamo mai visto il mare più unito? E come ci par riposante la danza moresca! Come la sua melanconia lasciva giunge a soddisfare i nostri desideri insoddisfatti sempre! E’ l’amore, infine, l’amore rimesso al posto suo nella natura! Non l’amore della «fanciulla ideale»! Nessuna traccia di «Senta-sentimentalità»! Ma l’amore in quanto in esso v’ha d’implacabile, di fatale, di cinico, di candido, di crudele, – ed è in questo ch’esso partecipa della natura! L’amore per il quale la guerra è mezzo, e l’odio mortale dei sessi è fondamento! Non conosco alcun caso ove lo spirito tragico che è l’essenza dell’amore s’esprima con un’asprezza simile, rivesta una tanto terribile forma come in quel grido di Don Josè che chiude l’opera:

Oui, c’est moi qui l’ai tutèe

Carmen, ma Carmen adorèe!

Una tal concezione dell’amore (la sola che sia degna del filosofo) è rara: distingue un’opera d’arte fra mille. Poiché in generale gli artisti hanno lo stesso torto di tutti gli altri: disconoscono l’amore. Anche Wagner l’ha disconosciuto. Credon d’essere generosi in amore perché vogliono il vantaggio di un altro essere spesso a spese del lor proprio interesse. Ma, in compenso, vogliono possedere quell’altro essere. Dio nemmeno fa eccezione in questo. E’ lungi dal pensare: «Se io t’amo, ciò non ti riguarda». Egli diventa terribile quando non è contraccambiato. L’amore – con questa parola si vince la propria causa presso Dio e gli uomini – è di tutti i sentimenti il più egoistico e, per conseguenza, quando è ferito, il meno generoso. (B. Constant)

2.

Voi già vedete come questa musica mi rende migliore. Bisogna mediterraneizzare la musica: ho le mie ragioni per enunziar questa formula. (Di là dal bene e dal male) Il ritorno alla natura, alla salute, alla gaiezza, alla giovinezza, alla virtù! E intanto io fui uno dei wagneriani più corrotti… Fui capace di prender Wagner sul serio… Ah, vecchio mago, quante ce ne ha fatte! La prima cosa che l’arte sua ci offre è una lente d’ingrandimento: vi si guarda attraverso e non si crede più agli occhi propri. Tutto diventa grande: anche Wagner diventa un grand’uomo… Che accorto serpente a sonagli! Per tutta la vita egli ha agitato il sonaglio con le parole «rassegnazione» – «lealtà» – «purità»; e s’è ritratto dal mondo corrotto con una lode alla castità! E noi gli abbiamo creduto… Ma mi comprendete voi? Preferite ancora il problema di Wagner a quello di Bizet? Io non lo stimo – io neppure – al di sotto del suo valore: ha certo il suo fascino. Il problema della redenzione è anche un assai venerabile problema. Niente a fatto fare a Wagner riflessioni più profonde quanto la redenzione: l’opera di Wagner è l’opera della redenzione. V’è sempre nel suo mondo qualcuno che vuol essere salvato – ora un uomo, ora una donna: questo è il suo problema. E con quanta ricchezza ci svaria questo leitmotiv! Chi dunque, se non Wagner, ci insegnerebbe che l’innocenza salva con speciale predilezione dei peccatori interessanti? (E’ il caso di Tannȁhuser). O che anche l’Ebreo Errante trova la sua salute e diventa casalingo quando s’ammoglia? (E’ il caso del Vascello Fantasma). O che una vecchia femmina corrotta preferisce d’essere salvata da casti giovinetti? (E’ il caso di Kundry nel Parsifal). O anche che dei giovani isterici si compiacciano d’esser salvati dal loro medico? (E’ il caso di Lohengrin). O che delle belle ragazze si facciano più volentieri salvare da un cavaliere, che sia wagneriano? (E’ il caso dei Maestri Cantori). O che delle donne maritate, anch’esse, ricorrano al cavaliere? (E’ il caso d’Isotta). O infine che il «vecchio Dio», dopo essersi moralmente compromesso in ogni modo, finisca per esser salvato da un libero pensatore, da un immoralista? (E’ il caso dell’Anello). Ammirate in particolar modo cotest’ultima profondità! La capite voi? Io, per me, me ne guardo bene… Che si possano trarre ancor altri argomenti dalle opere citate, io sarei piuttosto indotto a dimostrare che a contradire. Che un balletto wagneriano possa ridurvi alla disperazione – e alla virtù! – è ancora il caso di Tannȁhuser. Che si possa esser minacciati da conseguenze spiacevolissime se non si vada a letto ad ora debita, è ancora il caso di Lohengrin. Che non si abbia mai bisogno di saper troppo esattamente con chi ci si marita, è, per la terza volta, il caso di Lohengrin. E Tristano e Isotta glorifica il perfetto marito che, in un caso determinato, non ha che una domanda sola sulle labbra: «Ma perché non mi avete detto tutto questo prima? Non v’era nulla di più semplice!»: Risposta:

Questo io non potevo dirti;

e ciò che tu domandi

tu dovrai per sempre ignorare.

Il Lohengrin contiene una solenne messa al bando delle ricerche e delle domande. Wagner qui tocca il dogma cristiano: «Tu deve credere, e tu crederai». E’ un attentato contro quel che v’ha di più alto e di più sacro – l’amore della conoscenza. Il Vascello Fantasma predica quest’insegnamento sublime: che la donna rende stabile pur l’essere più vagabondo – per parlare il linguaggio wagneriano, ella lo «salva». Qui ci permettiamo una domanda. Ammesso che ciò fosse vero, sarebbe, sol per questo, desiderabile? Cosa accade dell’Ebreo Errante che una donna adora e fissa? Egli cessa semplicemente d’essere errante per l’eternità; è un uomo che s’ammoglia – non ha più interesse per noi. Interpretiamo questo a mezzo della realtà: il danno per l’artista, per l’uomo di genio – e son essi Ebrei Erranti – il danno risiede nella donna: le donne amanti sono la loro perdizione. Quasi nessuno ha sufficientemente carattere per non lasciarsi corrompere – «salvare» quando si sente trattato come un Dio – , egli accondiscende subito fino alla donna. L’uomo è vile dinanzi a tutto ciò ch’è eternamente feminino: e le donne lo sanno. In molti casi di amore feminino, e forse precisamente nei più celebri, l’amore non è che un parassitismo più raffinato, un mezzo d’annidarsi in un’anima estranea, talvolta anche in una carne estranea – ed ahimè! Quante volte a tutte spese dell’ospite! E’ nota la sorte di Goethe in quella Germania puritana dai modi di vecchia zitella. Ei fu sempre uno scandalo pei tedeschi: non ebbe ammiratori sinceri che fra gli Ebrei. Schiller, il «nobile» Schiller, che riempiva le loro orecchie con parole grosse – egli appunto fu l’uomo secondo il loro cuore. Che rimproveravan essi a Goethe? La Montagna di Venere e il fatto di aver scritto epigrammi veneziani. Già Klopstock gli predicò la morale; e vi fu tempo nel quale Herder, parlando di Goethe, adoperava la parola «Priapo». Anche il Wilhelm Meister non era considerato che come sintomo di decadenza come segno d’una bancarotta morale. Il «serraglio degli animali addomesticati» e l’«indegnità» dell’eroe esasperavano Niebuhr, per esempio: ed egli finisce per farsi sfuggire una lamentazione che Biterolf avrebbe potuto solmodiare: «Nulla produce mai più dolorosa impressione che vedere un grande spirito tagliarsi l’ali per esercitare la sua virtuosità a servizio d’un oggetto infimo, rinunziando a ciò che è elevato»… Ma innanzi tutto la fanciulla ideale si mostrava indignata: tutte le piccole corti, tutte le «Wartbourgs» di Germania, di qualunque specie fossero, si fecero il segno della croce dinanzi a Goethe, dinanzi allo «spirito impuro» che era in Goethe. Questa storia Wagner l’ha messa in musica. Egli salva Goethe, questo s’intende; ma con abilità suprema, in maniera da prender nello stesso tempo la parte della fanciulla ideale. Goethe è salvato: una preghiera lo redime; una fanciulla ideale lo eleva a sé… Cosa avrebbe potuto pensare Goethe di Wagner? – Goethe s’è chiesto una volta quale fosse il pericolo che minacciava tutti i Romantici: quale fosse il destino dei romantici. Ecco la sua risposta: «E’ l’asfissia prodotta dall’anfanare di tutte le assurdità morali e religiose». In una parola: Parsifal. Il filosofo vi aggiunge un epilogo: La santità – forse l’ultima cosa di valor superiore che ancora sia visibile al popolo e alla donna, l’orizzonte dell’ideale per tutto ciò che è miope per natura. Ma per i filosofi qualsiasi orizzonte non è che una semplice mancanza di comprensione, una maniera di chiudere le porte sul posto ove il loro mondo appena comincia – il loro pericolo, il loro ideale, la loro aspirazione… Per parlare in modo più cortese: la filosofia non basta alle maggioranze. Hanno bisogno della Santità.

3.

Racconterò ora la storia dell’Anello. Il suo posto è qui. Anch’essa è una storia di redenzione: con la variante che, questa volta, il salvato è Wagner. A metà del suo cammino nella vita Wagner ha creduto alla Rivoluzione, come solo un frencese potrebbe credervi. Ne seguiva le tracce nei caratteri runici della mitologia; credeva perseguire in Sigfrido il rivoluzionario tipico: «D’onte viene tutto il male del mondo?» s’è chiesto Wagner. «Da vecchie convenzioni» rispose egli, come tutti gli ideologi rivoluzionari. Ciò è dire: dai costumi, dalle leggi, dalle morali, dalle instituzioni, da tutto ciò che serve di base al vecchio mondo, alla vecchia società. Come sopprimere il male nel mondo? Come sopprimere la vecchia società? Non v’ha che un mezzo: dichiarar la guerra alle convenzioni (la tradizione, la morale). E’ quel che fa Sigfrido. E comincia presto, assai presto: la sua nascita è già una dichiarazione di guerra alla morale: – ei viene al mondo mercè l’adulterio e l’incesto… Non è la leggenda; è Wagner che ha inventato questo punto radicale: in questo egli ha corretto la leggenda… Sigfrido continua come ha cominciato: non segue che il primo impulso; demolisce ogni tradizione, ogni rispetto, ogni timore. Abbatte ciò che gli spiace. Rovescia senza rispetto tutte le vecchie divinità. Ma la sua impresa massima tende a emancipare la donna – a «liberare Brunilde». Sigfrido e Brunilde: il sacramento dell’amore libero; l’inizio dell’Età dell’oro; il crepuscolo degli dei della vecchia morale! Il male viene abolito… Il naviglio di Wagner filò a lungo, lietamente, su questo cammino. E senza dubbio Wagner vi cercava il suo scopo più alto. – Che accadde? Una disgrazia. Il naviglio di Wagner dette in uno scoglio; e si trovò incagliato. Lo scoglio era la filosofia di Schopenhauer: Wagner era ridotto all’immobilità da una veduta opposta del mondo. Che aveva egli messo in musica? L’ottimismo. Wagner rimase confuso. Di più: un ottimismo al quale Schopenhauer aveva dato un epiteto crudele: l’ottimismo svergognato. La confusione di Wagner raddoppiò. Riflettè lungamente: la sua situazione parve disperata… Ei vide infine dischiudersi una via d’uscita: cosa accadrebbe s’egli, dello scoglio nel quale era capitato, facesse un termine progettato, la premessa del suo pensiero, la direzione voluta del suo viaggio? Capitare quivi appunto – anche questo poteva essere uno scopo. Bene navigavi, cum naufragium feci… E si mise a tradurre L’Anello in lingua schopenhaueriana. Tutto va di traverso, tutto crolla, il nuovo mondo è cattivo quanto quanto l’antico: il nulla della circe indiana fa segno… Brunilde che, secondo il primitivo disegno, dovea congedarsi da noi cantando un inno in onore dell’amore libero, allettando il mondo con l’utopia socialista del «tutto andrà per il meglio», Brunilde ha ora ben altro da fare. Deve innanzi tutto studiare Schopenhauer; deve mettere in versi il libro quarto del Mondo come Volontà e rappresentazione… Wagner fu salvo. E, sul serio, si trattava d’una redenzione. Il beneficio del quale Wagner è debitore a Schopenhauer è inestimabile. Il filosofo della decadenza ha reso a se stesso l’artista della decadenza.

4.

L’artista della decadenza – ecco la parola. E qui cominciò a parlare seriamente. Mi guardo bene dal restare spettatore inoffensivo quando questo decadente ci rovina la salute – e, con la salute, la musica. D’altronde: Wagner è veramente un uomo? Non è piuttosto una malattia? Egli rende infermo tutto ciò che tocca: egli ha reso malata la musica. E’ un decadente tipico che si sente necessario col suo gusto corrotto (ch’ei vorrebbe far credere un gusto superiore), che riesce a far valere la sua corruzione come una legge, come un progresso, come un adempimento. E nessuno si mette in guardia. La sua potenza seduttrice giunge al prodigio, l’incenso fuma in torno a lui, i suoi errori son chiamati «vangelo» – e non v’ha che i poveri di spirito che si siano lasciati persuadere! Ho voglia di aprire un po’ le finestre. Aria! Più aria! Che si creda a Wagner in Germania non mi sorprende. Mi sorprenderebbe il contrario. I Tedeschi si son plasmato un Wagner che ben possono venerare: non furono mai psicologi: esprimono la loro riconoscenza comprendendo di traverso. Ma che egualmente si sia creduto in Wagner a Parigi, ove, per così dire, non si è che psicologi! E a Pietroburgo, ove si presentono cose che neppure a Parigi si intuiscono! Come dev’essere imparentato, Wagner, a tutta cotesta società europea di decadenza per non essere giudicato decadente! Egli le appartiene; è il suo protagonista, il suo illustre nome… Si onora sé stessi elevandolo fin sulle nubi. – Poiché il fatto di non difendersi da lui è già un simbolo di decadenza. L’istinto s’è atrofizzato. Quel che si dovrebbe temere è precisamente quello che attrae. Si porta alle labbra e si beve ciò che trascina più presto nel fondo dell’abisso. Volete un esempio? Basta osservare il regime che gli anemici, i gottosi, o i diabetici si prescrivono. Definizione del vegetariano: un essere che ha bisogno di una dieta corroborativa. Considerar come nocivo ciò che è nocivo, poter interdirsi qualcosa di nocivo, è ancora un segno di giovinezza, di forza vitale. L’esaurito si sente attratto da ciò che è nocivo: il vegetariano dai legumi. La malattia stessa può essere uno stimolante della vita: solo, bisogna essere abbastanza sani per uno stimolante siffatto! – Wagner accresce l’esaurimento; è per ciò ch’egli attrae i deboli e gli esauriti. Oh! La gioia di serpente a sonagli del vecchio maestro, quando vide venire a sé sopratutto i «fanciulletti!» Io metto innanzi questo punto di vista: l’arte di Wagner è malata. I problemi ch’ei porta sulla scena – puri problemi d’isterismo -, quel che v’ha di convulsivo nelle sue passioni, la sua sensibilità irritata, il suo gusto ch’esige ingredienti sempre più forti, la sua instabilità ch’egli traveste principalmente, e sopratutto la scelta dei suoi eroi e delle eroine (un museo di malati!): tutte queste cose, unite insieme, ci presentano un quadro patologico che non lascia alcun dubbio: Wagner è un nevrotico. Nulla forse è oggi più noto, nulla in tutti i casi è meglio studiato del carattere proteiforme della degenerazione che si crisalida qui, in un’arte e in un artista. I medici e i fisiologi hanno in Wagner il loro caso più interessante, e almeno un caso completissimo. Appunto perché nulla è più moderno di questa malattia generale di tutto l’organismo, di questa decrepitezza, e di questa sovraeccitazione di tutta la meccanica nervosa, Wagner è l’artista moderno per eccellenza, il Cagliostro della modernità. Nella sua arte si trova mescolato, nella più seducente maniera, quanto v’ha oggi di più necessario a tutti, – i tre grandi stimolanti degli esauriti, la brutalità, l’artificiosità e l’innocenza (l’idiozia). Wagner è una grande calamità per la musica. Ha intuito in essa un mezzo per eccitare i nervi stanchi, – ed è così che ha reso malata la musica. Il suo genio inventivo supera se stesso nell’arte di pungere i più esauriti, di richiamare in vita i mezzomorti. E’ maestro nell’arte dei passi ipnotici, abbatte come tori i più forti. Il successo di Wagner – il suo successo sui nervi, e per conseguenza sulle donne – ha fatto di tutti gli ambiziosi del mondo musicale altrettanti discepoli della sua arte occulta. E non soltanto gli ambiziosi, ma anche i maligni… Ai nostri giorni non si fa danaro che a mezzo di musica malata. I nostri teatri vivono di Wagner.

5.

Mi permetto nuovamente qualche ricreazione. Imagino che il successo di Wagner possa prender corpo, vestire una forma, mascherarsi da musicista, sapiente e filantropico, mescolarsi a giovani artisti. In qual modo voi pensate ch’ei possa esprimersi? – Amici miei, egli direbbe, quattro parole tra noi. E’ più facile far musica cattiva che buona. E se ciò fosse anche più proficuo, più efficace, più persuasivo, più entusiasmante, più certo? Più wagneriano?… Pulchrum est paucorum hominum. E’ una grande disgrazia. Noi comprendiamo il latino, comprendiamo forse pur il nostro vantaggio. Il bello ha le sue spine: lo sappiamo. E allora, perché la bellezza? E non, piuttosto, il grande, il sublime, il gigantesco, ciò che scuote le masse? – E ancora una volta: è più facile esser gigantesco che bello: questo lo sappiamo… Conosciamo le masse, conosciamo il teatro. I migliori che vi si trovano – adolescenti germanici, Sigfridi cornuti ed altri wagneriani – han bisogno del sublime, del profondo, dello schiacciante. Di tutto questo noi siamo capaci. E gli altri dell’assistenza, i cretini della civiltà, i piccoli attediati, gli eterni feminini, le persone che digeriscono con gioia, in una parola il popolo, ha egualmente bisogno del sublime, del profondo, dello schiacciante. Hanno tutti una logica sola. «Colui il quale ci rovescia al suolo è forte; colui il quale ci eleva è divino; colui il quale ci suggestiona è profondo». Decidiamoci, signori musicisti; noi vogliamo rovesciarli al suolo, noi vogliamo elevarli, noi vogliamo suggestionarli. Noi siamo anche capaci di tutto questo. Quanto a suggestione, a suggerimenti di fantasticaggini, è qui precisamente che ha suo punto di partenza la nostra idea dello stile. Innanzi tutto, niente pensiero! (nulla è più compromettente d’un pensiero!) ma lo stato d’animo che precede un pensiero! Il germe del pensiero increato, la promessa del pensiero futuro, il mondo quale esisteva innanzi la creazione divina, una recrudescenza del caos… Il caos suggerisce presentimenti… Per usare il linguaggio del maestro: l’infinità, ma senza melodia. Per quanto riguarda, in secondo luogo, l’arte di capovolgere, essa appartiene di già, in parte alla fisiologia. Studiamo innanzi tutto gli strumenti. Taluni di essi commuovono fino alle viscere (- aprono le porte, per parlare con Haendel), altri affascinano il midollo spinale. Il colore del suono è decisivo; quel che ragiona è quasi indifferente. Insistiamo su questo punto. Perché prodigarci altrimenti? Nel suono bisogna esser caratteristici sino alla follia! Se col suono noi sappiamo popolare l’immaginazione, il nostro spirito ne trarrà tutto il beneficio! Irritiamo i nervi, accoppiamoli, maneggiamo il tuono e il fulmine, – ecco ciò che rovescia tutto. Ma innanzi a ogni altra cosa è la passione che rovescia tutto. Intendiamoci bene sulla passione. Si può fare a meno di tutte le virtù del contrappunto, è inutile d’aver imparato alcuna cosa, – si sa sempre sonare la passione! La bellezza è difficile: guardiamoci della bellezza!… E sopratutto della melodia! Calunniamo, amici miei, calunniamo, se teniamo ancora un poco all’ideale, calunniamo la melodia. Nulla è più dannoso d’una bella melodia! Nulla fa perdere più sicuramente il gusto! Siamo perduti, amici miei, se si torna ad amare le belle melodie!… Assioma: la melodia è immorale. Dimostrazione: Palestrina. Moralità: Parsifal. L’assenza di melodia santifica… Ed ecco la definizione di passione. La passione – ossia la ginnastica del brutto sulla corda dell’inarmonico. – Osiamo, amici miei, osiamo d’esser brutti. Wagner l’ha osato. Rimescoliamo, dinanzi ai nostri passi, senza timore, la fanghiglia delle più ributtanti armonie! Non risparmiamo le nostre mani! E’ cosi appunto che noi diventiamo naturali. Un ultimo consiglio! Un consiglio che forse riassume tutti gli altri, – Siamo idealisti. E’ quanto possiamo fare di più saggio, se non quanto v’ha di più ragionevole. Per elevare gli altri bisogna elevare sé stessi. Vaghiamo di là dalle nubi, arringhiamo l’infinito, mettiamoci d’accordo i grandi simboli! Sursum! Bumbum! Non v’è consiglio migliore. Il «petto gonfio» sia il nostro argomento, il «bel sentimento» il nostro patrocinatore. La virtù ha ragione anche del contrappunto. «Come potrebbe non esser buono quegli che ci rende migliori?» Così ha ragionato sempre l’umanità. Rendiam dunque l’umanità migliore – è così che si diventa buoni (è così che si diventa magari «classico» – Schiller divenne «classico»). La ricerca delle basse seduzioni dei sensi, la ricerca della pretesa bellezza, ha snervato gl’italiani: restiamo tedeschi! Lo stesso Mozart nei suoi rapporti con la musica – Wagner ce l’ha detto a mò di consolazione – era in fondo frivolo… Non consentiamo mai che la musica possa servire di rilasciamento, che «allieti», che «faccia piacere». Non facciamo piacere, mai! – saremmo perduti se si tornasse all’idea dell’arte edonistica… E’ un cattivo Settecento… Invece nulla sarebbe di tanto salutare quanto, sia detto in confidenza, una certa dose… di santocchieria: sit venia verbo. Ciò conferisce una certa dignità. – E scegliamo l’ora nella quale conviene di vedere nero, di sospirare in publico, di sospirare cristianamente, di far mostra di grande pietà cristiana. «L’uomo è perduto: chi lo salverà? Come sarà salvato?» Non rispondiamo. Teniamoci in circospezione. Poniam freno ai nostri desideri ambiziosi che vorrebbero farci fondatori di religioni. Ma nessuno deve sospettare che noi non lo salviamo, che la nostra musica sola non salvi… (Vedi il trattato di Wagner: La religione e l’arte).

6.

Basta! Basta! Temo che traverso i miei motti giocondi non si riconosca con chiarezza la sinistra verità – l’imagine d’uno scadimento dell’arte, ed anche uno scadimento degli artisti. Quest’ultimo, scadimento di carattere, troverebbe forse la sua espressione provvisoria nella formula seguente: il musicista va facendosi ora commediante, la sua arte s’evolve verso l’arte di mentire. Avrò occasione (in un capitolo della mia opera principale, col titolo Contributo alla fisiologia dell’Arte) di mostrare più chiaramente che l’evoluzione generale dell’arte nel senso dello istrionismo è una manifestazione di degenerazione fisiologica (più esattamente una forma dell’isterismo), appunto quanto ciascuna delle corruzioni e delle infermità dell’arte inaugurante da Wagner: per esempio, l’instabilità della sua ottica che costringe a mutar continuamente di postura di fronte ad essa. Non si capisce niente di Wagner se altro non si scorge in lui che un gioco della natura, un caso, un capriccio, un accidente. Non era un genio con «lacune», «sviato» e «contradittorio», come si è pur detto. Wagner è qualcosa di concreto, un decadente tipico, al quale manca ogni «libero arbitrio» e ciascun tratto del quale risponde a sua necessità. Se v’ha qualcosa d’interessante in Wagner è senza dubbio la logica con la quale un vizio fisiologico si trasforma in pratica e in procedimento, in innovazione nei principii, in crisi di gusto, andando di passo in passo, di conclusione in conclusione. Non mi fermo questa volta che su la questione dello stile. – Da che cosa è caratterizzata sempre qualsiasi decadenza letteraria? Dal fatto che la vita non è più nel tutto. La parola diventa sovrana e fa un salto fuor della frase, la frase s’ingrossa e oscura il senso della pagina, la pagina prende vita a spese del tutto; – il tutto non è più un tutto. Ed è quivi il segno di ciascuno stile di decadenza: anarchia degli atomi, disgregazione della volontà, «libertà dell’individuo» per parlare il linguaggio della morale, – e per farne una teoria politica: «Diritti eguali per tutti». La vita, la stessa vitalità, la vibrazione e l’esuberanza della vita ricacciate negli organi più infimi, – il resto povero di vita. Ovunque la paralisi, la stanchezza, la catalessia, oppure il dissidio e il caos: l’uno e l’altro balzanti agli occhi sempre più, a misura che si ascende verso superiori forme di organizzazione. Il tutto è d’altronde completamente privo di vita: è un’agglomerazione, un’addizione artificiale, un composto fittizio. Vi sono in Wagner, al principio, dei fenomeni di allucinazione, non toni ma gesti. E’ pei gesti ch’egli cerca innanzi tutti la semiottica musicale. Se si vuole ammirarlo è qui che bisogna vederlo all’opera: come scompone, come separa in piccole unità, come anima coteste unità, come le fa risaltare, come le rende visibili. Ma in questo la potenza si esautora: il resto val niente. Quanto è misera, impacciata e novizia la sua arte di «sviluppare», lo sforzo ch’ei compie per mescolare almeno ciò che non è sbocciato separatamente. La sua maniera di procedere rammenta quella dei fratelli de Goncourt, il cui stile somiglia per tanti altri riguardi a quello di Wagner: si è presi da una specie di compassione di fronte a una debilità siffatta. Che Wagner abbia nascosto sotto colore di principio la sua inattitudine a creare una forma organica, ch’egli affetti uno «stile drammatico» là ove non vediamo che una impotenza di stile, tutto ciò risponde bene all’audace consuetudine che Wagner ha serbata per tutta la sua vita: egli stabilisce un principio là dove manca una facoltà (ben diverso in questo – sia detto per incidenza – dal vecchio Kant che avea la consuetudine di un’altra arditezza; di attribuire una «facoltà» all’uomo ovunque gli mancasse un principio…). Lo ripeto: Wagner non è degno di ammirazione e d’amore che nell’invenzione di quanto v’ha di più basso: la concezione dei dettagli, – s’han tutte le ragioni di proclamarlo, in questo, un maestro di prim’ordine, il nostro più grande miniaturista musicale, che pone nello spazio più ristretto una infinità d’intenzioni e di sottigliezze. La sua ricchezza di colori, di mezze tinte, di chiarità misteriose ed evanescenti ci guasta fino al punto che, dopo lui, tutti gli altri musicisti ci sembran troppo duri. Credetemi, non bisogna farsi la più alta idea di Wagner da ciò che piace attualmente a lui. Questo è stato inventato per sedurre le masse, e noi ce ne allontaniamo come ci allontaneremmo da un affresco troppo stridente. Che c’importa dell’irritante brutalità del preludio di Tannȁhuser? O del circo equestre delle Walchirie? Tutto ciò che è diventato popolare della musica di Wagner, anche fuor del teatro, è d’un gusto dubbio, fatto per pervertire il gusto. La marcia del Tannȁhuser ci par sospetta di prudommia: il preludio del Vascello Fantasma è molto rumore per nulla; il preludio del Lohengrin ci dà un primo esempio troppo insidioso, troppo ben riuscito, del modo col quale s’ipnotizza a mezzo della musica (- io respingo qualsiasi musica la cui finalità non vada oltre la seduzione dei nervi). Ma a prescindere da Wagner magnetizzatore e pittore a fresco, v’è anche un altro Wagner il quale mette da parte tante cosette preziose: la nostra più grande malinconia in musica, piena di sogguardi, di tenerezze e di consolazioni che nessuno avea conosciute prima di lui: il maestro nell’espressione di una felicità melanconica e assopita… Un dizionario delle più intime parole di Wagner, frasi brevi da cinque a quindici misure, sempre musica che nessuno conosce… Wagner aveva la virtù dei decadenti, la compassione.

7.

«Benissimo, ma in qual modo cotesto decadente può farvi perdere il gusto se non siete un musicista, se per caso non siete un decadente?» E’ tutto il contrario! Come non lo si può? Provate dunque! – Voi non sapete chi è Wagner: un commediante di prim’ordine! V’è in generale al teatro un effetto più profondo, più possente? Guardate un po’ quei giovani – irrigiditi, lividi, senza respiro! Ecco dei wagneriani: non capiscono niente di musica, – e intanto Wagner li domina… L’arte di Wagner esercita una pressione di cento atmosfere: inchinatevi, non si può fare altrimenti… Il commediante Wagner è un tiranno, il suo patos manda in rovina qualsiasi gusto, qualsiasi resistenza. Chi dunque possiede una egual potenza di persuasione dei gesti, chi dunque vede con tanta nettezza, e innanzi tutto, l’atteggiamento? Questa oppressura del patos wagneriano, questo attaccamento implacabile a un sentimento estremo, questa lunghezza terrorizzante delle situazioni ove l’attesa di un istante già vi soffoca! Wagner, d’altronde, era davvero un musicista? In tutti i casi egli era anche più, altra cosa: un incomparabile istrione, il più grande dei mimi, il più straordinario genio del teatro che i Tedeschi abbian mai posseduto, il nostro ingegno scenico per eccellenza. Il posto di Wagner è fuori la storia della musica: non bisogna confonderlo coi grandi geni di cotesta storia. Wagner e Beethoven – ecco una bestemmia -, e insomma un’ingiustizia anche per Wagner… Quanto a musicista egli non fu, dopo tutto, se non quanto era per sua essenza: divenne musicista, divenne poeta, poiché il tiranno che portava in sé, il suo genio di commediante, lo forzava a un siffatto divenire. Non si capirà mai nulla di Wagner senza aver prima capito il suo istinto dominante. Wagner non era un musicista d’istinto. L’ha provato sacrificando ogni regola e, per parlar chiaro, ogni stile nella musica, per farne ciò di cui egli avea bisogno,una retorica teatrale, un mezzo d’espressione, un rafforzamento di mimica, di suggestione, di pittoresco psicologo. Wagner ci appare qui come inventore e creatore e novatore di prim’ordine – ha accresciuto all’infinito la potenza d’espressione della musica -; è il Victor Hugo della musica considerata come linguaggio: supponendo sempre che la musica possa, in talune circostanze, non esser musica, ma un linguaggio, un utensile, un’ancilla drammaturgica. La musica di Wagner, se le si toglie la protezione del gusto teatrale, un gusto assai tollerante, è semplicemente cattiva musica, la più cattiva forse che stata mai fatta. Quando un musicista non sa più contare fino a tre, diventa un musicista «drammatico», diventa «wagneriano»… Wagner ha quasi scoperto qual magia possa essere esercitata anche con una musica incoerente e ridotta in qualche modo alla sua forma elementare. La conscienza che di ciò egli aveva raggiunse proporzioni terribili, com’anche il suo istinto di fare a meno di quelle regole supreme che sono lo stile. L’elementare basta – suono, movimento, colore; e insomma la materialità della musica. Wagner non ha mai calcolato come musicista, con una coscienza di musicista: vuole l’effetto, nient’altro che l’effetto. Ed egli conosce bene l’elemento sul quale deve produrre cotesto effetto! Possiede in questo l’essenza di scrupoli che possedeva Schiller, che possiede ciascun uomo di teatro; ed anche quel disprezzo del mondo ch’ei mette ai suoi piedi!… Si è commediante allorché sul resto dell’umanità si ha il vantaggio di aver intuito che quanto deve produrre un’impressione di verità non dev’esser vero. Questa frase fu formulata da Talma: contiene tutta la psicologia del commediante; contiene anche – non ne dubitiamo – la morale del commediante. La musica di Wagner non è mai vera. – Ma essa è considerata come vera; e così deve essere. – Finché si resta ingenui, ed anche wagneriani, si crede alla ricchezza di Wagner; lo si considera come un prodigio di prodigalità, ed anche come un grande proprietario d’immobili nel dominio di suoni. Si ammira in lui quel che la gioventù francese ammira in Victor Hugo, la «prodigalità regale». Poi li si ammira, l’uno e l’altro, per motivi contrari: come maestri e modelli di economia, come anfitrioni prudenti. Nessuno li eguaglia nell’arte di presentare con poca spesa una mensa principescamente imbandita. Il wagneriano, col suo stomaco credulo, si soddisfa magari delle illusioni di nutrimento presentategli con arte di magia dal suo maestro. Noialtri che, nei libri come nella musica, pretendiamo innanzi tutto la sostanza e che non sapremmo accontentarci di mense «rappresentate», noi ci troviamo assai peggio. Per parlare più chiaramente: Wagner non ci dà abbastanza da porre sotto i denti. Il suo recitativo – carne scarsa un poco d’ossa e molto brodo – io lo chiamo recitativo «alla genovese»: con la qual cosa non intendo punto d’essere amabile verso i Genovesi, si bene verso il vecchio recitativo, – il recitativo secco. Per quanto riguarda i leitmotivs wagneriani, mi mancano le conoscenze culinarie per essi. Darei loro, forse, se vi fossi costretto, il valore di salvadenti, una specie d’occasione, per sbarazzarsi dei residui d’alimenti. Vi sono anche le «arie» di Wagner… E qui non aggiungo parola.

8.

Anche nell’abbozzo dell’azione Wagner è innanzi tutto commediante. Ciò ch’egli vede con immediatezza è una scena di effetto assolutamente certo, una vera azione con altorilievo di gesti, una scena che scompiglia, – e di cotesta scena egli approfondisce l’idea, ed è da essa ch’egli deduce i caratteri. Tutto il resto ne scaturisce, in conformità d’una economia tecnica che non ha ragione alcuna d’essere sottile. Non è il pubblico di Corneille che Wagner ha dovuto trattare: egli non ha a che fare che col secolo decimonono. Wagner giudicherebbe «della sola cosa necessaria» press’a poco come ne giudica oggi qualsiasi commediante: una serie di scene forti, l’una più forte dell’altra, – e, in tutto questo, molte abili stupidità. Ei cerca dapprima di garentire a sé stesso l’effetto della sua opera; comincia dal terzo atto, fa la prova della sua opera a mezzo dell’effetto finale ch’essa produce. Con un siffatto intendimento del teatro come filo conduttore non v’è pericolo di fare un dramma senz’accorgersene. Il dramma esige una dura logica: ma che importava a Wagner la logica! Ancora una volta: non era il pubblico di Corneille col quale egli dovea trattare: non avea dinanzi a se che Tedeschi! Si sa bene a qual problema il drammaturgo ponga tutta la sua forza e come talvolta sudi acqua e sangue: bisogna dare altrigo la necessità, ed egualmente darla allo svolgimento, in maniera che l’uno e l’altro non siano possibili che in un solo modo, che l’uno e l’altro producano l’impressione della libertà (principio del minimo sforzo). Ebbene, in tutto ciò Wagner suda quanto meno è possibile di sangue; ed è certo che per complicare e risolvere intrighi egli compia lo sforzo minimo. Si metta sotto al microscopio non importa quale «intrigo di Wagner» – vi sarà di che ridere, ve lo prometto. Niente di più allegro dell’intrigo del Tristano, se non forse quello dei Maestri Cantori. Non v’è da illudersi: Wagner non è un drammaturgo. Gli piace la parola «dramma» – ecco tutto: gli son sempre piaciute le parole sonanti. Ciò non ostante la parola «dramma» nei suoi scritti non è che un semplice malinteso (- ed anche un’abilità: Wagner fece sempre il gran signoredi fronte alla parola «opera»); così come la parola «spirito» nel Nuovo Testamento non è che malinteso. – Già egli non era abbastanza psicologo per il dramma; sfuggiva istintivamente alla motivazione psicologica, – e come? Mettendo sempre l’idionsicrasia al suo posto… Moderno, non è vero? E parigino! E decadente!… Gl’intrighi, sia detto di passaggio, che Wagner sa effettivamente sciogliere mediante le sue invenzioni drammatiche son di tutt’altra natura. Un esempio. Supponiamo che Wagner abbia bisogno d’una voce di donna. Un intiero atto senza voce di donna – non va! Ma per il momento nessuna delle «eroine» è libera. Che fa Wagner? Emancipa la più vecchia femmina del mondo, Erda: «Venite dunque, vecchia nona! Bisogna cantare!» Erda canta. Lo scopo di Wagner è raggiunto. Subito dopo ei ci sbarazza della vecchia signora. «Perché siete dunque venuta? Ritiratevi. Continuate, vi prego, a dormire». In riassunto, una scena tutta pienadi fremiti psicologici, la quale fa sì che il wagneriano possa presentire… – «Ma il contenuto dei testi wagneriani! Il loro contenuto mitico, il loro contenuto eterno!» – Domanda: come viene analizzato cotesto contenuto eterno? – il chimico risponde: si traduca Wagner nel reale, nel moderno, (siamo più crudeli ancora) nel borghese! Che accade allora di Wagner? – In confidenza, ho fatto l’esperimento. Nulla di più divertente, nulla di più raccomandabile ai passeggiatori che di raccontar Wagner in proposizione ringiovanite: per esempio, Parsifal come candidato in teologia dopo esser passato per l’insegnamento d’un liceo (- quest’ultimo punto è indispensabile per la pura insania). Quale sorpresa! Lo credereste? Tutte le eroine di Wagner, senza eccezione, non appena sbarazzate del loro travestimento eroico, somigliano a Madame Bovary fino a confondersi con essa! – si comprenderà che reciprocamente era agevole a Flaubert di tradurre la sua eroina in scandinavo o in cartaginese, per offrirla di poi, così mitologizzata, perché servisse da libretto, a Wagner. A conti fatti, Wagner non sembra essersi interessato ad altri problemi oltre quelli che oggi interessano i piccoli decadenti parigini. Sempre a cinque passi dall’ospedale! Veri problemi moderni! Veri problemi da grandi città – non ne dubitate!… Avete osservato (ciò entra nel medesimo ordine di idee) che le eroine di Wagner non hanno figli? Non possono averne… La disperazione messa da Wagner nell’attaccare il problema della nascita di Sigfrido mostra come il suo modo di sentire su questo punto fosse moderno. Sigfrido emancipa la donna, – ma senza speranza di posterità. – Ed ecco, per finire, un fatto che ci lascia pensosi: Parsifal è padre di Lohengrin! Com’è accaduto? – Bisogna ricordare qui che «la castità fa miracoli»?… wagnerus dixit princeps in castitate auctoritas.

9.

Ancora una parola, di passaggio, sugli scritti di Wagner: essi sono, fra l’altro, una scuola di prudenza. La procedura di Wagner può essere usata in cento altri casi: chi ha orecchi ascolti. Così, forse, avrò qualche diritto alla pubblica riconoscenza, dando una espressione precisa dei tre più preziosi procedimenti. Tutto ciò che Wagner non può è spregevole. Wagner potrebbe ancora varie altre cose , ma non vuole per rigore di principio. Tutto ciò che può Wagner nessuno farà dopo di lui, nessuno lo ha fatto prima di lui, nessuno dovrà farlo dopo di lui… Wagner è divino. Queste tre tesi sono la quintessenza della letteratura di Wagner: il resto non è che… «letteratura». Nessuna musica ha avuto finora bisogno di letteratura: sarà bene cercarne qui la ragion sufficiente… Forse perché la musica di Wagner è troppo difficile a capirsi? Oppure egli temeva, al contrario, che fosse troppo facilmente capita – che fosse capita non abbastanza difficilmente? Difatti egli ha passato la sua vita a ripetere questa proposizione: che la sua musica non significa soltanto musica! Ma molto più! Infinitamente più!… «non è che musica» – così non parla alcun musicista. Lo ripeto, Wagner non poteva crear cose tutte d’un pezzo, non aveva la scelta,doveva fare opere scucite, «motivi», atteggiamenti, formule, raddoppiamenti, complicazioni; e restò retore in quanto musicista -; gli bisognò dunque, per principio, di porre nel primo piano il suo «ciò significa…». «La musica non è mai altro che un mezzo,»: ecco la sua teoria; ecco, innanzi tutto, la sola pratica che gli fosse possibile. Ma nessun musicista pensa così. – Wagner aveva bisogno di letteratura per persuader l’universo intero a prender la sua musica sul serio, a crederla profonda «perché essa significa l’infinito»; egli fu per tutta la sua vita il comentatore dell’«idea». – Cosa significa Elsa? Non v’è dubbio: Elsa è il genio inconsciente del popolo. (- «Nel rendermi conto di ciò, io divenni necessariamente un perfetto rivoluzionario» -). Ricordiamoci che Wagner era giovine nel tempo in cui Hegel e Schelling sviavano gli spiriti; ch’egli intuì, ch’egli prese a piene mani ciò che solamente i Tedeschi prendono sul serio – «l’idea», ciò è dire qualcosa di oscuro, d’incerto, di misterioso; e che fra i Tedeschi la chiarezza è un’obiezione e la logica una confutazione. Schopenhauer, con durezza, ha accusato di slealtà l’epoca di Hegel e di Schelling, – con durezza, ma pur con ingiustizia: anch’egli, il vecchio falso monetiere pessimista, non se l’è sbrigata «più lealmente» dei suoi contemporanei più celebri. Lasciamo la morale fuori causa: Hegel è un gusto… e non soltanto un gusto tedesco, ma un gusto europeo! – Un gusto che Wagner a capito! – per il quale egli si sentiva nato! Ch’egli ha reso immortale! Solo, egli ne fece l’applicazione alla musica – s’inventò uno stile che significava «l’infinito», – divenne l’erede di Hegel… la musica come «idea». E come fu compreso, Wagner! – La stessa categoria d’uomini che s’entusiasmava per Hegel s’entusiasma oggi per Wagner; nella sua scuola, finanche, si scrive alla maniera di Hegel! – Innanzi tutto egli è stato compreso dall’adolescente tedesco. Le due parole «infinito» e «significazione» gli bastarono da sole: ed egli ne sentì un benessere incomparabile. Non è con la musica che Wagner ha conquistato i giovani, è con l’«idea»: è la ricchezza d’enigmi della sua arte, il suo gioco a nascondersi fra cento simboli, la policromia del suo ideale che condusse quei giovani a Wagner per via d’attrazione; è il genio nebiloso di Wagner, la sua maniera d’afferrare, di scivolare, di frugare nell’aria, d’essere nello stesso tempo ovunque e in nessun luogo: esattamente il medesimo procedere adoperato da Hegel per sedurre ed attrarre gli uomini del suo tempo! In mezzo alla molteplicità, alla plenitudine, e all’arbitrarietà di Wagner, quei giovani si ritengono giustificati di fronte a sé medesimi, – si credono «salvi». Ascoltano tremanti in qual modo nell’arte sua i grandi simboli si fan sentire a guisa d’un leggero romoreggiar di tuoni avanzante da brume lontane; né s’impazientano quando quest’arte diventa talvolta grigia, orribile e fredda. Non sono essi, come Wagner appunto, della stessa specie del cattivo tempo, del tempo tedesco? Wotan è il loro dio: ma Wotan è il dio del cattivo tempo… Hanno ragione, quei giovanotti tedeschi, dal momento ch’essi son così fatti: come potrebbero essi rimpiangere l’essenza di ciò che noialtri Alcioniani rimpiangiano in Wagner – la gaia scienza; il piè leggero; lo spirito, il fuoco, la grazia; la grande logica, la danza delle stelle; l’insolente spiritualità; i fremiti di luce del Mezzogiorno; il mare muto – la perfezione…

10.

Ho detto qual è il posto di Wagner – ho detto che non è nella storia della musica. Ciò non ostante, qual è il significato di lui in questa storia? L’avvento del commediante nella musica: fatto capitale che dà da pensare e fors’anche da temere. La sua formula è «Wagner a Liszt». – Mai per l’innanzi la lealtà dei musicisti, la loro «autenticità» fu più pericolosamente messa a prova. Si può toccarla col dito: il grande successo, il successo ottenuto sulle masse non è più dalla parte dell’autenticità, – bisogna essere commediante per ottenerlo! Victor Hugo e Riccardo Wagner – significano una sola e medesima cosa: che nella civiltà di decadenza, ovunque il potere sovrano cade in mano alle masse , l’autenticità diventa superflua, nociva, isolatrice. Solo il commediante desta ancora il grande entusiasmo. Così nasce l’età d’oro del commediante, – per lui e per tutto ciò ch’è della sua specie. Wagner procede con pifferi e tamburi alla testa di tutti gli artefici del discorso, dell’interpretazione, della virtuosità; ha dapprima convinto i direttori d’orchestra, i macchinisti e i cantori di teatro. Non dimentichiamo i musicisti d’orchestra – egli li «salvò» dalla noia… Il movimento creato da Wagner si prolunga fin nel dominio della conoscenza: intere scienze speciali sorgono lentamente da una scolastica secolare. Per citare un esempio, io rilevo particolarmente i meriti di Hugo Riemann per quanto riguarda la ritmica: è il primo che abbia fatto valere per la musica l’idea fondamentale della interpunzione (dandole disgraziatamente un brutto nome: egli la chiama «fraseologia»). – Tutti questi, lo dico con riconoscenza, sono i migliori ammiratori di Wagner, i più stimabili, ed è semplicemente nel loro diritto di venerare Wagner. Un medesimo istinto li lega fra di loro: essi vedono in lui il loro tipo più elevato, si sentono tramutati in potenza, in grande potenza, da quand’egli li ha infiammati del suo proprio ardore. E’ in questo, se in qualcosa lo fu, che l’influsso di Wagner è stato veramente benefico. Mai per l’innanzi, in questo campo, s’era tanto pensato, tanto voluto, tanto lavorato. Wagner ha dato a tutti questi artisti una conoscenza nuova: quel che ora essi esigono da sé medesimi, quel che ora ottengono da sé stessi, mai lo avevano chiesto ed ottenuto prima di Wagner, – erano dapprima un po’ troppo modesti. Un diverso spiriti domina sul teatro da che Wagner vi regna: si esige quanto v’ha di più difficile, si rimprovera durante, raramente si loda, – il buono, l’eccellente servono di norma. Non si ha più bisogno di gusto; e nemmeno di voce. Non si canta Wagner se non con voce distrutta: si ha da questo un effetto «drammatico». Anche i doni naturali sono esclusi. L’espressivo ad ogni costo, come lo esige l’ideale wagneriano, l’ideale di decadenza, fa cattiva lega coi doni naturali. Non occorre che della virtù – cioè dire disciplina, automatismo, «rinunzia». Né gusto, né voce, né talento: il teatro di Wagner ha bisogno d’una sola cosa – di Germanici!… Definizione dei Germanici: obbedienza a gambe lunghe… V’è un profondo senso nel fatto che l’avvento di Wagner sia contemporaneo all’avvento dell’«Impero»: questi due fatti non indicano che una sola e medesima cosa – obbedienza a gambe lunghe. Non si è mai meglio obbedito, non si è mai meglio comandato. I direttori d’orchestra wagneriani, in ispecie, sono degni d’un secolo che i posteri chiameranno un giorno, con compassione, il secolo classico della guerra. Wagner s’intendeva bene del comandare; ed anche in questo è un grande maestro. Comandava per la sua implacabile volontà, per una perpetua disciplina, della quale fu l’incarnazione vera: Wagner fornisce forse, nella storia dell’arte, il più grande esempio del dominio di sé (lo stesso Alfieri, suo prossimo parente in quanto al resto, è sorpassato. Osservazione di un Torinese).

11.

Dalla costatazione che i nostri commedianti son più che non mai rispettati, non concluderemo certo che sono perciò meno dannosi… Ma chi dunque avrebbe ancora dubbi su quel che io voglio, – su le tre rivendicazioni per le quali il mio furore, la mia inquietudine, il mio amore per l’arte, mi han fatto aprir bocca? Che il teatro non sia più maestro delle arti. Che il commediante non sia più il seduttore degli artisti autentici. Che la musica non sia più un’arte di menzogna.

POST-SCRIPTUM.

La gravità di quest’ultime parole mi autorizza a comunicare taluni passi d’un trattato inedito, i quali dissiperanno almeno tutti i dubbi sulla serietà ch’io porgo in questa materia. Cotesto trattato ha per titolo: Quel che Wagner ci costa. L’adesione a Wagner costa caro. Ancor oggi ne abbiamo l’oscuro sentimento. Lo stesso successo di Wagner, la sua vittoria, non sradicano cotesto sentimento. Ma un tempo esso era forte, terribile, come un odio sordo, – e durò quasi pei tre quarti della vita di Wagner. La resistenza ch’egli trovò fra noialtri Tedeschi non sarà mai troppo altamente valutata e messa in onore. Ci si difendeva contro di lui come da una malattia – non con argomenti (non si confuta una malattia) ma con ostacoli, con diffidenza, con malanimo, con disgusto, con una cupa gravezza, come se in lui si nascondesse un gran pericolo. I signori estetici si son messi allo scoperto allorché fondandosi su tre scuole della filosofia tedesca, han fatto un’assurda guerra di «se» e di «ma» ai principii di Wagner: – che importavano a Wagner i principii, e magari i suoi! – I Tedeschi han dato prova d’intelligenza nel loro istinto, interdicendosi tutti i «se» e tutti i «ma». Un istinto s’infiacchisce quando si razionalizza: giacché per il fatto stesso che si razionalizza s’infiacchisce. Se vi sono sintomi indicanti che nonostante il carattere generale della decadenza europea esiste ancora un grado di salute, un istintivo sentore del nocivo, del pericolo che minaccia lo spirito tedesco, vorrei veder fra essi depreziata quanto meno è possibile quella sorda resistenza contro Wagner. Essa ci fa onore; ci consente pur di sperare. La Francia non avrebbe altrettanta sanità da mettere innanzi. I Tedeschi, i ritardatari per eccellenza nel corso della storia, son oggi il popolo civile più addietro degli altri in tutta l’Europa: e questo è un vantaggio, – perciò appunto essi sono relativamente più giovani. L’adesione a Wagner costa caro. Quella specie di paura che sentivano di lui, i Tedeschi non l’han disimparata che da poco, – il desiderio di sbarazzarsene sorgeva in essi ad ogni occasione. Si ricorda ancora una curiosa circostanza nella quale, proprio alla fine, quell’antica maniera di sentire ritornò a galla in inatteso modo? Ai funerali di Wagner, la prima società wagneriana tedesca, quella di Monaco, pose sulla sua tomba una corona la cui scritta divenne celebre d’un tratto. Diceva: «Redenzione al Redentore!» Tutti ammirarono l’elevata inspirazione che avea dettata quella scritta, il cui buon gusto era privilegio dei partigiani di Wagner; ma vi furon anche molti (strana cosa!) che fecero questa piccola correzione: «Redenzione del Redentore». Si respirò. L’adesione a Wagner costa caro! Misuriamo il suo effetto sulla coltura. Cosa dunque è stato portato in primo piano dall’agitazione creata da Wagner? Che cosa ha essa sviluppato in una scala sempre più grande? – Innanzi tutto l’arroganza dei profani e degli idioti in materia d’arte. Or essa vi organizza delle Società, vuole imporre il suo «gusto», vorrebbe anche giocar l’arbitro in rebus musicis et musicantibus. In secondo luogo: una indifferenza sempre più grande per ogni disciplina severa, nobile e coscienziosa a servigio dell’arte; la fede nel genio ne tiene il posto – o, per parlar più chiaro, l’impudente dilettantismo (- se ne trova la formula nei Maestri Cantori). In terzo luogo, ed ecco quel che è peggio: la Teatrocrazia -, la follia d’una credenza nel primato del teatro, nel diritto di sovranità del teatro sulle arti, sull’Arte… Ma bisogna dire cento volte in faccia ai wagneriani quel che è il teatro: non è mai altro che una manifestazione al di sotto dell’arte, qualcosa di secondario, qualcosa che è divenuto più grossolano, qualcosa che s’adatta al gusto delle masse dopo essere stata falsata da esse. A questo, Wagner, anche lui, non ha portato alcun mutamento: Bayreuth è grand’opera – e neppure buona opera… Il teatro è una sollevazione delle masse, un plebiscito contro il buon gusto… E’ precisamente quel che vien provato dal caso Wagner: egli ha guadagnato le masse, – ha pervertito il gusto, ha finanche pervertito il nostro gusto per l’opera! L’adesione a Wagner costa caro. Che fa essa dello spirito? Wagner affranca forse lo spirito? – Tutti gli equivoci, tutte le ambiguità gli convengono, e, in generale, tutto ciò che persuade gl’indecisi, senza ch’essi abbiano conscienza del perché della seduzione. Così Wagner è un seduttore di grande stile. Non v’è nel campo dello spirito, né stanchezza, né decrepitezza, né cosa mortale, distruttiva dell’istinto vitale, che non sia stata segretamente protetta dall’arte sua; – egli dissimula il più nero oscurantismo nelle pieghe luminose dell’ideale. Lusinga tutti gli istinti nihilisti (- buddisti) e li traveste in musica; lusinga ogni sorta di cristianesimo, ogni espressione religiosa della decadenza. Aprite bene gli orecchi: tutto ciò che è sempre sbocciato dal terreno della vita ammiserita, tutte le monete false della transcendenza e del dilà han trovato nell’arte di Wagner la più sublime interpretazione – non a mezzo di formule: Wagner è troppo astuto per adoperar formule – ma a mezzo d’una seduzione della sensualità che dal canto suo s’afferra nuovamente allo spirito per rammollirlo ed infiacchirlo. La musica divenuta Circe… In questo, la sua ultima opera è il suo più grande capolavoro. Il Parsifal serberà in eterno il suo rango nell’arte della seduzione come il colpo di genio della seduzione… Io ammiro quest’opera: vorrei averla fatta io; e, non avendola fatta, la comprendo… Wagner non è stato mai meglio inspirato che alla fine della sua vita. La raffinatezza nel connubio della bellezza e della malattia raggiunge qui una tale perfezione da proiettare in qualche modo un’ombra sull’arte anteriore di Wagner: questa ci pare troppo luminosa, troppo sana. Comprendete questo? La sanità, la luce, che agiscono come fossero ombre? Quasi come obiezioni? Eccoci già sul punto di diventare dei puri insensati… Non vi fu mai un più grande maestro nell’arte dei profumi gravi e jeratici, – non vi fu mai un più grande conoscitore, nel dominio dell’infinitamente piccolo, dei fremiti dell’immensità, di tutto ciò ch’è di genere feminino nel vocabolario della felicità! – Bevete dunque, amici miei, bevete il filtro di quest’erbe! Non troverete mai un più piacevole modo di snervare il vostro spirito, d’obliare la vostra virilità sotto un cespuglio di rose… Ah vecchio mago! Klingsor di tutti i Klingsor! Come sa ben farci la guerra! A noi, spiriti liberi! Come parla a beneficio di tutte le viltà dell’anima moderna, coi suoi accordi di magalda! – E mai la conoscenza ha inspirato un tale odio a morte! Bisogna esser cinico per non soccombere, bisogna saper mordere per non adorare qui. Via! Vecchio incantatore! Il cinico ti previene – cave canem… L’adesione a Wagner costa caro. Io osservo i giovani che furono a lungo esposti alla sua infezione. La più immediata azione ch’egli esercita, azione relativamente innocua, è il suo influsso del gusto. Wagner agisce come l’assorbimento progressivo delle bevande alcooliche. Smussa, impasta lo stomaco. Effetto specifico: degenerazione del sentimento ritmico. Il wagneriano finisce per chiamar ritmico quel che io, secondo un proverbio greco, chiamo «rimuovere la palude». Ancora più nociva è la perversione delle idee. Il giovane diventa un «idealista». Si crede al di sopra della scienza; e a tal riguardo si trova allo stesso livello del maestro. Viceversa, fa il filosofo; scrive le Foglie di Bayreuth; risolve tutti i problemi in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Tuttavia quel che v’è di più inquietante è la perversione dei nervi. Passeggiate la notte traverso una grande città: ovunque si sente violare istrumenti con una furia solenne, – un urlio selvaggio vi si mescola. – Che accade? – I giovani adorano Wagner… Bayreuth fa rima con stabilimento d’idroterapia. – (Telegramma tipico da Bayreuth: Bereits bereut – «di già rimpianti». -) Wagner è dannoso ai giovani; è nefasto per le donne. Medicalmente parlando, cos’è una wagneriana? Mi par che un medico non saprebbe abbastanza proporre alle giovani donne questo caso di conscienza: L’uno o l’altro. – Ma esse han già fatto la loro scelta. Non si possono servire due padroni in una sol volta, quando l’un dei due si chiama Wagner. Wagner ha salvato la donna; per compensarlo ella gli ha costruito Bayreuth. Sacrificio, abbandono completo: non v’è nulla che non gli si darebbe. La donna s’ammiserisce a vantaggio del maestro, diviene commovente, si denuda dinanzi a lui. La wagneriana – equivoco grazioso fra tutti: incarna la causa di Wagner, – in hoc signo Wagner trionfa… Ah, vecchio brigante! Ci rapisce i giovani; ci rapisce anche le donne per trascinarle nella sua caverna… Ah, vecchio minotauro! Quanto ci è già costato!ogni anno porta nel suo labirinto treni colmi delle più belle ragazze, dei più bei giovani, per divorarli, – ogni anno l’intiera Europa eleva il grido: «In cammino per Creta! In cammino per Creta!».

SECONDO POST-SCRIPTUM.

La mia lettera, sembra, è suscettibile di un malinteso. Su taluni volti appaiono i segni della gratitudine, d’una modesta allegrezza. Preferirei qui, come in molte cose, essere compreso. Ma da quando un animale nuovo devasta le vigne dello spirito germanico – voglio dire il verme dell’Impero, il celebre Rhinoxera – non una più delle mie parole vien compresa. La Gazzetta della Croce, essa stessa, me l’afferma, per non parlare del Central-blat letterario. – Ho dato ai Tedeschi il più profondo libro ch’essi posseggano, – e questa è ragion sufficiente perché non ne capiscano una parola… Se in questo scritto io fo guerra a Wagner – e per incidenza a un «gusto» tedesco -, se ho dure parole per il cretinismo di Bayreuth, ciò non implica per nulla ch’io voglia far festa a un altro musicista. Altri musicisti non contano per niente accanto a Wagner. Ad ogni modo tutto ciò va male. La decrepitezza è generale. La malattia ha origine profonda. Se a Wagner spetta la fama di aver ruinata la musica, come a Bernini quella di aver ruinata la scultura, ciò non è, a dir vero, colpa di Wagner. Egli non ha fatto che accelerare il movimento, – ma certo, in tal maniera che ci si ferma spaventati dinanzi a questo abisso, dinanzi a questo crollo improvviso. Egli possedeva l’ingenuità della decadenza: fu questa la sua superiorità. Ci credeva; non si fermava dinanzi ad alcuna logica della decadenza. Gli altri esitano, – ed è ciò che li distingue. Nient’altro!… Enumero quel che v’ha di comune fra Wagner e «gli altri»: l’abbassamento della forza organizzatrice; l’abuso dei mezzi tradizionali, senza la capacità che ne giustifichi l’impiego; la falsa coniatura nell’imitazione dei grandi modelli pei quali oggi nessuno è abbastanza forte, abbastanza fine, abbastanza sicuro di sé, abbastanza valido; l’eccesso di vitalità nei dettagli; la passione ad ogni costo; la raffinatezza come espressione della vita ammiserita; sempre più nervi in luogo di carne. – Io non conosco un solo musicista il quale sia oggi capace di tagliare un preludio in pieno legno: e nessuno lo conosce… Chi è celebre oggi, se paragonato a Wagner non fa musica «migliore», ma soltanto musica più indecisa, più indifferente: – più indifferente perché l’incompleto è demolito dalla sola esistenza del completo. Ma Wagner era qualcosa di completo; era la corruzione completa; Wagner era il coraggio, la volontà, la convinzione nella corruzione -; che importa dopo questo Giovanni Brahms!… Il suo successo è fondato sopra un malinteso tedesco: lo si prese come antagonista di Wagner – si aveva bisogno di un antagonista! – Ciò non vi fa della musica indispensabile, ciò vi fa innanzi tutto troppa musica! – Quando non si è ricchi bisogna avere la fierezza della povertà!… La simpatia che Brahms innegabilmente inspira qua e là, astrazion fatta dagli interessi di partito, dai malintesi di partito, fu per lungo tempo un enigma per me: fin quando scoprii finalmente, quasi per caso, ch’egli agiva sopra un particolar tipo di uomini. Egli ha la malinconia dell’impotenza: egli non crea abbondanza, ma ha seta d’abbondanza. Se si prescinde dalle sue imitazioni, da quel ch’ei prende a prestito dalle forme stilistiche dei grandi maestri antichi e dagli esotici moderni (- è un maestro nell’arte del plagio -) non resta al suo attivo che il desiderio infinito… E’ quel che intuiscono i languidi e i soddisfatti d’ogni sorta. Egli è troppo poco personale, troppo poco concentrato… E’ quel che comprendono gli «impersonali», i periferici – ed è così che lo amano. Egli è, in ispecie, il musicista d’una certa specie di donne incomprese. Cinquanta passi più in là e ci s’incontra nelle wagneriane – allo stesso modo che cinquanta passi più in là di Brahms ci s’imbatte in Wagner -: le wagneriane, tipo più caratteristico, più interessante e più grazioso. Brahms è commovente in quanto sogna misteriosamente e s’affligge su sé stesso -, è in questo ch’egli è «moderno» -; diventa freddo, non ci interessa più non appena si fa raccoglitore dell’eredità dei classici… Volentieri si cita Brahms – come erede di Beethoven: non conosco eufemismo più prudente. Tutto ciò che oggi ha qualche pretesa al «grande stile» in fatto di musica è, appunto per ciò, falso rispetto a noi oppure falso rispetto a se stesso. Cotesta alternativa dà abbastanza da pensare: poiché racchiude una casuistica sul valore delle due ipotesi. «Falso rispetto a noi»: contro ciò l’istinto della maggioranza protesta – non si vuol essere ingannati -; quanto a me, io preferirei certamente questo tipo all’altro («falso di fronte a sé stesso»). Tal è il mio gusto. – Per esprimermi più chiaramente alla maniera dei «poveri di spirito»: Brahms – o Wagner… Brahms non è commediante. E’ possibile, da Brahms, farsi un’idea d’una gran parte degli altri musicisti. Non dico niente degli astuti imitatori di Wagner, per esempio di Goldmark: la sua Regina di Saba appartiene al bestiario. Quel che oggi può esser fatto, quel che può esser fatto con mano maestra, son le piccole cose. Solo qui la lealtà è possibile ancora. Ma nulla può guarire la musica dal suo male fondamentale, la fatalità d’esser l’espressione d’una contraddizione fisiologica, d’essere moderna. Il miglior insegnamento, l’educazione più conscienziosa, l’intimità più assoluta ed anche l’isolamento nella compagnia dei vecchi maestri – tutto ciò non è che paliativo, non è che illusorio, per parlare più severamente, poi che il temperamento non più risponde alle condizioni prime: sia la forte razza d’un Haendel o l’esuberante animalità d’un Rossini. – Ciascuno non ha il diritto di guidare sé stesso sulla scorta d’ogni maestro: questo è vero per epoche intiere.- Non è impossibile che esislano ancora, in qualche parte d’Europa, residui di razze più forti, composti d’uomini superiori al loro tempo: ciò ci consentirebbe di sperare ancora in una bellezza tardiva e in una perfezione, anche nella musica. Ciò che ancora può accaderci di meglio è d’incontrare delle eccezioni. Con questa regola, che la corruzione è sovrana, che la corruzione è fatale, non v’è dio che possa salvare la musica.

EPILOGO.

Ritiriamoci infine, per prender fiato un istante, dall’angusto mondo cui lo spirito è condannato da ogni ricerca sul valore delle persone. Un filosofo sente il bisogno di lavarsi le mani dopo essersi occupato si a lungo del «caso Wagner». – Darò qui la mia nozione del moderno. – Ciascuna epoca trova nella misura della sua forza un campione che determina le virtù che le sono consentite e le virtù che le son vietate. O essa ha le virtù della vita ascendente; e allora resiste fin nelle più profonde sue radici alle virtù della vita discendente. Oppure si manifesta essa stessa come vita discendente; e allora ha pur bisogno delle virtù della Decadenza, e repugna a tutto ciò che non si giustifica se non per la plenitudine e la sovrabbondanza delle forme. L’estetica è legata in maniera indissolubile a queste premesse biologiche: v’è un’estetica di decadenza; v’è un’estetica classica, – il «bello in sé» è una chimera come l’idealismo. – Nella più stretta sfera dei così detti valori morali non si potrebbe avere un antagonismo più forte che tra la Morale dei Padroni e la morale delle valutazioni cristiane: quest’ultima è cresciuta sopra un terreno assolutamente morbido (- gli Evangeli ci presentano esattamente gli stessi tipi fisiologici che si trovan dipinti nei romanzi di Dostoiewsky); la morale dei Padroni invece («romana», «pagana», «classica», «Rinascimento») è il simbolo della constituzione perfetta, della vita ascendente, della volontà di potenza come principio di vita. La morale dei Padroni è affermativa, per istinto, quanto la morale cristiana è negativa (- «Dio», il «Di là», l’«Abnegazione», altrettante negazioni). L’una comunica la sua plenitudine alle cose – transfigura, abbellisce, razionalizza il mondo -, l’altra impoverisce, impallidisce, imbruttisce il valore delle cose, nega il mondo. Il «mondo» è un termine d’ingiuria cristiana. – Queste antitesi nell’ottica dei valori sono entrambe necessarie: sono punti di vista ai quali non ci si approssima con argomenti e confutazioni. Non si confuta il Cristianesimo, come non si confuta una malattia degli occhi. Aver combattuto il pessimismo come una filosofia fu il colmo dell’idiozia sapiente. Le nozioni di «errore» e di «verità» non hanno, a me sembra, alcun senso in ottica. – La sola cosa che s’abbia a combattere, è l’ipocrisia, la cattiva fede istintiva, che rifiuta di accettare quelle antitesi in quanto antitesi: com’era ad esempio la volontà di Wagner che, in materia d’ipocrisie siffatte, raggiungeva una vera maestria. Gettare uno sguardo furtivo sulla morale dei Padroni, la morale nobile (- la Saga islandese n’è press’a poco il più importante documento -) e, nello stesso tempo, aver sulle labbra la dottrina contraria, quella dell’«evangelio degli umili», del bisogno di redenzione!… Io ammiro, sia detto di passaggio, la modestia dei cristiani che si recano a Bayreuth. Io stesso non sopporterei certe parole nella bocca d’un Wagner. Vi sono idee che nulla hanno a vedere con Bayreuth… Come? Un Cristianesimo approntato per wagneriane, forse da wagneriane – giacché nei suoi vecchi giorni Wagner fu del tutto feminini generis? – Ancora una volta: i cristiani d’oggi mi sembran troppo modesti… – Il bisogno di redenzione, la quintessenza di tutti i bisogni cristiani, non ha nulla a che fare con certe pagliacciate: cotesto bisogno è la più franca espressione della decadenza, la più sincera e la più dolorosa affermazione in simboli e pratiche sublimi. Il cristiano vuole disfarsi di sé medesimo. Il me è sempre odioso. – La morale nobile, invece, la morale dei Padroni, ha le sue radici in una trionfante affermazione di sé, – è un’affermazione della vita per sé stessa, una glorificazione della vita per sé stessa; ha egualmente bisogno di simboli e di pratiche sublimi ma soltanto «perché il suo cuore trabocca». Tutta la bellezza dell’arte, tutta la grande arte emana da questa morale: la lor comune essenza è la riconoscenza. D’altra parte non le si può negare una istintiva avversione pei decadenti, un disprezzo, un orrore anche per il loro simbolismo: e questo sentimento servo loro quasi di dimostrazione. Il Romano nobile considerava il Cristianesimo come una foeda superstitio: ricordo qui il sentimento che l’ultimo tedesco di gusto distinto, Goethe, aveva per la croce. In vano si cercano contrasti più preziosi, più necessari… Ma una doppiezza come quella della gente di Bayreut non è più una eccezione oggi. Noi tutti conosciamo le idee poco estetiche del borghese cristiano. Quella innocenza nella contraddizione, quella «conscienza tranquilla» nella menzogna è moderna per eccellenza, quasi diventa la definizione della modernità. L’uomo moderno rappresenta, dal punto di vista biologico, una contraddizione di valori; è seduto su due sedie; dice d’un sol fiato si e no. Perché meravigliarsi se, nei giorni nostri, la doppiezza è divenuta arte ed anche genio? Se Wagner è vissuto «fra di noi»? Non senza ragione ho chiamato Wagner il Cagliostro della Modernità… Ma noi tutti, senza saperlo, senza volerlo, abbiamo entro di noi valori, parole, formule, morali di origini opposte, – noi siamo, fisiologicamente parlando, falsi, pieni di contraddizioni… Una diagnostica dell’anima moderna – di dove comincerebbe? Da un taglio risoluto in questa agglomerazione d’istinti contradittori, da una vivisezione operata sul suo caso più istruttivo. – Il caso Wagner è, pei filosofi, un colpo di fortuna: questo scritto è inspirato, si comprende bene, dalla riconoscenza…

Friedrich Nietzsche (Il caso Wagner)